7. Dino Buzzati Il corpo estraneo
Giochi invernali 1964 a Innsbruck: c’è un nuovo treno veloce da Milano a Monaco di Baviera con fermata nella cittadina austriaca, mi telefona Rolly Marchi, conosciuto quattro anni prima ai Giochi in California. Trentino praticante, alpinista, giornalista part-time, scrittore di montagna, fotografo a Milano, inventore di gare di sci, subito grande amico. «Per Innsbruck prendi il treno a Torino, cambia a Milano, mangiamo nel vagone ristorante della nuova linea veloce, c’è con me uno che ti farà piacere conoscere».
Uno: il suo amicone Dino Buzzati, compagno di arrampicate, grande scrittore, valido giornalista (solerte cronista del «Corriere della Sera», dove agli inizi manco si sapeva chi lui davvero fosse, e dove divenne elzevirista emerito, quando la terza pagina tutta cultura pubblicava elzeviri; e anche titolista emerito alla «Domenica del Corriere»), occasionale cantore di sport e sportivi, specie di Fausto Coppi.
Buzzati era già molto noto, e poi Rolly me lo aveva raccontato bene, ed avevo pure sceso in sci il terribile canalone di Madesimo, forse la pista preferita dal bellunese montanino che lui era (aveva dedicato fra l’altro un articolo pieno di incubi appunto buzzatiani alla sua cupezza pericolosa, ai suoi agguati). Sapevo che era un timidone, anche e specialmente con le donne, e mi ero bevuto Un amore, suo romanzo lungo, lunghissimo per le sue abitudini, dove lui si raccontava finalmente pervenuto al massimo degli ardori sentimentali, e non solo, con Laide, ballerinetta della Scala, una che poi però aveva una seconda vita balorda anzichenò e diventava la sua durissima delusione. Storia vera, si diceva. Se Il deserto dei Tartari era autobiografico perché l’attesa del nemico nella fortezza Bastiani era la rappresentazione dell’attesa delle notizie forti da parte dei cronisti intorno al mitico tavolone della cronaca del «Corriere della Sera», Un amore era il libro dell’illusione amorosa patita sulla pelle.
La presentazione, il pranzo su rotaie di noi tre, io devoto ad ascoltare, a suggere ogni sillaba del grande provvisorio collega. Un cameriere solerte ha riconosciuto lo scrittore celebre e lo omaggia, lo serve con cura devota e cordiale insieme, cercando di aggirare la timidezza del suo idolo. Quando scendiamo a Innsbruck lo saluta addirittura affettuosamente, gli dice che ha appena finito di leggere Un amore, Buzzati gli sussurra un grazie impacciato, il cameriere gli rimanda: «Però quella Laide, che porcona!». Buzzati non dice niente perché soffre tutto.
A seguire Innsbruck, antivigilia. Al giornale avevano deciso tardi di mandare anche Buzzati, lo scrittore, lui ha in corso la pratica di accreditamento, senza il badge non sei nessuno, non vai da nessuna parte. Buzzati deve aspettare un paio di giorni, per fortuna la delegazione olimpica italiana ha scelto, come attaché incaricato di curare i rapporti con gli organizzatori, proprio il corrispondente del «Corriere della Sera» da Vienna, si chiama Moncherio, e riesce ad accelerare la pratica-Buzzati. Lo scrittore però trascorre due giorni fuori dell’edificio degli accrediti: ogni tanto Moncherio appare dietro ad una porta a vetri e gli fa solennemente segno di stare tranquillo.
Questa attesa produce dopo qualche giorno, a Giochi iniziati, un bellissimo, angosciato ma divertente elzeviro di Dino Buzzati sul «Corriere della Sera», con tutti gli incubi parakafkiani di uno che si sente un nessuno, e il suo conforto grazie alle provvide epifanie di Moncherio al di là della porta vetrata. Intanto i Giochi hanno avuto inizio, Buzzati accreditato segue le gare più importanti o più stimolanti, sempre con Rolly, sempre con me visto che non me ne perdo un atomo. Il treno veloce porta da Milano il «Corriere» dell’elzeviro dove Buzzati descrive Moncherio come l’uomo di tutte le provvidenze, una specie di divinità, e gli dà un cognome buzzatiano assai, Monkerius, che sa di mistero, di magia.
Arriva dunque il giornale anche a noi, siamo in non so quale tribuna stampa, Moncherio legge l’elzeviro, abbraccia Buzzati, lo ringrazia e lo uccide. Gli dice. «Sei stato troppo gentile con me, io ho fatto solo quello che dovevo fare, lietissimo di aiutarti. Mi descrivi come un mago del bene, troppo. Peccato che hai sbagliato il mio cognome, io mi chiamo Moncherio, non Monkerius».
Tante volte il letterato catapultato nello sport, nell’attualità sportiva da scrivere a caldo, al volo, ha passato momenti duri nel nostro mondo. Ricordo il poeta Alfonso Gatto al Giro d’Italia: Verona, partenza appena fuori dall’Arena, ha piovuto ma adesso c’è il sole forte, lui mi dice: «Uffa questo caldo, sta asciugando tutta la pioggia, un mezzo guaio per me: se piove, una trentina di righe, metà articolo per “l’Unità”, sono già bell’e fatte, basta scrivere della strada scivolosa, dei corridori acrobati in continuo pericolo di caduta, della gente che li aspetta ai bordi della strada, anche se si bagna». Lui soffriva davvero a fare il compitino quotidiano. Credo che psicologicamente a Innsbruck Buzzati abbia patito più di tutti la «trasferta», da corpo estraneo, nel giornalismo sportivo, e di attualità. Però lo ricordo straordinario umile cronista nell’appuntarsi tutto, nel chiedere sempre, e umile nello scrivere.
Buzzati a Innsbruck fu probabilmente, almeno per me, il punto, il momento più alto dell’incontro fra letteratura e sport, se non altro per il giornalismo italiano. Nel 1972, ai Giochi di Sapporo, Giappone, Rolly Marchi mi disse, parlandomi da lontano in sala stampa: «Ho telefonato proprio adesso in Italia, è morto Buzzati». Mi sentii onorato dalla sua primizia, riservata a me, intanto che in qualche modo orfano, io piccolo scrivano, per la morte di un grande scrittore.