26. Ninna nanna alla bolognese
Il giornalismo sportivo bolognese ha costituito un mondo a sé negli anni del boom di quello sportivo italiano. Non per via, se vogliamo, della mezza ancorché piacevole anomalia di un quotidiano sportivo completo e interessante («Stadio») in una città non certo grandissima dove il calcio viveva la grande concorrenza del basket, ma proprio per via della particolare e totale anomalia sua propria.
Io ritengo che uno dei momenti più alti, nel senso di più divertenti, del nostro giornalismo sportivo tutto sia stato vissuto da alcuni privilegiati, fra i quali appunto chi scrive queste righe, a Montecarlo, paddock del Gran Premio automobilistico di Monaco di Formula 1, forse l’appuntamento più seducente del lungo campionato mondiale. Il diktat del Principato, forte di un turismo danaroso come nessun altro posto al mondo, da sempre ottiene, oltre alla intoccabilità dogmatica di un pericoloso circuito cittadino che altrove sarebbe un crimine, che le prove della corsa abbiano luogo non, come per gli altri circuiti, il venerdì e il sabato precedenti il giorno della gara, ma comincino il giovedì e abbiano una pausa, così da garantire una più lunga permanenza negli alberghi di lusso – o in porto per chi ha lo yacht – e frequenza del celeberrimo casinò da parte della ricca fauna. Il giorno senza prove va riempito nei reportage da chiacchiere, interviste, pissi-pissi bao-bao vari. Sempre che, per i giornalisti italiani e non solo, non ci sia un personaggio speciale al quale appoggiarsi per scrivere qualcosa di valido.
A Montecarlo in quel giorno arrivava, sul suo yacht nero, Gianni Agnelli, l’Avvocato magari senza iscrizione all’albo e sicuramente senza esercizio della professione forense, ma sempre con la maiuscola, la Fiat, la Ferrari, la Juventus, la sua Côte d’Azur con i ricordi degli anni ruggentissimi del tardo dopoguerra (e lui ci aveva lasciato quasi tutta una gamba, in un incidente stradale all’alba insieme alla diciassettenne Anne-Marie d’Estainville, mentre sfuggiva alla ex nuora di Winston Churchill). Lui ci stava all’intervista, si parlava di auto ma poi si divagava. Divagò Ezio Pirazzini, uno dei giornalisti bolognesi, sempre vestito con eleganza vera: lì a Montecarlo in giacca da yachtman calato sulla terra, stoffa blu forte e bottoni dorati, pantaloni bianchi, camicia bianca e farfallino scuro. Divagò e chiese all’Avvocato, quel giorno ancora più disponibile del solito: «Mi vuole dire che cosa devo fare con le mie azioni della Fiat? Ne ho tante, ogni giorno in Borsa calano. Sono davvero preoccupato». E Gianni Agnelli: «Pensi a me, che ne ho più di lei». Lui, l’Avvocato, era l’unico al mondo che potesse dire quella frase divertendo e non irritando: questione di classe, di sorrisi giusti, di parlata amica. Comunque stregato, lui, dalla sincerità e dalla simpatia del giornalista bolognese.
Enzo Ferrari, che ho frequentato a lungo in qualità, l’ho detto, di ghostwriter dei suoi libri, era sempre critico e persino – pura invidia, sì – pettegolo nei riguardi dei giornalisti, quelli dell’auto in primis si capisce, anche perché da giovane sognava di fare appunto quel mestiere (e aveva pure scritto qualcosa, teneva sempre nel portafoglio il ritaglio di un suo articolo su una partita di calcio del Modena, apparso sulla «Gazzetta dello Sport»). Bene, Ferrari pativa un giornalista soltanto, e non ne farò il nome neanche sotto tortura, ed era uno dei bolognesi sommi, quello che, quando lasciava anzitempo la redazione per onorare qualche appuntamento galante, cosa che gli accadeva spesso, non solo regolarmente annunciava ai colleghi che cosa andava a fare, precisando anche i dettagli, ma se ne usciva insistendo sempre su un bisillabo per esortarli a mettere negli articoli, nelle pagine, insomma nel lavoro tanta sostanza: «Polpa, mi raccomando, polpa».
Ma è tempo che io cerchi di chiarire perché il giornalismo sportivo bolognese di quegli anni mi apparve speciale. Ebbi la fortuna di frequentarlo al Giro e al Tour, dove operavano colleghi straordinari per simpatia e per repente ma non superficiale amicizia: non solo Ermanno Mioli e Dante Ronchi, grandi tipi da ciclismo, ma anche Luigi Chierici, direttore del loro quotidiano «Stadio», sempre impegnato col Giro, e poi Quinto Sarti che faceva lo sci, Rino Bortolotti che faceva il tennis, Giulio Cesare Turrini che faceva il calcio, Adalberto Bortolotti che salì in alto col «Guerin Sportivo» tifando Torino, e Giorgio Comaschi che riuscì persino a sfuggire ad una facile celebrità televisiva. Se si vuole, «Stadio» bolognesizzò assai anche il caporedattore Aldo Bardelli, livornese, giornalista davvero di cappa e spada, arrivato anche alla direzione tecnica, sia pure collegiale, della nazionale di calcio. E però su tutti Gianfranco Civolani, il Civola del mio «Tuttosport», cantore di Bologna («il mio paesone») e del Bologna, e della vita, tutta e – ci siamo – grande amante del proprio letto.
Ci siamo, sì. Parlo per quello che so, dunque dei giornalisti sportivi bolognesi. La loro massima aspirazione non è andare a fare un servizio in Australia, ma dormire nel letto di casa a Bologna. Se l’aereo da Milano per Sydney ha un problema e fa scalo imprevisto a Roma e l’appuntamento per decollare è per il mattino dopo, mica il giornalista bolognese dorme a Roma nell’albergo offerto dalla compagnia aerea, no, lui torna subito a Bologna, in qualche modo ce la fa a tornare, e l’indomani mattina, in qualche altro modo è a Roma per l’imbarco.
Ho il sospetto fortissimo e motivato che ai Giochi olimpici di Monaco di Baviera 1972 Civolani, che aveva una splendida velocissima auto Porsche, abbia quasi ogni giorno approfittato dell’autostrada, inaugurata da poco, che da Modena porta al Brennero e da lì in Baviera, per un rosario di rapidissimi viaggi di andata-ritorno a Bologna. Era puntuale a Monaco sul lavoro quotidiano, ma quando staccava staccava, o meglio non staccava il piede dall’acceleratore. Faccio anche il nome della delatrice: Fiammetta Scimonelli, capessa dell’ufficio stampa del Coni, nostra ninfa e sacerdotessa, coinquilina del Civola, lei con altri giornalisti nostrani, e sbalordita dal suo dissolversi e riapparire, come un gatto che in salotto appare e scompare.
Poi devo dire che quelli di Bologna mi sono pure sembrati sempre più capaci di sdrammatizzare, meglio propensi a godersi la vita e anche il mestiere, nel senso di pranzi goderecci, ad esempio. Li ho trovati e ammirati sempre più allegri o comunque meno tristi di noi del resto d’Italia, sempre pronti a usare il dialetto o anche soltanto l’accento loro, miracolosamente grasso e puntuto insieme, per gettare sorriso o ironia su una frase, un aggettivo.
In questo Gianfranco Civolani ha lasciato un segno nella storia con il leggendario incipit della sua intervista al più grande calciatore brasiliano di tutti i tempi.
«Ciao Pelè».
«Ciao Civola».