2. Vittorio Pozzo Alpino eterno
Ha giocato nel Torino, è stato arbitro, ha viaggiato tanto per studiare cose di calcio, specie in Inghilterra, è stato l’artefice occulto ma vero del Grande Torino, con i suoi consigli al mitico presidente Ferruccio Novo, sapeva le lingue, era giornalista a «La Stampa» anche se gli facevano fare (gratis) il commissario tecnico della nazionale, e per scrupolo sabaudo talora non dava e non pubblicava – troppo facile – le notizie al sé stesso giornalista, rischiando i cosiddetti «buchi». Personaggio assolutamente irreale per il nostro tempo, Vittorio Pozzo, ma perfettamente ambientato nel suo. L’apice della fama negli anni Trenta, quando la sua Italia vinse due titoli mondiali, nel 1934 in casa e nel 1938 in Francia, e conquistò nel 1936 ai Giochi di Berlino il suo sinora unico oro olimpico.
Pozzo, di famiglia benestante, sposato a una che adesso si definirebbe una stilista, molto orso, scriveva in un italiano da manifesti di reclutamento, avverbi pochi e solenni («immantinente» per subito), sapeva di calcio e leggeva bene le partite, che raccontava onestamente, con stile semplice. Ovviamente fu sottostimato da Gianni Brera, e lo ricambiò. In redazione stava poco, era inviato speciale, per contratto si sceglieva la partita. Non si parlava con Ettore Berra, il capo della redazione sportiva, e mediava fra i due, interpretando silenzi e musi sempre lunghi, Luigi Cavallero che sarebbe morto col Torino a Superga. Era introverso, sempre ai limiti dell’arrabbiatura, misteriosa o no. Non era fascista anche se il fascismo lo usava – saluto romano, visite al Duce e altre amenità – per celebrare le vittorie della grande razza italica (con tanti forti calciatori oriundi sudamericani). Era monarchico, sabaudo, ma soprattutto alpino, anzi alpino eterno.
Buon amico di mio papà, che era socio attivo del Torino, un giorno gli telefonò: lo sapeva dotato di auto, lui non la teneva, gli chiese un passaggio alla stazione principale di Torino, per accogliere un giocatore romagnolo che veniva a provare per la Juventus. Io ebbi l’onore di fare parte della piccola spedizione, sull’Aprilia di famiglia. Dunque: il commissario tecnico della nazionale chiede un passaggio in auto ad un noto socio del Torino per andare a prendere un giocatore e portarlo in visione alla Juventus. Tutto normale allora, quando il calcio era sport. Il ragazzino arrivava dalla Biellese (Pozzo e mio padre entrambi biellesi), si chiamava Ermes Muccinelli, era bassotto ma capace assai, una bella aletta si diceva allora, nella Juve e anche in nazionale fece a lungo coppia con l’emergentissimo Boniperti.
Quasi un ventennio dopo mi trovavo da giornalista con Pozzo, ai Giochi di Tokyo 1964. La casa della stampa straniera confinava col villaggio olimpico, e lì avevamo la nostra mensa. Io cercavo di stare il più possibile a tavola con Pozzo, per due ragioni. Prima ragione, me lo aveva chiesto Paolo Bertoldi caposervizio sportivo a «La Stampa», dicendomi: «Cerca di portare Pozzo in giro per tanti sport, sennò lui va di fisso a fare servizio sul calcio e solo sul calcio, mi manda una pagina su Bulgaria-Marocco e io devo pubblicarla, lui è sacro per il direttore De Benedetti, e tu sai che tipo terribile è». Il grande De Benedetti era quello che chiedeva ogni giorno che nello sport si parlasse «di quel ciclista, Bartàli», diceva il cognome con l’accento tonico per controllare se qualcuno dei suoi redattori servili osava dirgli che la pronuncia giusta era Bàrtali. Bertoldi mi aveva anche fatto avere un preziosissimo biglietto per la cerimonia inaugurale e progettavo di usarlo come arma letale nell’operazione di conquista nei riguardi di una hostess giapponese, che però mi preferì un rude pistard italiano.
Seconda ragione, lì per «La Stampa» era anche il celeberrimo Paolo Monelli, scrittore tuttologo esordiente però allo sport, un tipo aristocratico, col monocolo, di quegli inviati davvero speciali che stavano due settimane in un posto per scrivere ottanta preziosissime distillatissime righe. Stando a pranzo con Pozzo stavo anche a pranzo con Monelli, lui pure alpino in perpetuo reducismo, e mi bevevo il suo dire.
Erano Giochi tardivi, il 17 settembre compivo a Tokyo ventinove anni, pensai di offrire ai due supercolleghi una bottiglia di vino, dopo tanta birra. Era il 1964, il Giappone pre-boom offriva carissimi vini francesi falsi, con etichetta bene imitata, ne comprai una bottiglia, la portai in tavola, Monelli la studiò e mi disse, più o meno: «Ragazzo, se non puoi offrirci vino francese o italiano non importa, auguri lo stesso ma lasciamo perdere questa roba». Io volevo morire. Pozzo si alzò con non so più quale pretesto, salì nella sua stanza, ritornò con un preziosissimo fiasco di vino (Chianti, ricordo bene) consegnatogli in Italia dai suoi alpini. «Lo metto io, per Ormezzano» disse. Sapevo del sacrificio immane, mi commossi, anche perché era avaruccio, come ogni biellese ortodosso (mio padre strageneroso era considerato dai suoi conterranei un traditore). In un suo viaggio in Spagna era stato incaricato dal collega Cavallero di comprargli una bottiglia di allora pregiato e assai raro cognac iberico, aveva intascato i soldi, tornato a Torino non aveva parlato mai della bottiglia. Cavallero non osava chiedergli notizie, aspettò che in redazione il discorso cadesse sui liquori per dirgli: «Commendatore, a proposito, ti avevo dato i soldi perché mi comprassi una bottiglia di cognac in Spagna…». E lui: «Scusami, non te l’ho detto: alla dogana mi hanno controllato i bagagli, c’erano due bottiglie di cognac, troppe, me ne hanno confiscata una, la tua». Pozzo a Superga, il 4 maggio 1949, avrebbe riconosciuto anche il corpo di Cavallero, lui che aveva ricevuto dalle autorità il compito di dire l’ultima parola sulle salme straziate.
A Roma olimpica avevamo vinto molto nel ciclismo, così convinsi Pozzo a venire con me alle gare su pista, c’era la possibilità di sentire tante volte l’inno di Mameli, che a lui piaceva un sacco. Ci volevano tre ore di trasferimento per la località del velodromo, su un lento treno, in viaggio Pozzo dormiva, la leonina testa canuta scendeva ad appoggiarsi su una spalla. Ogni tanto apriva gli occhi e in dialetto piemontese mi chiedeva come facevo di cognome: «Ormezzano, commendatore». «Ormezzano figlio di Ezio?». «Sì, commendatore». «Io conoscevo suo padre» (era morto sette anni prima). «Lo so, commendatore, mi parlava tanto di lei».
Nuova pennica, la sveglia, la domanda, quella di prima. Tutto come prima. Era stanco, stufo del lavoro anzi del mestiere, sarebbe morto quattro anni dopo, mai aveva smesso di vedere e resocontare la partita. In quell’Olimpiade vincemmo nel ciclismo su pista appena un oro, mi spiacque, gli avevo garantito tanti inni di Mameli. Pochi giorni prima della morte lo vidi e lo salutai in stazione, era la domenica mattina prestissimo, andava alla partita.
Un grande uomo, enorme, unico. Non se ne fanno più, di uomini così, e se li si facessero non si saprebbe proprio dove metterli.