Lettera al figlio giornalista onirico
Caro (ma è poco: di più) Timothy figlio mio, so che questa lettera ti farà arrabbiare, tu odi il protagonismo, ma se devo pensare a un giornalismo sportivo superstite e a suo modo eroico, penso a te. Per prima cosa grazie di non avermi rinfacciato mai il nome datoti anzi affibbiatoti, con necessità di spelling costante di fronte a gente che magari ti guarda male. Mamma diceva genericamente «povero Timoteo» a chi in casa si faceva maluccio, per esempio una scottatura, Timoteo – timorato di Dio – ci piacque, dopo Olivia e Maria per le due figlie lo sposammo e lo inglesizzammo in onore del papà di mamma, un quasi apolide che però stava in Inghilterra. «Benvenuto su questa terra, Timothy» disse forte nella cerimonia del battesimo il tuo padrino don Luigi Ciotti, in una chiesa-hangar vicino alla Fiat Mirafiori, fra tanti drogati ed ex carcerati e prostitute raccolti da quel santo che lui è e omaggiati per quella festa tua dal vino regalato da Eugenio Bersellini, all’epoca allenatore del Toro, una damigiana di rosso e una di bianco delle sue terre emiliane.
Timothy Ormezzano adesso è il nome e cognome di un giornalista che del mestiere patisce tutto il bello classico (fascino dei termini giornalista e giornalismo, dinamismo del lavoro sempre vario, stimolante caccia e poi gratificante palleggio della notizia, a priori niente tran-tran e tutta o tanta iniziativa libera, eccetera) e che subisce dello stesso mestiere la decadenza, che è genericamente di tempi assai poco propensi a chi vuole fare il lavoro del testimone attento e onesto, che è specificamente della stampa scritta sotto l’ormai dittatura di internet.
Sei giornalista come me, ma non fai il mio lavoro, quello anzi che fu il mio lavoro e che, conoscendolo, tu avevi, hai il diritto di pensare che possa e debba essere il tuo. Io ho cominciato quando era difficile scrivere o meglio firmare su un giornale, c’era prima tutta la trafila dell’anonimato, anche con umiliazioni assortite (ho scritto, non pagato né ringraziato, per colleghi anziani che spacciarono il mio prodotto come opera del loro ingegno). Da questo punto di vista i miei sette anni di abusivato (allora si diceva così: tanto lavoro e soldi pochi o niente) mi appaiono più pesanti di quelli del tuo precariato. Però, però… Stavo con tanti altri in un tunnel, ma si vedeva al fondo una luce, piccola ma vera.
Non sei arrivato al giornalismo per vocazione innata, gaglioffa, insistente come fu la mia, anzi c’è stato persino un periodo della tua vita in cui hai deciso che non valeva la pena darsi da fare per condurre la vita di papà, che era sempre stressato e affannato e scriveva un articolo su Gullit durante il matrimonio di tua sorella Maria la violinista persino più brava che bella. Papà che inquietava l’altra tua sorella, Olivia il medico duro e grazioso (anche sans frontières, in Asia), con i suoi problemi di cuore inteso come muscolo cardiaco. Manca poco all’età in cui i nipotini Matteo e Anna, figli tuoi e di Elisa e gioie mie con altri sei posteri come loro, avranno l’età per ascoltarmi e capirmi mentre parlo di te, di come ti ho fatto ammalare di tifo per il Toro ma anche di come poliziotti e carabinieri ti hanno massacrato per puro (!) spirito di violenza al G8 di Genova, dove volevi solo fare esercizio di ripresa televisiva per la scuola che frequentavi a Torino (e alla fine con Danilo Monte ci hai fatto un docufilm bello e onesto, ma è un’altra storia).
Non sei arrivato al giornalismo grazie ad un padre che nell’ambiente, nel «giro» felicissimamente non conta più nulla e che comunque mai ha coltivato la scienza italica della raccomandazione, mai ha sventolato la bandiera italiota del «tengo famiglia».
Fai bene – per un grande giornale nazionale sul quale mai ho scritto e per un foglio di quella free press che chissà se è il futuro o se è già superata – quello che resta da fare in un giornalismo scritto, cartaceo si dice orrendamente adesso, che ha perso il gusto della notizia, spupazzata da troppi sulla rete. Manipolata e usata, la notizia, come un pongo. Un giornalismo che ha soprattutto perso il gusto del rapporto umano. Vivi fra chat, tweet, blog, facebook, e il tuo sapere di computer nasce comunque dal fatto che lo hai studiato, laureandoti fra l’altro in Scienze della comunicazione (complimenti da un non laureato quale io sono), e hai persino trovato un modo per operare con il «mostro», un lavoro da «tecnobadante» per neofiti imbranati (quorum ego). Ma diventa, questo tuo sapere operare nel web, soltanto o soprattutto il problema di dovere eseguire una selezione fra il troppo che riesci a scovare, il poco che devi scavare. I personaggi dello sport non rilasciano più la classica intervista al giornalista amico o esperto o simpatico o civile o intraprendente, per il giornale serio e importante che fa spazio alla penna valida, ma parlano via internet e non sempre in prima persona, perché c’è il channel speciale e c’è l’addetto stampa, giornalista inespresso e incompleto e occultatore spesso della verità, e c’è l’esperto di pierre, c’è l’esperto anche di comunicazione taroccata.
Mi piace come sai restare persino giocoso ma sempre attento e onesto in mezzo al lerciume o ben che vada al vuoto che tracima. Ti invito a continuare ad esserlo: io apprezzo ciò che quelli della mia tribù, della nostra tribù apprezzano. Guadagni poco, e ancora ti vedi intorno, sprezzanti e forti delle loro antiche ma blindate posizioni, giornalisti assunti e gratificati ai quali semplicemente è andata bene, perché hanno acchiappato, magari da analfabeti della cultura però con furbizia contadina, la cometa ultima che passava, hanno ancora avuto privilegi persino economici che il tempo ha reso assurdi, e ora se la tirano da inviati speciali quando ormai si scrive tutto stando davanti alla televisione, intesa come web. Unico inconveniente: ora non si può più rubacchiare sulle note spese, che la crisi comunque riduce, ridurrebbe all’ossicino. In testa all’articolo il nome e il cognome dell’autore e l’indicazione del posto dove il fatto è avvenuto. Non c’è traccia della dizione «dal nostro inviato» che sindacalmente porterebbe dei problemi, se non rispettata nei fatti (pochi i casi di giornalisti in pensione, che sono davvero sul posto ma non possono risultare ufficialmente in trasferta).
Ogni tanto una farsa chiamata conferenza stampa viene mandata in scena per saziare, con poche parole ignoranti o false di un qualche protagonista, la fame legittima di notizie vostra e dei lettori, la vostra voglia persino missionaria (la missione di informare, sì) di sapere e far sapere. Sminuzzate e stramasticate una frase cretina di qualche vip per trarne la pochissima sostanza che c’è, da fare lievitare con informazioni supplementari, dettagli, fantasie, invenzioni, trovatine, coinvolgimenti, archivio, futurologia.
Siete grandi, sei grande.