Conclusione (che non conclude)
Chi è arrivato a leggere sin qui ha quasi il diritto di pensare che ormai si è giunti o comunque si deve arrivare all’epitaffio. L’epitaffio della stampa sportiva, quanto meno della parte storicamente più rappresentativa (sinora) di essa, quella scritta. Per tanti anni la più seguita nel mondo dello sport, anche perché in pratica operava da sola, e la radiofonia sportiva portava notizie e non opinioni, poi la più reputata e anche (assurdamente) la più temuta: dico assurdamente perché so per esperienza diretta – nonostante l’avvento della televisione a lungo autolimitantesi, come timorata del suo stesso potenziale – che noi della stampa sportiva scritta abbiamo avuto peso e importanza quasi soltanto grazie a debolezza, condiscendenza, complicità di chi ci ha voluto fare importanti per suoi usi e consumi, noi comunque sempre addomesticabilissimi con regalini di varia natura, su tutti quello di farci sentire creatori e gestori di opinioni altrui. Questo mentre nella realtà mai siamo riusciti a far cambiare nello sport il corso non dico di un evento storico, ma di una storiella.
Un esempio forte è quello della violenza dentro lo sport, stadi intesi soprattutto come spalti, e ordalie anche esterne assortite: sempre e da sempre noi della stampa sportiva l’abbiamo segnalata, deprecata, combattuta, e lei, la violenza, è sempre aumentata (ma è poi vera violenza, o è violenza comoda per occultarne altre?). E che dire – altra forma in fondo di violenza – della corruzione nella Fifa e negli altri sommi enti dello sport, Cio compreso, o nello Strapaese del calcio italiano? La conoscevamo, così abbiamo detto, avevamo anche eseguito forti interventi per iscritto, ovviamente senza esito alcuno: sino a che non ci ha pensato qualche magistrato, o con la Fifa l’Fbi…
Adesso chissà a cosa è ridotto il nostro ruolo. Contrariamente – penso – alla massa grande dei miei colleghi, io non ho certezze, non ho risposte. So che certi tempi insieme belli e fecondi non possono più tornare, perché il dialogo fra informatori e informati, fra noi che scriviamo e quelli che ci leggono, ha preso nuove strade, perché certi processi di trasfusione delle notizie e anche dei commenti, dei pareri, sono ormai cambiati, e cambiati chissà come, perché poco si sa delle nuove vie di comunicazione, se non che sono tante, perentorie, destinate alle audacie tecnologiche, alle scorribande, alle piraterie, alle confusioni, alle risse elettroniche.
Forse qualche veggente sa già tutto, qualche filosofo ha ben chiara in mente ogni cosa, qualche esimio storico ha eseguito gli opportuni esercizi intellettuali per far sì che studi ed esperienze e informazioni si trasferiscano insieme in una sua bella palla di vetro. Io so soltanto – ripeto – che ho avuto la fortuna di vivere un periodo bellissimo, al cui nascere ed al cui divenire forse ho un pochino contribuito, del cui nascere e del cui divenire sicuramente ho molto goduto. Verso le infinite tremende sconvolgenti risorse del computer ho l’ignoranza ed anche la paura del primo (o secondo, insomma) uomo di fronte al fuoco. Di molto personale – perché gran parte delle mie paure, delle mie ignoranze sono generazionali e comunque coinvolgenti un sacco di gente – ho il rimpianto, diverso dal rimorso che tengo per cose più importanti, di non avere approfittato in pieno di un periodo straordinario. Mi è andata bene, poteva andarmi benissimo.
E insomma fatti bene tutti i conti, e non fatti anzi neanche tentati certi conti impossibili da fare, posso ricordare il mio straordinario periodo dentro una stampa sportiva fiorente soprattutto come una splendida occasione di vita lavorativa bella, divertente e persino ben ricompensata. Ricordo anni pieni di avventure, polemiche eccitanti, scoperte, emozioni, commozioni. E anche sangue, si capisce, sangue di gente dello sport, degli spettatori dell’autodromo di Monza falciati da un bolide, delle vittime dello stadio Heysel – oltre a quelle, già ricordate, dell’aggressione terroristica al villaggio olimpico di Monaco. Lo sport che, cresciuto sotto i miei occhi e accompagnato dalla mia macchina da scrivere, ha inglobato tanto della vita, ha conquistato tanto mondo, ha cambiato tanto mondo intanto che da esso è stato cambiato, ha patito e goduto il rapidissimo superprogresso tecnologico, ha inventato nuovi concetti di nazionalismo, meno etnici e direi più economici, ha giocato con la politica che ha giocato con lui, ha frequentato la scienza infischiandosene persino di certi rischi fisici e morali (il doping). Si è retrocesso a pratiche popolari elementari e intanto sublimi come il podismo di massa, e si è lanciato in sofisticazioni spinte, alla base di quasi tutto lo sport estremo. Ma siamo già in un altro libro.
Dei miei tempi (oh i miei tempi: che brutto dire, che bel dire…) voglio ricordare, nell’impossibilità assoluta (forse) e nell’incapacità relativa (sicuramente: la mia) di fare già Storia, il forte dopante senso di sperimentazione, di esplorazione dentro il pianeta-sport, in chiave giornalistica seria, impegnata, ma intanto con belle semplici gratificanti rispondenze diciamo pure di popolarità, di successo. E voglio anche quasi solennemente ricordare che, salvo poche eccezioni, riuscimmo, noi beneficati da questo divenire, a non prenderci mai troppo sul serio, anzi in tanti casi felici a ridere o almeno sorridere di noi.
Il fatto è che allora nello sport, non ancora troppo ricco e troppo mondiale e troppo importante e troppo seguito e usato e consumato anche se non soprattutto da non sportivi (i curiosi, i sedotti ma spesso, spessissimo pure gli sfruttatori), nello sport si sapeva ancora sorridere, ancora ridere. Proprio così, il come (sor)ridevamo potrebbe dare vita ad un altro libro, ma davvero sarei colpevole di personalizzata alluvione.