15. Sergio Zavoli Il morale della favola
Fino a qualche anno fa, diciamo ai suoi ottant’anni ben compiuti, quando ritrovavo Sergio Zavoli, classe 1923, giocavo con lui al gioco di far finta che si potesse rifare il suo Processo alla tappa, con il quale dal 1962 al 1970 lui aveva cambiato il ciclismo, dotandolo di personaggi assoluti, indipendenti dalle loro imprese e spesso ad esse superiori come impatto sulle genti. Personaggi appunto televisivi, su tutti il pedalatore abruzzese Vito Taccone, tenero e smargiasso insieme, eroe al Processo nei due anni in cui il Giro d’Italia fu quasi clandestinamente vinto dal silente piemontese Franco Balmamion, pedalatore pacato e regolare, nessun successo di tappa ma il chiaro dominio su quella classifica generale che per Taccone era un corpo estraneo alla corsa. La sua, di corsa, contemplava invece vittorie di tappa, annunciate, propiziate, declamate, benedette e glorificate da Zavoli, dalla trasmissione di Zavoli del quale spesso ero complice (partner in crime, dicono correttamente gli inglesi: e infatti recitavo senza neanche tropo sforzo la parte «sabauda» di corregionale di Balmamion, ergo nemico di Taccone).
Sergio è un grandissimo giornalista che ha fatto grandissima televisione dopo avere fatto grandissima radio. Scrive anche libri belli e profondi, poetici e filosofici insieme, gonfi di cose e persone, e ricchi di etica sana, di morale mai moralistica, morale di paesone come quella che pervade la sua Romagna. La sua matrice è sportiva, radiocronache di calcio su radio povere per i turisti di Rimini e dintorni. Le diramazioni spesso hanno voluto dire strade più importanti di quella presa agli inizi. I documentari storici e politici di Zavoli sono musei viventi del tempo a cui si riferiscono. Molto semplicemente io arrivo a dire che lo sport deve essergli grato per quanto di sé stesso Sergio ha voluto dedicare alle sue vicende, ai suoi attori: pronto, io, a subire i suoi affettuosi insulti perché – lo dice lui, ma non è vero – esagero.
Lo sport per lui significa il ciclismo, anche se l’ultimo Zavoli mi ha annichilito con la sua competenza calcistica. Il ciclismo radiofonico prima, televisivo poi, le tappe al Giro e al Tour nella calura, la «mausoleizzazione» di ogni edizione delle grandi corse con l’invenzione di personaggi da provvisori nella cronaca a semidefinitivi nella Storia. E la sua capacità lessicale straordinaria: Zavoli con un aggettivo fa virare tutto un discorso, lo tipicizza come soltanto suo. Due sole altre persone ho rintracciato, nel giornalismo, capaci di tanto. Loro due per iscritto, due donne, Oriana Fallaci e Lietta Tornabuoni.
Il mio primo Zavoli del ciclismo è radiocronista, con lui in auto i vari Enrico Ameri, Sandro Ciotti, Nando Martellini che poi in televisione avrebbe urlato tre volte agli azzurri del calcio – Madrid 1982 – «campioni del mondo!»… Devo a Zavoli l’evocazione divertita e divertente di un immortale Adone Carapezzi, radiocronista e straordinario umorista, capace di rovinarsi con classe giocando sui cavalli (tipo Beppe Viola, suo omologo cavallaro nella stampa scritta ma anche grosso autore di cabaret), e però capace anche di sfogliare un giornale, nella pirenaica zona di Lourdes, in un giorno caldissimo di un’estate del Tour, aspettando sull’auto Rai l’approssimarsi dei corridori lasciati molto indietro, e intanto di ricordare ai compagni di viaggio che in quei giorni la nazionale brasiliana di calcio, in tournée in Francia, dava tanti gol a pochi ad ogni club francese, in amichevole. Ma ecco la notizia di quel giorno, letta da lui su quel foglio locale e subito partecipata: la squadra intitolata alla città della portentosa grotta di Bernadette aveva miracolosamente vinto contro i sudamericani. A Lourdes, scandiva Carapezzi, Lourdes-Brasile 6-0.
Zavoli nella televisione poteva operare a fondo per lo sport, dettargli i dieci e anche i cento comandamenti, ma è stato assorbito da altre funzioni, persino più importanti. Chi sa di radiotelevisione italiana dice che prima di lui soltanto un giornalista aveva avuto, anche nello sport, intuizioni così vaste e però al suo tempo limitate da mezzi tecnici assai ridotti, oltre che da un decesso precoce: Vittorio Veltroni, il padre di Walter.
Devo a Zavoli la lezione di giornalismo impartitami quel giorno a Terracina, sul traguardo di una tappa del Giro d’Italia, quando si temeva che sotto la tribunetta crollata a pochi metri da noi ci fossero i corpi di due ragazze. Mi esortò a partecipare lo stesso alla trasmissione che andava a cominciare, al Processo dove ero ospite, non in nome del cinismo giornalistico ma del dovere di non spargere notizie o comunque suggerire ipotesi non controllate, e ovviamente in diretta, perché sennò si fa del documentarismo, non del giornalismo. Mi concesse, dopo, a paura passata, di dirgli che mi sembrava la voce gli avesse tremato un poco.
È stato presidente della Rai, presidente della Commissione di vigilanza sulle trasmissioni. Senatore eletto a sinistra, romagnolo praticante anche se residente a Monteporzio Catone che è un terrazzo su Roma, riminista felliniano anche se nato a Ravenna, adoratore (come me e poi Marchionne, che in fondo ci ha imitati) del pulloverino, del maglioncino, nemico di giacca e cravatta, capace di tirar fuori uno straordinario attore da un ciclista spappolato dalla fatica e anche in corsa, capace di mettere in castigo (niente Processo per un po’) Felice Gimondi, che in quel 1965 avrebbe vinto il Tour de France ma che in una delle prime giornate del Giro d’Italia si era lasciato scappare, in diretta, un «tutto un casino!» raccontando una fase agitata della gara. Il turpiloquio allora non era ancora stato sdoganato. Comunque sempre morale, Sergio, e non mai moralista: mica è facile.
Ho da parte una domanda per lui, la faccio qui. Sapeva o no che quando al Giro d’Italia mandava avanti il Processo, prenotandoci al via o spesso in corsa per salire con lui sul palco a fine tappa, c’era chi fra di noi giornalisti al seguito avrebbe dato un braccio per essere convocato nel cerchio magico della notorietà facile e repente, sapeva o no che giornalisti di grossi giornali sbavavano e schiumavano in attesa di una sua chiamata?
Una domanda per noi, invece, e bifida: lo sport di adesso ricco e sfrontato, ricco e amorale, libero e porno, quanto tempo avrebbe impiegato per piegare Zavoli intanto che simulava di piegarsi a lui? Oppure avrebbe vinto Sergio, o cambiando lo sport o non cambiando sé stesso, e dunque mandando tutto e tutti al diavolo?