24. Fuori le donne
Primi anni Sessanta, Giro d’Italia, una donna al seguito e non era la miss tappa. Una donna giornalista, nonché bravissima ritrattista. Fiora Gandolfi, del «Corriere d’Informazione», mandata per colorare il Giro di disegni e anche scritti sapidi, speciali, molto suoi. Il regolamento vetusto le diceva di no, ma nessuno se ne curò. Bella, giovane, vivace, Fiora voleva sapere tutto. Fece in fretta a salire sul podio televisivo di Sergio Zavoli, a mettere avanti anche in video le sue idee su corsa e corridori: e ricordo una tappa con traguardo in un paese di montagna dell’Abruzzo, all’arrivo era esposto un enorme striscione contro i presunti nemici del pirotecnico «camoscio» locale Vito Taccone, capeggiati da me che sostenevo il regolarista Franco Balmamion. La scritta: «Fuori dal Giro le donne, gli Ormezzani, Vito non ti curar di loro ma passa e vinci», per dire cosa era allora il ciclismo, specialmente quello del Giro, nei cuori, negli affanni della gente.
Ovviamente Fiora era al centro di commenti salaci, quando non anche boccacceschi, di quasi tutti i maschietti, pur essendo lei cordiale e solare. Un giorno mi disse: «Sai, credo che sia lo stesso per un ragazzo quando va a fare il servizio militare, lui burba tra vecchi alpini». Perfetta. C’erano persino, fra noi maschietti stronzi, quelli che volutamente parlavano greve, parlavano sporco quando lei stava lì a sentire, tanto per farle sapere che al Giro si viveva come in caserma. Ci siamo rivisti pochi anni fa, a Venezia dove era andata ad abitare con Helenio Herrera, che aveva sposato. È riuscita, scrivendo alla regina d’Inghilterra, ad ottenere il posto che il marito voleva per riposare in eterno: una tomba nel cimitero degli inglesi. Sulla data di nascita scritta sopra la lapide gli ha fatto il regalo di credere che lui fosse del 1916, come HH diceva sempre anche se era nato nel 1910 (e c’erano volte in cui si spacciava anche per uno del 1920). Gliel’ho fatto notare, in fondo viene ingannata la regina, e lei: «Non metterti anche tu fra quelli che non hanno mai voluto perdonargli questa civetteria».
Fiora fu un’apripista, poi ecco Rosanna Marani, «Gazzetta dello Sport» e «Guerin», che scriveva anche libri di sport. Come ultimamente Enrica Speroni, «Gazzetta» anche lei. Poi ne sono arrivate altre, e nel 1982 ai Mondiali di ciclismo in Inghilterra «la Repubblica» mandò, affidandola all’esperienza del vecchio maestro Mario Fossati, una ragazza sveglia, dal viso che segnalava intelligenza e distribuiva simpatia, Emanuela Audisio. La quale secondo me è, molto semplicemente, il miglior giornalista sportivo d’Italia. Ha scritto libri importanti e soprattutto articoli sempre importantissimi per come lei sa scegliere e modellare gli argomenti e i personaggi. Sa bene l’inglese e sa la storia mica soltanto dello sport, sa di popoli ed etnie. Una notte di Olimpiade (erano le 24) nel 1988 a Seul, Corea del Sud, mi svegliò al telefono nella stanza dove dormivo, al villaggio dei giornalisti (lei alloggiava a qualche piano di distanza e sfasamento). «Senti, ho una notizia sensazionale sul doping ai Giochi, non chiedermi come mai, tu sai tutto di doping: se te la smisto, ci lavoriamo sopra insieme?». La notizia era quella della medaglia d’oro dei 100 metri tolta, appunto per doping, a chi l’aveva vinta poche ore prima, Ben Johnson canadese di origine giamaicana. Il massimo dei massimi. In Italia erano le 16, il tempo c’era. Grazie, Emanuela. Feci le mie telefonate e allertai a Torino la redazione della «Stampa», intanto che dalla finestra vedevo che il nostro quartiere si svegliava – effetto news – stanza dopo stanza, me lo dicevano le luci accese. Come Emanuela con i suoi colleghi, io svegliai i miei compagni della «Stampa» quando già avevo avviato il lavoro, per egoisticamente (io, almeno, lei non so) farmi almeno un poco bello e forte del vantaggio.
Quella notte aiutai Emanuela – che mai volle chiaramente dirmi come avesse avuto la notizia – sicuramente meno di quanto lei aiutò me, per questo mi sento in debito, e mica penso di pagarlo con queste righe, anche perché con esse dico quello che pensano tanti, e magari anche tante.
Le donne sono arrivate tardi nel giornalismo sportivo, stampa scritta e televisiva, magari hanno cominciato in video da presentatrici o vallette ma poi sono diventate giornaliste, giornalistissime, anche a 360° (vedasi Maria Teresa Ruta, Paola Ferrari, Ilaria D’Amico proteiforme, Sabrina Gandolfi). Hanno scritto di ciclismo e di calcio, di atletica e di nuoto, di sci e di pattinaggio, di boxe e di Formula 1. La prima firma sportiva della «Stampa» è una donna, Giulia Zonca, brava e ancora brava. Il «Corriere della Sera» ha spedito Elisabetta Rosaspina sulla vela della Coppa America (1992, San Diego, io c’ero) per scoprirla ottima nello scrivere anche di altre cose, poi ha affidato tanto sport a Gaia Piccardi. In televisione Stella Bruno è una brava inviata di Formula 1. A «Repubblica» una possibile epigona della Audisio, Licia Granello, si è autospostata sul giornalismo enogastronomico, beata lei. Intanto lo spogliatoio del calcio è stato vietato a tutti, uomini&donne, e così è finito quell’argomentare pruriginoso e tutto sommato cretino sui calciatori magari imbarazzati da una donna che entra e li vede nudi.
Comunque il problema sarebbe dei calciatori, non di lei. Mai pensato che la donna sin da giovanissima ha infinite occasioni di vedere anzi guardare con piena coscienza gli organi sessuali degli uomini (statue, dipinti, anche trattati di anatomia di solito virati al maschile), mentre l’uomo senza il soccorso della pornografia hard, pubblicazioni o spettacoli, o di amicizie intime, difficilmente vede e guarda gli organi sessuali di una donna nuda? A meno che quest’uomo sia un acculturato visitatore del Museo d’Orsay a Parigi e si soffermi davanti al quadro di Gustave Courbet sull’origine del mondo, dove si nota eccome una vagina bene pitttata, enfin. Secondo me le donne non sono più o meno capaci degli uomini a scrivere di sport. Sono semplicissimamente eguali. Lo dico per la ragione che secondo me sul lavoro non deve esistere distinzione fra i sessi che non sia imposta da esigenze di pura energia fisica, e amen, tutto il resto è dittatura sessuale, abuso, truffa. C’è chi mi dice che grandi passi avanti sono stati fatti dal tempo, primi Giochi olimpici dell’antichità, 776 avanti Cristo, quando alle donne non era manco permesso assistere – pena la morte – alle gare degli uomini, i quali fra l’altro correvano saltavano lanciavano lottavano nudi. O se si vuole dal 1896, sempre Atene, primi Giochi olimpici moderni, nessuna gara femminile in programma. Ma a me i passi sembrano cose logiche, non spinte di progresso.
C’è chi dice che la donna-atleta fa più in fretta, da sportiva praticante, ad affiancare nelle prestazioni l’uomo, se non a superarlo, di quanto lo faccia da giornalista. Possibile, ma in fondo non vuol dire niente. Comunque tutto è in piena evoluzione/rivoluzione, internet non ha sesso, ci sono radiotelecroniste donne in Italia e in tanto mondo (da noi Alessandra De Stefano, Elisabetta Caporale, Novella Calligaris), e casomai lo sport serve a molte donne, praticanti o semplicemente cultrici, spettatrici, per accelerazioni sul cammino della parità: si pensi a certi paesi arabi, dove purtroppo la donna e lo sport hanno bisogno per incontrarsi e frequentarsi di eroismi, di sacrifici a senso unico (cioè suoi di lei). E mi piace ricordare qui quello che mi disse il presidente del Comitato olimpico internazionale, lo spagnolo Juan Antonio Samaranch, teoricamente latino maschilista, non appena eletto alla carica suprema dello sport: «Se una donna mi chiede domani di far entrare nel programma olimpico una gara che l’uomo già disputa, non posso dirle di no». Anche se proprio in quei giorni lo stesso Samaranch provvide a far fuori dalla davvero grossa carica di direttore generale del Cio la mia amica Monique Berlioux, giornalista ma per me soprattutto ex nuotatrice del Racing Parigi (Monique specialista somma del dorso) con cui ci sfidavamo noi della Rari Nantes Torino. Fu lei a procurarmi il visto per la Cina nel 1966, quando a Parigi era la segretaria del ministro dello Sport Maurice Herzog, grande alpinista himalayano, primo bianco a salire sopra gli 8000 metri, rimettendoci alcune dita congelate. In seguito, Monique aveva finito per prendere troppo potere a Losanna sede del governo olimpico, in pratica sostituendo due presidenti, i predecessori di Samaranch: prima lo statunitense Avery Brundage (storico collezionista di vasi cinesi e nel 1936, i Giochi a Berlino, sospettato di simpatie hitleriane), sempre troppo lontano da Losanna; poi l’irlandese Michael Killanin, troppo spesso vicino a qualche pub. Per Monique ricca liquidazione e l’impegno di non rilasciare mai interviste sul suo lavoro alla guida dell’ente supremo dello sport, me lo disse lei a Parigi invitandomi a pranzare in un ristorante dove era obbligatorio mangiare le patatine fritte, le sublimi frites, con le mani: non lo scorderò mai.
Un problema è comunque sapere se, quando ci sarà la parità finale, ci sarà ancora lo sport da raccontare o ci sarà ancora un giornalista sportivo classico da applicare a questo sport. Le donne-atlete stanno facendo in fretta nella rincorsa all’uomo, ma lo sport moderno sta facendo anch’esso in fretta per autodistruggersi, o almeno farsi sempre più estremo e tecnologico, e così diventare brutto o quanto meno diverso: e magari le donne di questa bruttezza, o di questa imbarazzante diversità, si accorgeranno prima degli uomini, e prima degli uomini guarderanno altrove.