20. Adriano De Zan Arrafat
La voce di Davide al telefono: «Ti chiamo dell’ospedale perché ad Adriano manca poco, ormai». Io non sapevo che Adriano stava morendo. Davide, che allora lavorava in televisione come commentatore delle telecronache di Adriano, mi disse: «Leucemia, quasi fulminante». Davide era Davide Cassani, ex corridore in bicicletta, poi arrivato alla conduzione tecnica della nazionale di ciclismo. Adriano era Adriano De Zan, il telecronista massimo, specializzatissimo, non prestato o smistato dal calcio, non proiettato su orbite vaste e totali come Zavoli.
In morte di un amico di tanti, e di un grande amico del ciclismo, ha scritto meglio di tutti Gianni Riotta, pochissime righe sulla «Stampa», una serie di ciclisti dai cognomi celebri e no, come allineati in un ordine d’arrivo, e poi un «ciao De Zan». Perché lui era la mitraglia dei nomi al traguardo, li conosceva tutti, altro che giudice d’arrivo, altro che confuso fotofinish. Lo ricordo quando mi invitava ad andare insieme in mezzo ai corridori che stavano per prendere il via, ad aiutarlo a trovare una caratteristica non solo fisica che servisse poi a lui per l’immediata identificazione. Aveva cominciato giovanissimo, a televisione incipiente, e aveva sgavettato assai. Non era mai polemico, neppure per eccesso di amore per il suo sport, che sembrava essergli nato dentro da sempre, anche se suo padre era celebre cantore di operette. Lui del ciclismo non è mai stato cantore desolatamente semplice, e nemmeno cantore, complicato o facilone, del culto del trucido per non dire del tragico, del poetico a tutti costi, del mito comodo e superefficace della fatica povera. Neanche è stato studioso spinto dei rapporti intesi come denti della moltiplica ancor prima che come relazioni umane, dei muscoli e delle ossa. E neppure ha pascolato nei vasti campi, polemici e sensazionalistici, del doping. E non è stato neppure un tuttologo, del genere magari approssimativo ma ottimo banditore del bene e del male, del chiaro e del buio. È stato soltanto (soltanto???!!!) un grande professionista, innamorato – e competente, mica facile appiccicare i due aggettivi alla stessa persona – del suo sport.
Le volte che lo spedivano fuori dal ciclismo De Zan era un altro. Innsbruck 1976, Giochi olimpici invernali, a lui lo slittino, mi convocò nel suo box da dove teletrasmetteva in diretta perché lo aiutassi a dire qualche cosina su quelle pazze che scendevano ai cento e passa all’ora su un trabiccolo. Era in crisi di parole, di informazioni. Mentre lo aiutavo nel bla-bla-bla fu preso da un violentissimo attacco di colica renale, male di cui ero espertissimo in prima persona. A gesti chiesi soccorso, intanto che Adriano, contorcendosi sul pavimento, mi diceva di andare avanti, c’erano ancora cinque minuti di mondovisione. Non sapevo che dire. Le discese erano dominate dalle slittiniste della Ddr, le tremende tedesche dell’Est, e tutte portavano caschi lunghissimi, altissimi, specie di tiare dei faraoni. Io, perfetto incosciente, rivelai serissimo, in mondovisione, che proprio non era questione di caschi studiatissimi nella galleria del vento, ma che per caso tutte le slittiniste della Ddr avevano teste lunghissime, supercrani speciali che puntavano verso l’alto. Mai sentito uno ridere di gusto e urlare di dolore come Adriano quella volta lì, mentre una funzionaria/inteprete mi minacciava di denuncia per provocazione di incidente diplomatico.
Ma cosa è stato allora Adriano De Zan, nella mia tipologia almeno? Se non cultore dell’amore o dell’erotismo, lo è stato della pornografia? Beh, voglio provare a dire di sì. La pornografia migliore possibile, la più stimolante, la più innamorata (del ciclismo), supportata dalle tecnologie. D’altronde Adriano, come me e altri milioni di italiani, era innamorato di Moana Pozzi… Esaltazione spinta, la sua pornografia, di un amore, peraltro studiato, per goderlo e farlo godere meglio, ad esempio indovinando un corridore in mezzo al gruppone, grazie ad un particolare, fisico o no.
Gli volevamo quasi tutti bene. Lo soprannominammo Arrafat per come era il più rapido di tutti noi ad afferrare (meglio: arraffare) i «premi di traguardo» riservati ai giornalisti in certe provvide sale stampa, tipo salumi o bottiglie. Per anni lui, Alfredo Martini, ex corridore e storico ct azzurro del ciclismo, ed io ci siamo scambiati barzellette, con l’impegno di raccontarcene una nuova ad ogni incontro, prima di qualsiasi convenevole. Ha vinto Martini, penso, con quella, fulminante nel suo dire toscano, sul tipo che entra in un bar, ha la faccia devastata da una smorfia costante, il barista suo amico gli chiede: «Ecché tu c’hai?» E quello: «Un trombo». E il barista: «Un trombo neanch’io, ma mica c’ho una faccia così». Adriano è sicuramente d’accordo e lo vedo che ride.