4. Bruno Raschi Fratel poeta

Bruno Raschi fu cantore pieno, totale nell’età postcantori. Omaggiò il ciclismo «di prima», frequentandolo, ripercorrendolo, imponendolo sulla «Gazzetta dello Sport».

È stato, Raschi, il mio maestro in tanti sensi, compreso quello più normale. Al collegio torinese San Giuseppe, dei Fratelli delle Scuole Cristiane, nell’unico mio anno di istruzione privata (la prima media, dopo la scassata ma interessante scuola elementare di guerra da sfollato a Limone Piemonte), ho spesso avuto come supplente fratel Albertino, il nome diciamo talare di Bruno, che in quell’ordine religioso (non si prendevano però i voti) insegnava le belle lettere. Lasciata la tonaca senza problemi, Raschi era pervenuto a «Tuttosport» – dove non lo riconobbi e non mi riconobbe, quando anche io ci approdai – grazie ai buoni uffici di un fotografo sportivo torinese, Gino Bertazzini, e aveva convinto tutti della sua bravura assoluta. Scriveva piacevolmente bene, con studiata lentezza e presto gli fu affidato il ciclismo, dove Raschi, diplomatico ma assolutamente non molle, ebbe i suoi bravi scontri con il ciclofilo direttore Carlo Bergoglio detto Carlin.

Passato alla «Gazzetta», divenne la prima penna nazionale per il mondo della bicicletta. Ci siamo frequentati da amici pieni tutta una vita, sino a quando un tumore lo ha portato via. Ci siamo voluti autenticamente bene. Mai ci siamo sentiti rivali.

Raschi era poeta, davvero, però scriveva in prosa e scaricava gli empiti e le tenerezze sui pedalatori con frasi che spesso erano versi. Inventò anche una rubrica del dopotappa, la Ronda di notte, per una sorta di orgia onesta di pensieri assortiti. Gran signore, piaceva alle donne per i modi gentili e sereni e sottili, agli uomini lettori per i suoi sempre interessanti ragionamenti, postumi alla competizione, nonché per splendidi colpi di pennello in «dipinti» unici, di uomini e cose. È stato un grande giornalista, così grande che posso permettermi di dire che non amava lo sport, non riteneva il caso di conoscerlo troppo, semplicemente perché non era degno, questo sport, di attenzioni eccessive, finto aristocratiche, in realtà biecamente plebee. Faceva il tutto, miracolo, senza praticare snobismo alcuno. Io penso che lui addirittura odiasse lo sport praticato, sudato e puzzolente (ma nel suo ciclismo il sudore sapeva di fatica mistica, si evolveva in profumo). Lui che sapeva rimanere magro anche senza fare jogging. Le Olimpiadi dovevano sembrargli un grande casino, per di più organizzate di regola nell’estate del massimo ciclismo a tappe: e infatti le snobbò.

Io andavo al Giro e al Tour per divertirmi, lui per divertire, anzi per appassionare i lettori. Si sentiva in missione contro il cattivo gusto che cominciava a rompere gli argini per via delle gaglioffe interpretazioni del primo benessere, e gli pareva (ma forse era pure vero) che tutto il ciclismo fosse una sorta di baluardo, con le parole e i fatti «d’antan» opposti alla modernità dilagante, e intanto con la possibilità di conservare ed esaltare voglia del sacrificio, pudore del successo, insomma buona educazione nonostante l’alibi della fatica ferina, stravolgente. Tutto l’altro sport, in primis il calcio, gli sembrava protervo, empio, maleducato, urlante, nel migliore dei casi gaglioffo. Per questo mai fu in predicato per la direzione del giornale, dove ad Ambrosini era succeduto Zanetti, giornalista del calcio col culto della notizia pura, e però di Raschi rispettosissimo estimatore. Quando nel 1976 Gino Palumbo arrivò al comando della «Gazzetta», l’intesa del direttore con la prima firma continuò. Raschi aveva, è vero, la vicedirezione, ma era tutt’altro che esecutiva, era una semplice etichetta.

Ho accompagnato e talora anche affrontato in reportage concorrenti il mio fratel Albertino delle Scuole Cristiane, poi Fratello del ciclismo e casomai per me Fratello in ciclismo – il supplente dalla tonaca nera e dall’ampio colletto inamidato bianco –, sui dilemmi e anche sui drammi del doping, materia dura che ci siamo spupazzati insieme. Lui, non amante dell’attività fisica, ha vissuto con distacco l’involuzione dello sport tutto, e conseguentemente quella del giornalismo sportivo, che si è espanso e poi è imploso, riproponendosi diverso da quello di prima ma sempre impegnato a farsi credere il posto ideale e soprattutto comodo per essere in qualche modo sportivi, e sognare senza sudare. Penso a Bruno Raschi col suo fisico da lottatore di grecoromana, basso, quasi tozzo, penso a lui volutamente, saggiamente lento di scrittura, se immerso in questo nostro tempo, travolto dalle tecnologie, a lui amanuense per polemica: un affaraccio quanto a praticità e tempistica, ma sono sicuro che poi andrei a leggere che cosa lui ha scritto.