Premessa, o qualcosa di simile
Questo è il libro che tanti miei colleghi hanno scritto per me, a me offrendosi nelle loro virtù e nei loro vizi, all’insegna complessiva di un’amicizia che in certi casi persino mi intriga, tanto è stata (e in molti casi è ancora) repente, duratura, vasta, credibile e ovviamente ricambiata, oppure di una stimolante rivalità raramente evolutasi in inimicizia.
Ho sempre goduto sul lavoro di una libertà persino imbarazzante, forse parzialmente dovuta al mio rilassante e distraente non prendermi mai troppo sul serio, atteggiamento psicologico peraltro sfruttato o almeno blandamente usato contro di me da molti, per via del mio volere sempre e rigorosamente essere franco e sincero a costo di apparire gaglioffo: il che fra l’altro mi deve essere costato non poco in termini di carriera (almeno così mi dicono: ma non me ne frega niente).
Ho avuto fortuna incocciando un gran bel periodo dell’Italia, dello sport, del giornalismo sportivo. Ho seguito da testimone (andare-vedere-raccontare) per oltre mezzo secolo tutto il grande sport in tutto il mondo, e viaggiare a spese d’altri e soprattutto sapendo di dovere e potere poi scrivere e pubblicare quel che si è visto è cosa divina. Ho vinto tante ideali estrazioni di lotterie, ma col lavoro duro e onesto ho comprato tanti biglietti. Altri non ne comprano mai e si dicono sfortunati. Altri ne comprano più di me, invano, e mi inchino alla loro sfortuna.
A sei anni, in precoce seconda classe elementare, dicevo che volevo fare il giornalista. A otto scrivevo i componimenti per i compagni di classe, «pagato» in mentine che mi hanno evitato forever di fumare. A neanche undici anni fui portato da mio padre sportomane sulla strada della prima tappa del primo Giro d’Italia del dopoguerra (1946), la Milano-Torino: ma lui non voleva farmi vedere i ciclisti, mi voleva mostrare il suo amico Ruggero Radice detto Raro: e infatti fra loro due ci fu un saluto sonante, mentre passava l’auto con a bordo il reporter famoso. A diciassette anni da compiere, appena conseguito con un anno di anticipo il diploma presso il celebre e tremendo liceo classico Camillo Benso conte di Cavour in Torino, rompevo le scatole a Giglio Panza di «Tuttosport» perché mi facesse scrivere qualcosa. Mi aveva mandato da lui un giornalista, Ricciotti Lazzero, cronista alla «Stampa» e, per arrotondare, aiuto di redazione e stenografo a «Tuttosport» la domenica, visto che allora «La Stampa» non usciva di lunedì. Lazzero mi conosceva perché abitava in un villino torinese confinante con quello della mia famiglia, in un isolato di tutti villini chiamato, guarda un po’, «dei giornalisti». Giocavo a palla con i miei due fratelli minori e i nostri amici nel giardino di casa piccino piccino, la palla spesso finiva nel giardino suo, suonavo al campanello per farmela restituire e ogni volta gli raccontavo di me qualche cosina in più. Sapeva che facevo nuoto agonistico, e niente male, e allora mi introdusse al quotidiano sportivo perché garantivo, la domenica, che avrei portato di persona i risultati delle gare nella piscina torinese. Mi consigliò subito di anteporre ai risultati qualche riga di cronaca/commento, e fu l’inizio del mio tanto scrivere.
Sono stato, sì, un nuotatore discreto, facevo lo sprint (crawl e dorso) e mi batteva facile Carlo Pedersoli, che è poi diventato nel cinema Bud Spencer. Ho persino firmato articoli «maso» in cui dolente resocontavo competizioni che registravano imprese altrui comportanti la cancellazione di miei primati piemontesi. Impazzito, a sessant’anni ho corso e finito da fachiro, senza allenamento, la maratona di New York, l’ho raccontata ai lettori e su tutti «dal vivo» a Gianni Agnelli, mio fan speciale in quell’occasione, curioso e scettico. Tre anni dopo ho penosamente finito quella di Torino, poi come podista e forse non solo sono finito io.
Non credo più nello sport che fa bene: e dire che l’ho cantato eccome. E mica parlo soltanto dei disastri fisici, spesso sin troppo evidenti, e mentali da indagare. Lo sport di base è pieno di errori, di approssimazioni, di imitazioni scimmiesche, di illusioni, quello di vertice è ormai un vasto diramatissimo crimine anche politico con varie sfaccettature, dal doping ai soldi, ed è il mezzo migliore per fottere i dieci comandamenti, all’insegna di un salutismo bieco.
Ma se dovessi ricominciare farei quello che ho fatto. Perché amo l’idea dello sport, e l’idea che è in me non muore (frase già detta da qualcuno molto ma molto più importante di me: Giacomo Matteotti, se ricordo bene).
Nella mia carriera ho conosciuto tantissimi giornalisti sportivi: dai cazzari agli onesti, dagli studiosi dello sport ai demagoghi, dai colti ai nemici del congiuntivo. Li passo in rassegna nelle pagine che seguono, e se si vuole passo anche in rassegna la mia vita, le fasi del comunque gran bel giornalismo sportivo che ho attraversato e forse in minima parte contribuito a creare: chissà che non ci scappino anche informazioni e soprattutto interpretazioni del viaggio della stampa sportiva nei cervelli e nei cuori e nei testicoli e nelle ovaie degli italiani, specialmente quelli del boom, diciamo dagli anni Sessanta al Duemila.
Ogni tanto, e in certi periodi neri ogni poco, muore, soprattutto per squallide ragioni anagrafiche, uno dei miei colleghi o dei miei amici di giornalismo vintage. Ultimo Manlio Cancogni, scomparso da poco, un grande della penna che ricordo felice come un bambino quando gli sfilava davanti la Milano-Sanremo. Ho smesso di andare ai funerali. Comunque al mio ci sarò.