27. Artisti e artigiani delle note spese

La sublimazione dell’arte di guadagnare sulle note spese, tipica di ogni bipede del mondo e più che mai di ogni giornalista giramondo e più-più che mai del giornalista sportivo, è secondo me avvenuta in Germania nel 1996, in una città sede di partite del campionato europeo di calcio. L’inviato italiano di un quotidiano presentò alla fine del mese di lavoro, affanni, pernottamenti e spostamenti nonché pranzi e cene, una vasta nota spese in cui figuravano cifre altissime per certi pasti consumati con buona frequenza sempre nello stesso ristorante della città fungente come sede fissa dell’inviato, ristorante che dal nome thailandese, suffragato dai segni esotici della scrittura, poteva a priori appartenere a quelli economici orientali fiorenti da quelle parti. I segni del conto vennero «tradotti» dal giornalista, presso la sua amministrazione, come indicazione dei cibi portati in tavola. Quando il conto era troppo alto, questo voleva dire che lo stesso giornalista aveva invitato a desinare un celebre tecnico tedesco, da lui presentato alla redazione e ai lettori come una sorta di consulente personale per l’esplorazione dei misteri tattici del calcio, dunque utilissimo per pareri e anche interviste. Udo Lattek, così si chiamava colui che per lunghi anni fu una sorta di ascoltatissimo Helenio Herrera germanico, non seppe mai di questo uso della sua carismatica persona, anche perché mai si mise a tavola e forse mai scambiò una sillaba con quel giornalista.

Il problema nacque quando qualcuno dell’amministrazione (e mai si seppe e si saprà se per intuizione o per esperienza personale o per provocazione costituita dalle cifre troppo alte di quei pranzi) pensò bene di telefonare al ristorante in questione – il numero stava sulla nota spese – e grazie ad un inglese di scambio, facile e chiaro, apprese che si trattava in realtà di un bordello sia pure di lusso, magari dotato anche di ristorante o almeno tavola calda, e che l’elencazione dei «piatti» corrispondeva in realtà alle prestazioni fruite ed eseguite da valorose signorine: massaggi, bagni, al massimo depilazioni (cosa avevate pensato?). Naturalmente quel giornalista usò a mo’ di spiegazione la frase fatta celebre, sino ad assurgere a livello di mantra, brevettata da un suo, e nostro di tutti noi, illustre predecessore, che però a seconda dei giornali in cui viene ricordato cambia nome: «L’uomo non è di legno». Poi però si impegnò in un programma di restituzione rateale del denaro «in eccesso», con prelievi sullo stipendio (aveva usato spesso la carta di credito del giornale).

Io ho frettolosamente conosciuto uno dei massimi titolari della frase celebre, il leggendario Max David che – dicevano gli invidiosi ammiratori – riusciva persino a farsi rimborsare dal giornale le selle specialissime dei cavalli che usava per attraversare l’Egitto in cerca di ispirazione. Era a Bruxelles dove lavorava con l’amicone mio Paolo Bugialli, suo collega al «Corriere della Sera», tanti giorni di raccolta di notizie per scrivere un articolone, uno solo ma lapidario, sul mercato comune europeo. Me lo presentò Fulvio Astori, del suo giornale e del «Corriere d’Informazione», bravo e devoto e ironico graduato della nostra banda ciclistica, con me lassù per il Giro del Belgio. Nel pomeriggio Fulvio – stavo in auto con lui – si era fermato in corsa tre volte ai telefoni di tre bar «prenotati» per dare notizie fresche alle varie edizioni del giornale del pomeriggio, ovviamente improvvisando, senza cioè scrivere un riga, mentre Max David era, come lui stesso ci fece sapere, alla terza stesura dell’articolone.

Siamo, sì, alla sublimazione. Siamo alla Ferrari di fronte alla produzione in serie di quelle utilitarie che sono le note spese, taroccate verso l’alto, di piccoli ristoranti, ideali se in città straniere, e meglio se col nome italiano che fa santa voglia del cibo di casa, di mamma, e pazienza se costa più del cibo abituale di quella gente, se una pastasciutta non scotta si paga più del filetto, se si carica sul conto un filetto anche se si è mangiato pastasciutta.

È perfettamente normale che i giornalisti sportivi facciano la cresta sulle note spese più degli altri loro colleghi, che infatti sono (meglio: erano) invidiosi di questa conquista parasindacale. Lo sport presenta un calendario quasi sempre ben fisso di appuntamenti, e così si possono fare programmi, scelte, prenotazioni, strategie. Lo sport, che si dipana a orari fissi, favorisce e addirittura propizia le comunità di commensali impegnati, oltre che sugli stessi temi, anche sugli stessi tempi, e quindi propensi a fare tavolata spesso massiccia. Lo sport, a richiamo popolare forte specie con i suoi grossi eventi, coinvolge in ogni posto d’Italia e del mondo i ristoratori nostrani, sovente compiacenti ed esperti in ricevute fasulle. Lo sport instaura un clima di familiarità, fra giornalisti e tifosi e comunque adepti, favorevole a scambi di favori particolari, dovunque.

Ecco perché noi, e sottolineo noi, del giornalismo sportivo italiano (l’Italia, si sa, in certe cose/cosacce è maestra di vita e quindi di sopravvivenza), siamo diventati cultori forse massimi della cresta sulle spese, comunque dell’artifizio assortito sulle note spese, con epicentro su quelle di pranzi e cene. Si aggiunga la facile costruzione, da parte di noi giornalisti, di alibi tipo: 1) io guadagno poco, specie rispetto a quel collega, del mio o di altri giornali, che scrive di politica, se ne sta sereno a Roma con la famiglia e stramangia ai prezzi ridicoli del buffet di Montecitorio, giusto che io mi rifaccia un pochino; 2) io offro al giornale, quando sono in trasferta, 24 delle mie 24 ore giornaliere, perché con lo sport debbo stare sempre all’erta, e mica mi pagano gli straordinari: 3) io con la mia presenza, la mia disponibilità, il mio eloquio instauro rapporti sempre più caldi fra il giornale e il popolo del ristorante e alla lunga del luogo, sono dunque una specie di non pagato uomo-sandwich; 4) io comunque a casa mia per mangiare degnamente spenderei anche di più, mica sono uno straccione; 5) varie ed eventuali (incluso: «Ma la stagione del tartufo bianco non deve arrivare anche per me?»).

La cresta sulla nota spese può essere fatta in vari modi, che cerco di liofilizzare: a) se io ho un’ospite, spesso appunto con l’apostrofo (ospite femmina), chiedo alla tavolata amica e complice che il pranzo o la cena per noi due siano conteggiati come per uno solo, dividendo il tutto fra tutti, il ristoratore ci sta, fatta, ricambierò; b) se si è in gruppo si chiede al ristoratore di dividere la spesa soltanto per il numero di quelli che vengono rimborsati, così che il conto di chi non c’entra viene comunque conteggiato e assorbito, con l’ipotesi fondata che poi il beneficato in qualche modo ricambi; c) si chiede al ristoratore il regalo di qualche ricevuta in bianco, di quelle sommarie, che comunque l’amministrazione del giornale mai discuterà, specie se si tratta di pasti in misteriosi posti lontani; d) si ruba il blocchetto delle ricevute, la soluzione più semplice ancorché pericolosa, arrivata a sublimazioni acrobatiche e pirotecniche in Messico grazie a un giornalista anziano, importante, telepopolarissimo, scafatissimo, uno dai riflessi fulminei, capace anche di colpi ai tassisti, mica soltanto agli osti; e) si compra presso una cartoleria il blocchetto di ricevute e ci si fa fare sempre in cartoleria un timbro di qualche ristorante dal nome credibile; f) si fanno stampare da minitipografie ricevute in bianco fasulle, con nomi veri o di fantasia dei ristoranti; g) in paesi diciamo esotici si usa qualsiasi tipo di ricevuta, magari uno scontrino raccolto per terra ai grandi magazzini, spacciandola, grazie alla grafia con caratteri particolari, decisamente non «nostri», come nota di ristorante. Quest’ultimo espediente vale eccome anche per i taxi, dove comunque una spesa diciamo di dieci dollari per quattro passeggeri diventa una spesa di dieci dollari per ogni passeggero, con tanto di ricevute individuali che un buon tassista scafato non rifiuta mai, tanto lui sa come barcamenarsi.

Sul punto della confezione ad hoc di ricevute voglio ancora soffermarmi: in un’edizione dei Giochi olimpici invernali si è toccato l’apice del giochetto, con l’assegnazione ad una stamperia vera e propria della confezione di ricevute credibili e con l’invenzione di nomi diversi a seconda della qualifica del ristorante stesso (in francese i nomi di quelli più cari). Si fatica, si lavora insomma, anche di fino. E un devoto ricordo va a quel collega che in Messico, terra felix, procurò a un po’ tutti noi una serie di timbri da apporre sul conto dei ristoranti, alla voce «propina» che vuol dire mancia, con le scritte «gracias», «muchas gracias», «muchissimas gracias» a seconda dell’entità della stessa mancia, comunque mai elargita.

Ma adesso non devo e non voglio fare apparire il nostro andare in trasferta come quello di una banda itinerante di truffatori. Molti ritocchi servono a compensare spese non dimostrabili ergo non rimborsate: ad esempio le mance effettive, toh, i piccoli consumi per i quali non si può perdere tempo a collezionare ricevute, et similia. Comunque la differenza fra spese reali e spese elencate per il rimborso non è mai grandissima, anzi, magari per l’insorgere di meccanismi individuali di contenimento, ritegno e pudore. Infine: è praticamente impossibile stare dietro a tutte le ricevute, e certi arrangiamenti/aggiustamenti sono soltanto legittima difesa (ricordo i Giochi di Seul 1988, nella Corea del Sud dove nessun ristorante accettava di fornire, per una tavolata di dieci commensali, dieci conti separati). Comunque il tutto è inferiore come portata rispetto a certe operazioni di rimborso taroccato condotte da colleghi nostri in circostanze particolari (ideale una guerra o qualcosa di simile).

Un dettaglio. Ci sono giornalisti che in trasferta – mi è sempre parso troppo dire: in missione – stanno a dieta, o comunque saltano i pasti sostituendoli con il sandwich più classico e povero, per ragioni di tempo e/o di epa (per dirla ancora con Brera, che non ricordo di avere sentito pronunciare mai la parola «pancia»). Costoro fanno in fretta ad autoconvincersi che non è giusto che il giornale risparmi su quello che è un loro sacrificio, e allora vai con la nota spese fasulla.

Altro discorso quando si fruisce, si gode di una diaria fissa, dentro la quale si devono fare entrare le spese. Allora soccorrono gli inviti, che qualcuno pensa omaggi alla sua persona e non al giornale e dunque dalla stessa persona tramutabili in note spese sennò per il giornale sarebbe troppa pacchia, i panini, gli scrocchi, e anche e soprattutto, se si sta ai Giochi olimpici o a qualche manifestazione di livello mondiale, la meravigliosa Casa Italia (o iniziative simili), provvida istituzione che offre, col pretesto del culto dei Lari e dei Penati lontani, prosciutto e parmigiano e vino e pane e grissini ai giornalisti (non solo italiani), e dunque permette a quelli con diaria di rifocillarsi alla grande spendendo niente e così conservando i soldi tutti per loro. Esempio tipico e invidiato, ai suoi bei tempi, la diaria della Rai. Il tutto, sia ben chiaro, quando i giornalisti viaggiavano davvero dietro agli eventi e non compitavano i servizi stando davanti alla televisione. Quando cioè personalmente uno si consumava sul serio a stare appresso alle vicende sportive per ventiquattro ore. Quando quest’uno al giornale non faceva la carriera interna perché era sempre via, anche trecento giorni l’anno, intanto che veniva invidiato, perché in giro gratis a godersi il mondo, da quelli che facevano carriera interna.