10. Mario Fossati L’uomo di tre giornali

Per molti giornalisti Mario Fossati, brianzolo, è stato appendice di Gianni Brera, scudiero di Gianni Brera, anche fratello di Gianni Brera. Per me è stato il massimo giornalista sportivo conosciuto, enorme ancorché inespresso, enorme perché pudicamente inespresso. Superpreparato, lucido, onesto, essenziale nel senso di preciso conciso tagliente. Articoli da cui non potevi togliere un aggettivo, una virgola: essenziali, ma intanto divertenti. Era timido, tutto lì. Si è sposato in tarda età, con le donne non si trovava, le ammirava troppo per avere anche la forza di parlare con loro. Ha vissuto da arrabbiato contro chi non voleva capire che nessuno sport al mondo è grande ed è vero, autentico come il ciclismo. Lui che pure sapeva scrivere bene di ogni sport, e benissimo di ippica (mai indagato il perché) e di alpinismo (il grande Walter Bonatti era di Monza come lui). Ricordando Mario Fossati devo ricordare Cesare Facetti, suo omologo quanto ad amore per il ciclismo ed arrabbiatura costante per le presunte ingiustizie patite dal suo sport beneamato. Il fatto è che i giornalisti ciclofili tifano per il ciclismo, neanche per i ciclisti, quelli calciofili godono dei mali del calcio, e casomai si aggrappano a giocatori-divi. Di Cesare ero il direttore, volevo mandarlo ai gran premi di Formula 1 in giro per il mondo, lui sapeva molto di automobilismo e teneva pure un nipote grosso pilota, ma preferiva la corsetta in bici di paese. Non se ne fanno più di tipi così.

Mario Fossati è stato l’uomo di tre giornali, sempre seguendo Brera: «La Gazzetta dello Sport», «Il Giorno», «la Repubblica». Era colto e riusciva a mascherarsi da omino sempliciotto, sprovveduto se del caso, pur di non dover subire discorsi falsamente colti. Conosceva il calcio ma non amava scriverne: troppo facile, la partita tutta lì, sotto i tuoi occhi, neanche qualche chilometro di strada da sgrumarsi. Le sue storie di corse in bicicletta sono state sempre perfette, mirabili, non un aggettivo di troppo ma neanche un aggettivo negato, all’uomo come al panorama, e con giudizi e pronostici tecnici da studioso profondo, da erotista pieno dello sport. Però lo metto pure fra i cantori, era anche uno di loro, eccome lo era, gonfio d’amore severo: e so che ne sarebbe contento.

Uomo della mia tribù di bassi e tozzi, Mario alla partenza delle corse guardava beato ed ammirato i ciclisti, anche gli scorfani (la maggioranza), come fossero tutti dèi. E lo erano, per lui. Si divertiva a inventare soprannomi, magnifico quello che appioppò a Nino Defilippis, il Cit, il Piccolo per i suoi conterranei piemontesi: Zikipaki, per dire del suo sapersi destreggiare nel gruppo, guizzando di qua e di là. Mario voleva vedere i pedalatori in azione, ma alla «Gazzetta» doveva sedere in auto con vecchi soloni che precedevano sempre la corsa di qualche chilometro, e quanto a Brera il nume gli diceva che bastava un’occhiata per capire tutto su chi era in forma e chi no, inutile stare a lungo fra quei puzzapiedi.

Era irascibile con chi gli toccava malamente il ciclismo, ma nessuno poi sapeva chiederti scusa bene come lui. Gestiva il convivio di Brera al Giro e al Tour disponendo i nostri posti intorno al Gesù Cristo, per la prima come per l’ultima cena. Penso mi abbia voluto bene, io ne ho voluto a lui. Quando finalmente smise di fare il perenne randagio, rarefacendo le sue sortite giornalistiche dietro agli atleti, cercò di dare un ordine alla sua vita di casa, in attesa di una moglie. Comprò il primo frigorifero della sua vita, partì per il Tour dimenticando qualcosa che doveva essere fatto, al ritorno il frigorifero aveva formato quantità enormi di ghiaccio che fuoriusciva dalla porticina mezza aperta, invadendo la stanza. Mario mi si raccontò così: «Ebbi paura che la massa di ghiaccio fosse conduttrice di elettricità, in fondo aveva conquistato tutto del frigorifero e un bel po’ della cucina, andai dunque all’interruttore generale e staccai la corrente nell’alloggio, poi con la mia piccozza da alpinista cominciai a rompere tutto quel ghiaccio ed a buttarlo nella vasca del bagno. Alla fine, piccola e sola, incastonata nel ghiaccio come dentro ad un immane diamante, vidi e reperii la sola entità cibaria che possedevo e che avevo lasciato lì. Una mela, fatta viola dal gelo, una mela per me simbolica come un mammut trovato incastonato nei ghiacci siberiani».

Ai Giochi olimpici di Tokyo 1964 Mario divideva, nella casa dei giornalisti, un alloggio con Gianni Brera e Giorgio Bocca. Era confinante con quello mio e di un paio di miei colleghi. Io ero ritenuto un mezzo esperto di cose giapponesi, ero già stato lì nel 1962 e nel 1963, e a lungo, ero preso molto sul serio, insomma. Alla sfilata inaugurale Bocca aveva scritto di bandiere delle nazioni del mondo abbassate, dalle varie delegazioni, passando davanti a Hirohito imperatore del Giappone, dunque davanti ad un criminale di guerra. All’ambasciata nipponica a Roma avevano letto l’articolo e lo avevano segnalato al loro governo. E a Tokyo Bocca era diventato oggetto di minacce quotidiane, anche di morte, formulategli per telefono, in varie lingue, italiano compreso, da nazionalisti accesi. Con Mario avevo sovente riso della tonalità solenne e anche ridicola della voce dello speaker ufficiale allo stadio olimpico. Un giorno telefonai io, cercando di Giorgio Bocca-san, del signor Giorgio Bocca, mi inventai una mia sorta di parlata giapponese, riproducendo frasi e soprattutto suoni, fonemi di quello speaker. Mi aveva risposto Mario, quasi urlavo, e da molto irato ogni tanto dicevo Gior Bocccaaaa-san, lui mi ascoltava, alla fine disse, così forte che sentii meglio la sua voce attraverso il muro che non dall’apparecchio, il muro che poi da quelle parti spesso è cartongesso e basta: «Ma vaffan…, giapponese di emme». Attaccai, bussai all’appartamento dove avevo telefonato, aprì lui, Mario, gli dissi che non era bello trattarmi così, ridevamo come matti mentre Bocca ci ammoniva a seguire di meno il ciclismo, che ti porta alla pazzia, e sottolineava che Mario di suo ci aveva messo per impazzire addirittura la ritirata di Russia. Il che era vero, Mario era stato soldato spedito su quelle nevi, con scarponi di cartone.

Per vederlo nuovamente ridere così dovetti attendere anni. Una Parigi-Roubaix, io guidavo l’auto, presi troppo vantaggio sui corridori, mi lasciai inghiottire da Valenciennes, una cittadina ambigua di strade ricurve e – era domenica – ancora vuota di quella folla che lassù, nell’inferno del Nord, tra vento e sentieracci e polvere di carbone, ti segna la via. Mi perdetti, passai due o tre volte nello stesso posto, chiesi due volte informazioni alla stessa persona, che non sapeva niente di niente. Mario poteva esplodere. Alla fine, ritrovata la giusta via, rischiai e gli dissi: «Bene, sapevo che volevi vedere tutta Valenciennes, ti ho assecondato». Mi rise addosso a lungo, rideva ancora e già ballavamo sul pavé fatto mettere da Napoleone iii per i suoi cavalleggeri e conservato in lunghi tratti, quasi musealmente, per la Parigi-Roubaix, per noi del ciclismo, per Mario soprattutto.

Nei suoi ultimi anni Fossati era quasi bieco verso il giornalismo sportivo della televisione, rifiutava ogni invito ad apparire sul video, criticava chi accettava. Diceva quel giornalismo becero ed aggressivo, e invadente nel nome del calcio pigliatutto. Non voleva fare del reducismo ipocrita, rifiutava inviti del genere «amarcord». Nello Bertellini, un giornalista musicologo innamorato delle due ruote, specialista nel telefonarti per gli auguri sotto Natale e Pasqua ed anche il giorno del tuo compleanno, mi confessò che Mario lo aveva trattato quasi male, altro che ringraziarlo per avergli ricordato una data. Trattar male, per Mario il timidone, significava semplicemente stare zitto mentre gli parlavi, di più non faceva. Ma secondo Nello quell’ultimo Mario era persino arrabbiato con il ciclismo che stava commettendo errori grossi, credetti a Nello e capii che allora Mario stava davvero per lasciarci.