3. Giuseppe Ambrosini L’Avvocato

Arrivai al ciclismo del Giro d’Italia che Giuseppe Ambrosini, detto l’Avvocato (e si «sentiva» la maiuscola), era il giornalista ottimo massimo sulla piazza. Era direttore della «Gazzetta dello Sport», era direttore del Giro d’Italia, era detentore in quel di Settecrociari Massa, appena fuori Cesena – in un capanno che riproduceva quelli per la pesca nei canali che finivano sull’Adriatico – del più colossale archivio cartaceo del ciclismo italiano e magari anche mondiale. Romagnolissimo pur se nato nelle vicine Marche (tipo Valentino Rossi), aveva un fratello poeta, Luigi, che lo legava ai poeti e scrittori, appunto romagnoli, di cose belle della bicicletta. Viveva con la moglie e una donna di servizio che sapevano di ciclismo quasi quanto lui, era sempre gentile, cordiale, espansivo. Nel 1963 seguì il Giro d’Italia per «Tuttosport», dopo avere lasciato la «rosea» e la direzione della corsa. Un dissidio burocratico tra Federazione e Lega portò la giuria federale ad abbandonare la gara, dove due corridori indossavano la maglia tricolore, uno (Fontana) riconosciuto campione d’Italia dalla Federazione, l’altro (Mealli) dalla Lega. Si andò avanti in emergenza improvvisando sulla nostra auto sedute di una minigiuria itinerante, appoggiata ad esperti o presunti tali, sotto la presidenza di Giuseppe Ambrosini che, con l’aiuto del ragazzino che stava con lui nell’auto trasformata in tribunale mobile, emetteva i comunicati di omologazione della tappa, con tanto di penalizzazioni, diffide, multe. Per me fu una grossa esperienza, che durò pochi giorni, sino a che i due enti non fecero la pace. Per lui fu routine, considerata la sua riconosciutissima esperienza e la sua rispettatissima autorità.

Neanche viaggiando sull’auto più importante del Giro riuscii a stare più vicino ai corridori. L’Avvocato si fidava dell’autista ma voleva sempre procedere molto davanti al gruppo: «Guai se siamo noi a provocare un incidente». Diceva che tanto lui sapeva tutto dei vari comportamenti dei girini, e magari aveva pure ragione, ma io ci rimanevo male, ogni tanto glielo dicevo, e lui: «Credi a me, conta soltanto la media, se è alta vuol dire che c’è competizione, sennò che c’è flanella». Mi dava del tu, io gli davo, si capisce, del lei. Calcolava la media continuamente. Accettava l’alt per l’imprescindibile pranzo soltanto se il vantaggio sulla corsa era più che sufficiente per una sana sosta, e si fidava unicamente delle trattorie che si segnalavano all’esterno con la sagoma in cartone di un cuoco: diceva che quello era il segnale giusto. Mistero. Mangiava quasi nulla, a sorsetti e bocconcini, una minestrina e una bistecchina che mi lasciava dopo il primo morso. Sempre diceva della superiorità dei prodotti mangerecci del suo orto. Smaniava perché la sosta alimentare gli impediva di compitare bene le sue medie. Un giorno gli dissi: «Avvocato, se i corridori si trovano la strada sbarrata da un dinosauro e debbono aggirarlo con cautela, la media risulta alta e lei che non sa li accusa di pigrizia…». Mi rispose che non c’erano più dinosauri.

Era simpatico, democratico, puro, cortese anche con chi – pochi – non lo riveriva come un nume. Scriveva limpido, sin troppo, sino a rasentare il tema in classe: roba per libri più che per articoli, e infatti ne pubblicò alcuni, di pura tecnica. Ai corridori nuovi chiedeva le misure: statura, peso, braccia, gambe, fianchi, capacità vitale, pulsazioni. E si arrabbiava se manco loro le conoscevano. L’antropometria gli diceva cose secondo lui definitive su ogni atleta. Mi parlava benissimo di Torino, dove lui caposervizio a «La Stampa», ribadisco, aveva organizzato e imposto la prima redazione sportiva vera e propria all’interno di un giornale politico, grande novità, suo grande primato.

Una volta Gino Bartali mi disse: «Per farti sapere quanto lui e i giornalisti in genere un tempo erano importanti: io avrei vinto anche il Tour de France del 1937, ma dovetti ritirarmi, enfatizzando una qualche leggera perdita di sangue, su ordine di Ambrosini, il papa dei giornalisti sportivi italiani. Lui voleva che io lasciassi la corsa a un torinese, Camusso, che col suo successo avrebbe alzato la tiratura del suo giornale, “La Stampa”». Pensai che mi prendesse in giro, comunque fui così stupido da parlarne ad Ambrosini. Una sera dopocena al Giro ci fu una sfida a boccette fra lui ed il radiocronista Enrico Ameri, due che volevano sempre vincere, passò in quel bar proprio Bartali, io sadico dissi qualcosa di quel Tour 1937, Ambrosini gli sparò una frase derisoria, Gino replicò, l’atmosfera si fece tesa, ci fu una disputa su un punticino fra Ameri e l’Avvocato, voci alte, voci dure, degenerazione, insulti brutti cattivi e persino uno scambio di pallate fra i due giocatori: usando le boccette di avorio. Poi la pace, faticosa. Forse fu tutta colpa mia. Mi autodenuncio perché l’episodio serve a dire della portata del giornalista di allora, depositario di segreti militari, capo di diplomazie segrete. Adesso non contiamo quasi nulla, ancorati come siamo a chat e blog e tweet depersonalizzanti, ma forse valiamo davvero poco. In ogni caso il Giro d’Italia fra non molto (non è un pronostico del genere fantadivinatorio, è una previsione su basi matematiche) sarà mandato in onda da telecamere montate su droni e i giornalisti residui staranno tutti a casa davanti al televisore. E la media per i giovani sarà soltanto una quantificazione della birra.