5. Carlo Bergoglio detto Carlin Il pittore di campagna
Carlo Bergoglio, Carlin per amici e nemici, è stato un cantore dello sport, però un cantore che canticchiava sottovoce, e con tanta attenzione per non fare troppo rumore. (Guido Ceronetti ha mirabilmente scritto del comandamento che presiede alla vita dei torinesi sabaudi come pure lui è: Non dare disturbo). Casomai Carlin cantava eccome con i suoi quadri, davvero melodiosi e pieni di musiche: si sentiva ed era pittore persino più che giornalista, e si era scelto, lui torinese di nascita, un paese di elezione – Cuorgnè – in quel Canavese che riempie di verde un vasto spazio vicino a Torino. Carlin ci andava per la vacanza, il riposo e soprattutto per dedicarsi alle sue pitture, scene di mercato del bestiame, campagne miniate, facce grevi e oneste di contadini o di compagni e amici del suo andare per piazze e per bar, sagrati affollati di chiesuole, pascoli sereni.
Arrivato nel 1945 a «Tuttosport» – appena nato come periodico bisettimanale e poi trisettimanale, quotidiano dal 1951 – dopo avere lasciato orfani delle sue caricature quelli del mensile molto illustrato «Guerin Sportivo», si era trovato catapultato alla direzione quando, il 4 maggio 1949, il fondatore Renato Casalbore era morto a Superga nello schianto del Grande Torino. Firmava il giornale ma lo lasciava fare, giorno dopo giorno, al caporedattore Giglio Panza, gran gentiluomo, vecchia volpe, vercellese piemontesardo come lui. I due si parlavano molto in dialetto. Carlin tifava Juventus e Bartali, Panza Torino e di riflesso Coppi grande fan dei granata, ma mai nasceva una discussione di tipo tifoideo.
Il giornale del mercoledì si titolava, subito sotto la testata di tutti i giorni, della scritta-logo EDIZIONE CARLIN, bella grossa e rossa. Io, che avevo acquistato a rate una Fiat 600, il martedì pomeriggio avevo l’onore di andare, la benzina a spese mie, dalla sede del giornale a casa di Carlin, un tre chilometri abbondanti di traffico nel centro cittadino, per ritirare, in due o anche tre riprese, i foglietti minuscoli su cui il direttore scriveva a mano l’articolissimissimo che avrebbe occupato il giorno dopo l’intera prima pagina e gran parte della seconda, con vignette ad hoc e con l’esame di tutto lo sport domenicale e addentellati con tutto l’universo sportivo. Avevo il privilegio di leggere Carlin in anteprima, ai semafori. Abile decifratore della sua scrittura, fui scelto da lui per accompagnarlo al Giro d’Italia 1959, a fare il trombettiere, come si definiva allora quello che dettava gli articoli dei grandi inviati agli stenografi, ed eventualmente a scrivere qualche cosina di mio. Carlin morì di commozione cerebrale il 25 aprile di quell’anno, poco dopo avere comunicato la sua decisone che mi riguardava, in memoriam fui mandato al Giro lo stesso (mi aveva regalato subito una sua tuta bianca smessa, la divisa d’ordinanza; e si era però dimenticato di darmi anche il basco nero, o forse ne aveva soltanto uno particolarmente caro).
Mi voleva così bene per tre ragioni. La prima perché sì, la seconda perché facevo lo sherpa dei suoi articoli. La terza perché spesso gli facevo proprio da autista, giornale-casa, lui non aveva l’auto e odiava i tram e temeva le tariffe dei taxi. Sapeva che tifavo Toro e Coppi, mai mi chiese di pronunciarmi esplicitamente. Sono giunto a pensare che temesse che per acquisirmi la sua benevolenza arrivassi a dirgli il falso, così perdendo la sua stima. Era avarissimo, in primis nei riguardi di sé stesso. La vedova, che mi conosceva bene, al funerale mi confidò di essere rimasta sbalordita da quanto denaro le aveva lasciato. Come direttore abbondava in lettere di servizio, anzi di diffida, praticamente soltanto verso chi usava nei suoi articoli il verbo «iniziare» come transitivo. Voleva che si usasse il verbo «cominciare», iniziare era intransitivo, la festa inizia. E nessuno inizia niente. Arrivava alla lettera raccomandata a mano. Altre (rare) lettere le scriveva per esortare a spendere poco quando si era fuori sede per lavoro. Obbligatorio a Milano un ristorante, centrale ma miserello, dal nome simpatico e se si vuole allusivo, e dal menu scheletrico, Il Pidocchio Rosso.
Però era un grande. L’ho sentito personalmente dire al telefono, a uno che all’epoca era uomo di enorme importanza in Italia e mica solo nello sport, di smetterla di fare tintinnare il ghiaccio nel bicchiere, aveva capito che stava bevendo troppo whisky ed era alterato. Tanta gente pensava che «Tuttosport» appartenesse alla famiglia Agnelli, comunque incombente sulla testata, ma quando l’Avvocato avanzava l’idea di fondere Juventus e Torino, Carlin lo minacciava sul giornale di appioppargli il soprannome di «Gioanin al fundeur», in piemontese Giovannino l’addetto alle fonderie (Fiat). Odiava il Totocalcio, diceva che scommettere sullo sport avrebbe rovinato i costumi degli italiani. Su un aggettivo, un avverbio, specie se in qualche modo avverso al Piemonte, si cimentava in lunghissimi duelli (scritti) con Brera. I due non avevano il minimo pudore di riempire i giornali delle loro beghe di scarso interesse per i lettori.
Brera diceva che Carlin scriveva come Anatole France, Carlin diceva che per capire Brera c’era bisogno di un traduttore dall’ostrogoto. Quando Carlin prendeva di punta un giornalista, suo o altrui, lo feriva a colpi di frasi tremende. A noi giovani diceva: «Non avventuratevi in articoli che sono pronostici o addirittura sentenze, lasciate che le cose avvengano poi dite la vostra, ci vuole niente a fare la figura del fesso». Era prudenza, saggezza, al massimo voglia di quieto vivere. Non paura. Lui non aveva paura di nessuno.
Adorava il ciclismo, lo conosceva a fondo e lo cantava pacatamente ma continuamente. Niente epica, tanta etica. Nessuno forse ha cantato Coppi bene come Carlin, che pure non lo amava e che ovviamente gli rimproverò l’adulterio con la Dama Bianca. Nessuno ha pianto forte il Grande Torino come Carlin, che pure era juventino. È stato onesto sino allo spasimo, al masochismo.
E poi c’erano le vignette, le caricature, le battute. Ne ricordo una, calcistica, quando l’Inghilterra, anno 1948, sconfisse l’Italia per 4-0, proprio a Torino, ricordo la vignetta-disegno delle due squadre, gli inglesi con i mutandoni, i nostri con le braghette fighette che finivano all’inguine. La didascalia: «Si vede bene che gli inglesi hanno più stoffa di noi». Ma la battuta non sempre c’era, bastava il ritratto, la caricatura mai troppo cattiva. Carlin era un cantore ortodosso, il suo amore lasciava poco spazio alle smancerie, ai lirismi ad effetto, i suoi sentimenti erano sodi, solidi, da contadino. Era pieno di sostanza e intanto avaro di essa: dava e si dava poco, cioè, anche se quel poco bastava ed avanzava per noi che lo adoravamo, per loro che lo combattevano. Uno come lui, oggi come oggi, non ce la farebbe ad accettare il tanto giornalismo gaglioffo e sguaiato. Farebbe il pittore, e sarebbe un gran bel pittore (mi ha regalato un ritratto a carboncino del mio brutto muso e due quadri a olio, visioni di Cuorgnè, uno mi è stato rubato, odio il ladro come odio pochi altri al mondo).