13. Vladimiro Caminiti Barocco siculo-sabaudo

Il giornalista Vladimiro Caminiti che, proclamandosi scrittore juventinologo e accettando persino di essere chiamato poeta, riempì pagine e pagine di «Tuttosport» per trent’anni, sino alla morte nel 1993, era un grande cantore dell’amore sportivo, mentre è stato, fortunatamente per lui e per i suoi molti lettori, un limitatissimo studioso dell’erotismo. Il suo studiare sport si concentrava quasi esclusivamente sul calcio, sulla Juventus, sul ruolo del portiere (lui se la cavava bene fra i pali). Siciliano figlio di un maestro di violoncello, giovane cronista dell’«Ora» di Palermo, giornale di mitica sanguinosa pratica della libertà contro la mafia, chiamato al Nord da Antonio Ghirelli avvinto e stremato dalle sue lettere di collega ammirato e a priori devoto, smanioso di ficcarsi nel grande calcio specie juventino, per riempire quel «Tuttosport» anni Sessanta che lottava, a colpi di aperture ai giovani e comunque alle giovani idee, contro il gigante chiamato «Gazzetta dello Sport», Caminiti detto Camin ha poi lavorato tanto con me, suo direttore dal 1974 al 1979. Era molto colto, anche se non conosceva manco una lingua che non fosse quella di Dante, e se si cimentava con briciole di francese o inglese era fregato dall’accento siculo. Leggeva i poeti a mucchi, recepiva i grandi scrittori, specie russi, farciva bene i suoi scritti di citazioni e rimbalzi in zone altrui.

Era un cantore sdatato, nel senso che l’epoca dei cantori era finita. Io credo che nel nostro giornalismo sportivo mai nessuno abbia saputo scrivere così velocemente come lui, e scrivere in italiano sempre buono, talora ottimo, spesso lirico. Per spiegarmi devo fare un piccolo esercizio di presunzione personale: di me, e per tanti anni, hanno sempre detto che scrivevo in un amen un articolo, in due amen una pagina. Possibile, mi piace crederci. Però Vladimiro scriveva a velocità doppia della mia, la sua portatile sembrava gemere nella fatica di tenergli dietro obbedendo alle sue ditate sui tasti. E scriveva un italiano ben migliore del mio. I calciatori e i tifosi juventini lo amavano, i loro e dunque suoi rivali lo odiavano, buon segnale di coerenza e intensità del suo amore bianconero. Quando il giornale provò a trasferirlo sul Giro d’Italia, e poi anche su un’Olimpiade, non fu un buon affare, lui voleva calcio e calcio e calcio. È stato l’ultimo grande narratore di partite, stando a quello che era il racconto classico, che prescindeva ovviamente dalla televisione. Lui ha odiato la televisione, di cui ha capito subito la perversione onnivora e la facilità di far prendere sul serio anche i bischeri. Quando per «Tuttosport» strinsi un accordo con Radio Montecarlo, alla quale prestai i nostri inviati nei vari stadi, perché dal telefono in tribuna stampa raccontassero le partite in una loro versione, misi in campo anche lui e smisi quasi subito. Vladimiro infatti narrava la partita come se stesse dettando un suo articolo ai dimafonisti che in redazione lo registravano, e nel suo aulico dire, anzi declamare, gridava anche i punti e le virgole, con effetto comico. Si sentiva insomma impegnato come nella trasmissione al giornale di un articolo, e arrivava pure a fare lo spelling delle parole difficili, dando ad esempio le lettere del nome di un calciatore straniero.

Era nato giornalista come un altro nasce cinese. La prima persona singolare, di regola poco praticata se non in caso di testimonianze particolari, era per lui quasi un obbligo. D’altronde i suoi articoli erano unici, personalizzatissimi. Il suo italiano era solenne, barocco talora ma barocco serio, appassionato, a costo di essere contorto: barocco siciliano, insomma, non leccese. Camin creava soprannomi, convocava sempre sole e nuvole. All’estero amava perdersi, ricco di stupore e ironia, e diventava di un naïf persino struggente.

Era anche autoironico, non sempre volontariamente. Accettava critiche e rimbrotti, talora se li cercava per il gusto della sfida. Scomodo da gestire: se un collega sbagliava grammatica o sintassi o equivocava il significato di una parola, lui gli regalava un libro di scuola, un dizionario, e potevano volare gli insulti e i pugni. Quando voleva essere spedito dal direttore a quella certa partita non c’erano santi, riusciva a convincerti che senza la sua presenza in tribuna forse non l’avrebbero neppure giocata. Leggerlo d’altronde era sempre un piacere, anche quando era un dovere, anche quando si dissentiva eccome dal suo vedere le cose e raccontarle di conseguenza. Aveva un retroterra famigliare pesante e dolente, con passaggi tragici. Ma lo gestiva senza che niente interferisse nella sua attività di giornalista, nel suo rendimento di lavoratore. Dignità estrema, sempre e sacro rispetto del lavoro. Accadde anche quando un tumore lo condannò a fine rapida. Sino all’ultimo volle lavorare, gestendo il male con coraggio enorme, fachiresco, e sempre cercando di non dare disturbo, alla piemontese nel senso di riserbo sabaudo, lui che era siciliano totale.

Finché poté lavorare, dunque quasi sino all’ultimo giorno della sua vita, riuscì ad essere felice, usando il calcio come anestetico per tutto e tutti.