Un’originale storia del giornalismo sportivo (in versione Gpo)
UN INTRIGANTE PARADIGMA STORIOGRAFICO
Prima di dedicarsi anima e corpo al suo fortunatissimo Processo televisivo, Aldo Biscardi è stato uno stimato giornalista sportivo di «Paese Sera» e persino si è provato nelle vesti di storico quale autore di un libro non disprezzabile e ancora oggi utile, Da Bruno Roghi a Gianni Brera. Storia del giornalismo sportivo (Guaraldi, 1973). Volume impreziosito da un’introduzione – forse un po’ troppo affettuosa e laudativa – di Gianni Rodari, che alludendo al modo di lavorare di Biscardi giornalista così scriveva: «Di una partita di calcio bisogna parlare come si parla di un processo. I suoi eventi vanno trattati come eventi storici. È permesso il giudizio tagliente, non è tollerata l’esibizione di spirito se non da parte, occasionalmente, di corridori in proprio, senza responsabilità di critici»; ecco qui, servito su un piatto d’argento, il suggerimento per la trasmissione televisiva che si chiamerà appunto Il Processo (e comincerà nel 1980, con lo zampino di Enrico Ameri). Nelle ultime pagine del libro in questione – che in realtà molto doveva alla precedente e pionieristica fatica di Paolo Facchinetti, La stampa sportiva in Italia (Alfa, 1966) –, Biscardi, scattando una sorta di fotografia di «Tuttosport» all’altezza dei primi anni Settanta, osservava che il quotidiano torinese, diretto da Giglio Panza con un’autorità di vecchio stile, consentiva ai suoi redattori di esprimersi, sulle orme di Carlin, di Roghi e di Ghirelli, «in versioni fantastiche e liriche che ricordano, nel migliore di essi, [Gian] Paolo Ormezzano, certi rimatori del Trecento, per scadere in taluni epigoni a scherzo goliardico». Con pochi tocchi di colore, Biscardi tratteggiava dunque uno schizzo sintetico e a suo modo veritiero dell’evoluzione di «Tuttosport», fermandosi alla fine su Gian Paolo Ormezzano (per tutti Gpo), curiosamente innalzato addirittura a versificatore trecentesco – senza addentrarsi per nostra fortuna in altre spiegazioni letterarie, ma forse pensava a Cecco Angiolieri a cavallo di Due e Trecento –, e comunque fissava una specie di etichetta che oggi, a distanza, non sembra priva di una sua incosciente lungimiranza.
Per gli strani intrighi del destino, circa vent’anni dopo sarà Gpo a rivestire a sua volta il ruolo di storico, partecipando a una notevole impresa editoriale promossa dall’editore Laterza, ossia la Storia della stampa italiana, curata da Valerio Castronovo e Nicola Tranfaglia, in sette corposi volumi. Nell’ultimo, La stampa italiana nell’età della TV 1975-1994, pubblicato nel settembre 1994, è inserito un densissimo capitolo intitolato semplicemente La stampa sportiva (pp 333-358). Non è difficile immaginare la fatica di Gpo per rientrare nello stile serioso e un po’ paludato dello storico ufficiale, così come la sua insofferenza per un tema che, immagino, doveva stargli parecchio a cuore ma che, secondo lo spirito del volume, andava rigorosamente centrato sul ventennio più vicino, mettendo ben in luce la rivoluzione comunicativa imposta dal medium televisivo. E infatti l’articolo di Gpo, pur dimostrando rispetto ai precedenti (Facchinetti e Biscardi) un’indubbia originalità interpretativa, è per diverse ragioni un ottimo esempio di come non si deve scrivere un saggio «scientifico». Quello di Gpo è infatti contraddistinto da bruschi salti nel tempo, tra anticipazioni e flashback, riflessioni tra parentesi e interventi personali; per di più comincia in medias res, ossia dalle conseguenze della vittoria italiana ai mondiali spagnoli del 1982; è allora secondo Gpo che la stampa sportiva italiana raggiunge il suo apice, ricevendo «dalle cifre la libertà e quasi l’obbligo di fare, nello sport, con lo sport, e sullo sport, della pornografia» dopo aver unito «lo sport, per un bel po’ di anni, all’amore, e poi all’erotismo».
Qui viene codificato quello che diventerà poi un vero e proprio paradigma storiografico (e interpretativo) del giornalismo sportivo italiano, che Gpo nel corso del suo intervento divide in tre fasi fondamentali: Amore, Erotismo e Pornografia. Il primo passaggio, segnato «dai maestri e dai cantori», è quello aperto dai pionieri di fine Ottocento e si estende a personaggi quali Armando Cougnet, Emilio Colombo, Emilio De Martino, Giuseppe Ambrosini, Carlo Bergoglio (alias Carlin), inoltrandosi fino agli anni Cinquanta, appena anticipati dalla tragedia di Superga (4 maggio 1949) e segnati dalla profonda cesura della morte di Coppi (2 gennaio 1960). Da qui in poi, secondo Gpo la stampa sportiva risponderà a ragioni non solo puramente sentimentali. A traghettare la barca sulla riva opposta, approdando così all’epoca dell’erotismo, sarà soprattutto Gianni Brera. E da ultimo sarà naturalmente Biscardi, il campione della fase pornografica in versione televisiva, sia pure fiancheggiato da certa stampa sportiva voyeuristica, desiderosa di spiare gli atleti nello spogliatoio o di frugare nei cestini delle segreterie. Questo schema interpretativo, elaborato da Gpo nel 1994, non è rimasto sepolto nel volume Laterza, ma ha generato nel tempo una serie continua di ripensamenti, di integrazioni, di riscritture: prima versate in qualche voce di Tutto il calcio parola per parola (Editori Riuniti, 1997: da non perdere è il lemma «Biscardi»), poi in parte offerte nei Miti dello sport visti dallo spogliatoio (Boroli, 2004); infine sono confluite in maniera più sistematica in Non dite alla mamma che faccio il giornalista sportivo (Limina, 2010, con una lucida presentazione di Massimo Raffaeli), e ora nei Cantaglorie.
APPUNTI SPARSI PER UNA STORIA DELLA STAMPA SPORTIVA
Queste, in estrema sintesi, le originali ipotesi interpretative di Gpo, che vanno prese come tali e dunque possono, anzi devono essere discusse alla luce di studi più recenti1, che qui vale la pena di riassumere per offrire ai lettori un’utile base di confronto. Occorre magari subito precisare che la prima fase, quella dei pionieri, tra Otto e Novecento, non è forse così rosea e disinteressata come di solito la si intende dipingere. E comunque essa va letta all’interno di complesse dinamiche economico-sociali, in un’Italia ancora contadina che tuttavia cominciava a muovere i primi timidi passi verso l’industrializzazione, alimentata dall’irresistibile sirena del progresso. Anche lo sport si inseriva in questa frenesia fin de siècle; e se continuavano a essere ben salde le società ginnastiche eredi dell’attività fisica concepita in funzione prebellica (da qui lo sviluppo ottocentesco di ginnastica, scherma, tiro a segno, con l’appendice più specialistica dell’equitazione), dai paesi anglosassoni presto sarebbero state importate discipline destinate a un futuro sfavillante, come il rugby e il football, presto in aperta competizione con gli sport tradizionali della penisola, in primis il pallone elastico. In questo quadro in veloce evoluzione, dove occorre anche inserire l’artificiosa riproposizione delle Olimpiadi ateniesi (1898), lo strumento che quasi magicamente intercetta e incarna alla perfezione queste esigenze di progresso è la bicicletta. Ideale sintesi di progresso tecnologico e status sociale, il cavallo meccanico nell’arco di pochi decenni diviene non solo un privilegio per pochi (che inventano grazie a essa un’inedita forma di turismo), ma un mezzo di locomozione alla portata di un pubblico sempre più largo. A ragione si concentra dunque su di esso l’attenzione dell’industria meccanica (e quella, collegata, degli pneumatici), con forti investimenti e un aggressivo battage pubblicitario. In tale contesto, in cui tra poco si inseriranno le istanze futuriste, non può dunque mancare l’esibizione sportiva, e poi la competizione, in grado di attirare appassionati, tifosi (e clienti). Nascono come funghi i fogli specializzati soprattutto nel velocipedismo, di gran lunga lo sport più popolare. Tra tutti emergerà con vigore «La Gazzetta dello Sport», nata a Milano nel 1896 (con una tiratura iniziale di ben 20.000 copie) dalla fusione di due settimanali, «Il Ciclista» (1892), fondato dall’avvocato Eliseo Rivera, e «La Tripletta», invenzione dello studente in Lettere Eugenio Camillo Costamagna. A lungo bisettimanale (esce il lunedì e il venerdì), «La Gazzetta dello Sport» troverà nell’invenzione e nell’organizzazione del Giro d’Italia (il Tour de France, suo modello naturale, era nato sei anni prima, nel 1903) la spinta per crescere in maniera vertiginosa toccando le 100.000 copie (con tre uscite, lunedì, mercoledì e venerdì) durante lo svolgimento della corsa a tappe. Il Giro d’Italia, e le prime classiche che via via si organizzano, imprese massacranti sul piano fisico, impongono il tono epico dei primi cronisti, tra cui spicca la penna sapiente di Cougnet. Il risultato è una sintassi semplice e ben costruita, ed un largo utilizzo di metafore ricavate dalla classicità (in particolare dai poemi omerici), con grande dispiego di termini dell’area semantica bellica, caratteristica quest’ultima che avrà lunga vita nella cronaca sportiva.
All’interno di questo clima generale non mancano altri esempi di scrittura, come quello di Emilio Colombo, e di un giovane e promettente Vittorio Varale. Contraltare della «Gazzetta dello Sport», e insieme manifestazione complementare del giornalismo sportivo delle origini, può essere a ragione considerato il «Guerin Sportivo», fondato a Torino nel 1912, alla vigilia della guerra coloniale italo-turca. Esso riprende certa tradizione scapigliata, ironica e graffiante, e si segnalerà per l’utilizzo nel testo non di documenti fotografici, ma di disegni satirici usciti dalla mano del giornalista e vignettista Carlin Bergoglio. Notevole sarà anche la presenza di Ambrosini, che introdurrà nel settimanale un’attenzione speciale per gli aspetti tecnici e statistici, soprattutto applicati al ciclismo. Sarà naturalmente la Grande Guerra, con la forzata sospensione delle più popolari manifestazioni sportive, a segnare una cesura forte, peraltro contraddistinta dall’ecatombe di molte testate e la scomparsa sul fronte di non pochi cronisti sportivi. La «vittoria mutilata» e la conseguente ascesa del fascismo aprirà una seconda, non meno interessante, stagione giornalistica.
Una volta raggiunto il potere, il fascismo considerò sempre lo sport un ottimo strumento per la costruzione d’una mentalità autoritaria e «guerriera», nonché un’utile valvola di sfogo alle tensioni sociali interne e uno straordinario veicolo di propaganda sul piano internazionale. In quest’opera di formazione collettiva, in cui non mancava la ricerca di un «consenso» pubblico, era essenziale la funzione della cultura, della letteratura, e in genere della scrittura sportiva nelle sue diverse componenti. A quest’ultima era delegato il compito di raccontare agli italiani le imprese eroiche degli atleti «fascistissimi» che salivano il podio olimpico o raggiungevano le vette internazionali, come provavano i successi del calcio (bicampione del mondo, nel 1934 e nel 1938), e le prestigiose medaglie conquistate nelle Olimpiadi di Los Angeles (1932) e Berlino (1936). Per fare ciò, la scrittura – a cui presto si sarebbero aggiunti il cinema e la radio – punta sulle discipline tradizionali, come la ginnastica, l’atletica e la scherma, l’alpinismo, il pugilato (particolarmente amato dal regime per la sua maschia violenza); ma nel contempo – quasi riproponendo la dialettica culturale interna fra strapaese/stracittà – valorizza le nuove esperienze, soprattutto legate allo sviluppo tecnologico, quali il motociclismo, l’automobilismo, l’aviazione. Il giornalismo sportivo dovette quindi abilmente barcamenarsi tra propaganda e legittimo desiderio di cronaca, cercando di non rimanere invischiato in censure politiche o in sterili dispute linguistiche per la sostituzione dei termini tecnici stranieri, secondo le direttive autarchiche del regime. Tuttavia il forte impulso impresso dal regime a ogni attività agonistica, sia pure per meri fini strumentali, incrementò lo spazio riservato alla stampa sportiva, e dunque si assistette, in particolare nel corso degli anni Trenta, a un vero e proprio boom di testate sportive, che fiorivano in ogni angolo d’Italia (Meridione compreso), spesso assumendo una specifica connotazione disciplinare. Per forza di cose mutava dunque il tono generale del discorso giornalistico, e cresceva il tasso retorico, aiutato dalla ripresa dell’aulica prosa dannunziana, assunta per esempio a modello del raffinato e colto Bruno Roghi. Tra i molti cantori di questa stagione si distinsero due corrispondenti del «Corriere della Sera» (segnale evidente che ormai lo sport aveva conquistato un ruolo importante nei quotidiani), Emilio De Martino, vecchia volpe della stampa sportiva, e Orio Vergani; pur non essendo esenti da compromessi col regime, i due seppero comunque ritagliarsi spazi originali, caratterizzati da un notevole piglio narrativo (e non a caso si provarono entrambi con buoni successi anche sul piano del romanzo sportivo).
La rovinosa caduta del fascismo lasciò il paese in condizioni pietose, lacerato dalle bombe nemiche e dagli strascichi di una guerra civile non ancora del tutto terminata. In questo quadro desolante, in cui tuttavia ben presto si sarebbero risvegliate le energie migliori della nazione, anche lo sport era chiamato a un compito non facile, di collante appunto di una nazione ancora non del tutto pacificata; e di segno evidente, anche su di un palcoscenico internazionale (si pensi alle vittorie al Tour di Bartali o di Coppi), che l’Italia era ancora viva e vincente. Se molti dei simpatizzanti del regime superano indenni il passaggio dalla dittatura alla libertà repubblicana e dunque tornano a ricoprire la propria poltrona in uno scacchiere giornalistico in continua evoluzione, ha un valore non solo simbolico la salita nel 1950 (in sostituzione di un maestro come De Martino) alla direzione della «Gazzetta dello Sport» del trentunenne Gianni Brera, già collaboratore della «rosea» (per l’atletica leggera) e in precedenza del «Guerin Sportivo». Il geniale e sinora insuperato campione del giornalismo sportivo del Ventesimo secolo è per un verso l’erede della migliore tradizione tecnica precedente (che aveva in Ambrosini un esponente di spicco), per l’altro riprende originalmente, sul piano linguistico, una tradizione addirittura scapigliata e ribelle, che richiama il Dossi e il Carducci petroliere e si nutre di altri esempi eterodossi e neoespressionisti. Da qui uno stile personalissimo, fecondato da letture disordinate quanto sterminate, e una naturale propensione a inserire lo sport in un ambito più vasto, con risvolti antropologici ed etnico-culturali, che determinano una vera e propria filosofia calcistica nota come difensivismo e che ha nel catenaccio uno dei suoi perni tattici. Oltre ciò, Brera immette nel giornalismo sportivo un’apertura internazionale, favorita da lunghi soggiorni all’estero, nonché una spiccata e quasi presuntuosa autostima, spesso sfociante in un acceso agonismo dialettico che lo porterà a duri scontri con i colleghi. Esemplari in questo senso le sfide (per divergenze filosofiche e tattiche in campo calcistico, che avevano come fulcro Gianni Rivera) contro Gino Palumbo e Antonio Ghirelli, che lui «padano» sdegnosamente bollava come appartenenti alla «scuola napoletana» (ma fece scalpore anche la rottura, per altre e più complesse ragioni, con Giovanni Arpino, che a suo modo stava, da scrittore doc, rinnovando la narrazione sportiva). La citazione di Arpino richiama per via laterale alla mente un fenomeno straordinario che nell’immediato dopoguerra, e per circa un quindicennio, caratterizzerà il giornalismo sportivo, vale a dire l’utilizzo, soprattutto in occasione del Giro d’Italia o del Tour, di giornalisti-scrittori (ma il binomio può essere invertito); chiamati per «fare colore», ossia come riempitivo rispetto alla cronaca vera e propria della corsa, lasciarono pagine indimenticabili di vera letteratura, come testimoniano i testi di Dino Buzzati, di Achille Campanile o di Alfonso Gatto, per citare solo i maggiori.
Tornando in breve a Brera (che dalla «rosea» passerà poi al «Giorno», e dopo diverse esperienze professionali approderà infine alla «Repubblica»), non si può negare che grazie a lui il giornalismo sportivo acquistò un rilievo mai raggiunto, anche sul piano economico. E conquistò anche un peso rilevante nei quotidiani non sportivi; in questo senso il trasferimento al «Giorno», quotidiano molto ambizioso e innovativo, è sintomatico, favorito anche da una redazione di alto livello, in cui sedevano, oltre a Brera, Mario Fossati (per il ciclismo), Giuseppe Signori (atletica) e Gianni Clerici (tennis). Se l’astro di Brera – diventato in seguito grazie anche a diverse frequentazioni televisive una sorta di icona ideale, sebbene via via stinta e ripetitiva, del giornalista sportivo – illumina di luce propria la seconda metà del secolo, va detto che non mancano, nel rinnovato panorama giornalistico (dove l’avvento di «Stadio» e di «Tuttosport» porterà a quattro il numero dei quotidiani sportivi) dei cambiamenti significativi. Basta qui ricordare la straordinaria fucina di «Tuttosport», a cui la direzione di Antonio Ghirelli imprime una svolta destinata a fare scuola (sull’asse Palumbo-Cannavò alla «Gazzetta»); è lui infatti ad introdurre una grafica innovativa, che fa da contenitore a una titolazione aggressiva e «urlata», a cui fa da complemento il contenuto altrettanto inedito del quotidiano torinese, più vario e mosso, con l’inserimento di cronache politiche, ma anche di inchieste e di aperture narrative. (Sarà questo, detto tra parentesi, il brodo di cultura in cui cresce appunto Gpo, direttore del quotidiano dal 1974 al 1979, che da parte sua valorizzerà l’aspetto giocoso del quotidiano, con trovate da calembour).
Se gli anni Sessanta – aperti dalle Olimpiadi romane che infiammarono tutti gli sportivi – rappresentano forse il momento qualitativamente più alto del giornalismo sportivo italiano, mentre il calcio soppianta il ciclismo e diventa lo sport più seguito, i decenni successivi impongono agli storici una riflessione più articolata, che implica il rapporto con il mezzo televisivo. Il primo termine di paragone, più ovvio, è naturalmente La Domenica Sportiva, che a metà degli anni Sessanta si struttura come un vero e proprio programma, dotato di un conduttore ad hoc. Partita come un generico contenitore di sport, contemplando un ampio ventaglio di discipline (anche «minori»), si concentra nel tempo su quelle più popolari, e soprattutto sul calcio, introducendo la moviola per dirimere alcuni episodi poco chiari – decisiva al riguardo sarà la trasmissione del 20 febbraio 1972, con l’ammissione di un errore da parte dell’arbitro Concetto Lo Bello. Di lì a qualche anno sarà Biscardi a usare sistematicamente nel suo Processo la moviola (o il più sofisticato moviolone) per accendere ad arte la discussione (o la rissa, che alza l’audience), giocando sistematicamente sulla contrapposizione in studio tra giornalisti (e personaggi famosi) di fedi calcistiche diverse. Con Il Processo la chiacchiera da bar è elevata a spettacolo, creando così un modello televisivo vincente, che sarà riproposto con qualche aggiustamento in molte altre emittenti televisive. I riflessi sulla stampa sportiva non sono all’inizio negativi, in quanto – come già accaduto con il più illustre Processo alla tappa di Sergio Zavoli – si crea una sorta di circolo virtuoso tv-stampa (spesso i giornalisti più quotati sono presenti negli studi) con effetti benefici per entrambi. All’altezza del 1982, con l’uscita dagli anni di piombo e la vittoria degli azzurri ai mondiali spagnoli – che sembrano miracolosamente ricomporre un’unità sociale e patriottica –, la stampa sportiva raggiunge il suo culmine sul piano delle vendite e sembra destinata a un avvenire radioso. Dietro l’angolo c’è però l’ombra sempre più invadente della televisione, che non ha solo la faccia gentile e educata di Maurizio Barendson e Paolo Valenti, conduttori di 90° minuto (quasi versione sullo schermo del popolarissimo Tutto il calcio minuto per minuto). Grazie a nuovi investimenti, favoriti dal duopolio Rai-Mediaset, la tv entrerà con decisione nel mondo dello sport, allargando di molto la propria offerta di eventi agonistici. Di fronte a tale rivoluzione, i giornali sportivi si dimostrano impreparati e comunque impossibilitati a concorrere ad armi pari contro chi ha la possibilità di offrire «in diretta», con ampi dettagli e adeguati commenti «a caldo», le più importanti manifestazioni sportive. La reazione delle sedi giornalistiche è in genere scomposta, e si limita a restyling grafici, e ad una titolazione più aggressiva. Defraudati dalla possibilità di competere sul piano specifico della cronaca – tutto è già stato «mostrato» in tempo reale –, i giornali cercano confusamente di correre ai ripari per recuperare il lettore tradizionale. Invece di aprirsi a prospettive inedite (magari occupandosi di sport minori ignorati dalla televisione, o solamente scoperti in occasione degli allori olimpici), concentrano la loro attenzione sugli eventi maggiori, scadendo a debole cassa di risonanza del déjà-vu. Non potendo dunque gareggiare ad armi pari, i giornali cercano di ovviare alle loro limitazioni focalizzandosi su quello che sta «prima» o «dopo» l’evento, insistendo sul genere intervista, che però a causa della reticenza degli intervistati – blindati per contratto dalle società – si riduce quasi sempre a poche frasi stereotipate e interscambiabili. Palcoscenico principale di questa fiera della vacuità è senz’altro il «mercato» calcistico estivo che per due mesi riempie le pagine di promesse e illusioni. In rari casi (in occasione per esempio di scandali legati al doping, alle scommesse o alla corruzione) i giornalisti si impegnano a scavare dentro i fatti, benché ciò non si risolva quasi mai in un serio lavoro d’inchiesta, quanto piuttosto in un’impietosa e pettegola analisi, o in ipocrite condanne. Inseriti in tale tritacarne, i giornali (anche quelli non sportivi) tendono così ad appiattirsi e a perdere la propria identità; perfino la lingua tende a farsi omogenea e quasi plastificata, e scompaiono o quasi le «grandi firme», un tempo subito riconoscibili.
Il progressivo affermarsi delle pay-tv, accompagnate dalle più recenti innovazioni tecnologiche, e in primis da internet, complicano sempre più il mestiere del giornalista, di continuo chiamato a impari confronti. Se le edizioni on line dei quotidiani si affiancano alla copia cartacea nel tentativo di battere in velocità le notizie provenienti dalla rete, il destino del vecchio e obsoleto giornale cartaceo sembra segnato, a meno di reinventarsi in toto, con uno sforzo di fantasia che al momento non si avverte nell’aria.
IL GRANDE ILLUSIONISTA
Dopo questa sorta di veloce ripasso delle fasi principali della storia della stampa sportiva, possiamo ora tornare, per un’utile comparazione, ai due volumi di Gpo, ossia Non dite alla mamma che faccio il giornalista sportivo e I cantaglorie. In questi testi rimane infatti ben presente, sullo sfondo, la primitiva griglia interpretativa targata Gpo. Se Non dite alla mamma insiste – creando nella seconda parte una sorta di «galleria degli uomini illustri» – soprattutto su alcuni straordinari incontri con i più grandi atleti del Ventesimo secolo (da Bartali a Maradona, da Cassius Clay a Merckx o a Meroni per citarne solo alcuni), I cantaglorie segna invece un ritorno al giornalismo sportivo vero e proprio. Osservato da un punto di vista che non è più quello esterno e distaccato dello storico, ma inserito in una visione dinamica e articolata in cui radio, tv e carta stampata sono parti di un unico, composito mondo. Gpo descrive i protagonisti (amici e colleghi) della stampa e dell’informazione – ma, secondo un’inveterata abitudine, di volta in volta nel teatrino messo in scena da Gpo compaiono altri personaggi e si mescolano diversi temi –, quasi a fornire una serie di prove e di documenti per incarnare nella realtà le teorie sopra esposte. Da qui una prima possibilità di fruizione del volume, che può essere affrontato appunto come una avvincente rappresentazione – perché la dimensione cronologica è come annullata da continui rinvii e riprese e dalla presenza costante del narratore –, che cerca comunque di passare in rassegna i protagonisti e i risultati di quella lunga stagione giornalistica, giungendo sino alle ultimissime trasmissioni televisive e all’uso dei più sofisticati strumenti tecnologici di comunicazione (a cui Gpo guarda sempre con interesse).
Gpo non è però solo colui che per obblighi professionali ha dovuto osservare e raccontare oltre mezzo secolo di sport italiano (per questo e gli altri record detenuti dal Nostro – scorpacciate di Olimpiadi estive-invernali, di Giri, Tour e molto altro – rinvio all’autoritratto inserito in apertura del volume); Gpo infatti è stato sia testimone sia attore protagonista, perché ha veramente attraversato l’intera storia del giornalismo sportivo italiano. E se la morte di Coppi, segnale forte di passaggio da un’epoca all’altra, lo ha visto per un caso fortuito al capezzale del Campionissimo, quale commosso e partecipe cronista dei suoi ultimi giorni, l’apprendista diciassettenne Gpo ha incontrato idealmente (e in qualche caso di persona, come è accaduto con Emilio De Martino o Carlin Bergoglio) gli ultimi cantori di un mondo in via di disfacimento.
Quella intessuta da Gpo è dunque una cronaca storica sui generis, sentimentale e affettiva, come il sottotitolo esplicita nel primo aggettivo: Una storia calda e ribalda della stampa sportiva; ed è per alcuni versi (mi riferisco ai molti protagonisti evocati che non sono più in vita, gli altri possono fare gli scongiuri di rito) una personalissima Spoon River, dove l’epitaffio – che rimane come implicito sullo sfondo, incastonato in una formula o in un’immagine fulminante – si dilata e prende forma di un vivacissimo ritratto. Sorprendente è per me in questo senso il ricordo dedicato a Dino Buzzati, incontrato dal Nostro nel 1964 a Innsbruck in occasione dei Giochi invernali del 1964; rispetto ai colleghi più esperti e scafati, Buzzati è descritto come un «corpo estraneo», un marziano disceso su un mondo, quello sportivo, greve e comunque poco incline alle divagazioni letterarie; eppure, come coglie esattamente Gpo, proprio tale distanza gli consente, senza sforzo apparente, uno sguardo più penetrante e una prosa che anche in quell’occasione continua a trasmettere interrogativi e misteri, come già era accaduto in occasione del Giro d’Italia del 1949, quando l’ingenuo inviato del «Corriere della Sera» aveva generato bellissime pagine poi raccolte in Dino Buzzati al Giro d’Italia (Mondadori, 1981). Ma ciascun lettore dopo la full immersion nel magma ormezzanico può giudicare ovviamente in piena autonomia stilando la sua classifica di merito. Ciascuno, a seconda delle sue esperienze e dei suoi ricordi, può attraversare queste pagine apprendendo dati forse inediti, curiosità; ma, quel che più conta, ha l’opportunità di incontrare i propri beniamini di un tempo a cui rubare nostalgie o gioie antiche, riconoscendo i volti, i tic, le cadenze dei diversi protagonisti (Vittorio Pozzo, Nicolò Carosio, Enrico Ameri, Sandro Ciotti, Sergio Zavoli, Gianni Brera, Adriano De Zan, Maurizio Mosca…), come riconvocati e ritrovati nella memoria, pur in un groviglio inestricabile (di radio, giornali e tv), che ha la confusione e il profumo di un tempo remoto e comunque rassicurante, come una tazza di tè in una mattinata d’inverno.
In fondo, se proprio vogliamo essere sinceri e scendere alla radice, sorge il sospetto che l’insieme dei ritratti dipinti non costituisca solo la pinacoteca personale di Gpo, ma proietti sulla parete una sorta di biografia collettiva, nel senso che più voci concorrono a definire un’inedita, sempre in movimento, autobiografia dell’autore Gpo. Solo sospetti? Difficile arrivare a una conclusione perché Gpo è sì un giornalista di vaglia, ma anche e soprattutto un narratore, un simpatico e narcisista intrattenitore e illusionista. Per ciò che concerne la ribalderia sopra citata, ben ostentata da Gpo, è il risultato della sua solita straordinaria capacità inclusiva e onnivora, per cui non sai mai quanto sia vero e quanto sia inventato, quanto sia sottile ironia o affronto dichiarato, quanto sia farina del suo sacco e quanto sia stato rubato ad altri, perché tutto è stato triturato e mescolato.
Come temevo, parlando di Gpo ho progressivamente perduto il mio spirito critico, catturato dall’affetto verso l’amico, di cui ho avuto l’occasione di leggere queste pagine appena stampate, e molte altre che ho dovuto qui riprendere. Mi sono così trovato catapultato in un vortice bibliografico, in un labirinto, non di rado composto da titoli che risultano ufficialmente anonimi, o che sono firmati con un nom de plume. Non credo che quest’abitudine di costruire libri, contratta sin dai primi anni di attività giornalistica, risponda solo a pure ragioni «alimentari»; piuttosto suppongo sia un altro segnale di voracità intellettuale, di voglia di mettersi alla prova. E anche risponda alla necessità (inconscia ma presente in Gpo) di tentare di dare almeno un ordine provvisorio – quello degli eventi affidati alla gabbia dei numeri e del tempo, come accade per i molti volumi «storici» da lui confezionati – al grande affascinante caos della vita.
Come ho avuto modo di constatare di persona (si era a Pontremoli, in occasione della consegna al Nostro del Premio Bruno Raschi per la carriera, 15 giugno 2007), nemmeno Gpo ricorda esattamente quello che, forse troppo, ha scritto; e temo che non abbia un archivio o almeno una libreria contenente tutta la sua produzione extragiornalistica. In quella circostanza era toccato a me parlare appunto della scrittura non giornalistica di Gpo e io, che mi ero molto documentato per non fare brutta figura, avevo pubblicamente ricordato un suo libro che mi aveva particolarmente interessato, Giro d’Italia con delitto (Garzanti, 1983), e di cui proponevo una riedizione. Mi stupì allora la meraviglia di Gpo, come se avesse ritrovato un figlio che credeva perduto, ossia che aveva definitivamente dimenticato; e infatti accolse il mio consiglio e il libro fu riproposto qualche tempo dopo (Marietti, 2009) meritando addirittura il Premio Coni per la letteratura sportiva. Per i suoi ottant’anni voglio fargli un secondo regalo (poi passerò alla cassa), citando un altro suo libro a mio avviso assai innovativo per la storia della scrittura sportiva, vale a dire Un caso da gol (Sei, 1975), allora presentato come «romanzo-verità» e scritto in collaborazione (non a quattro mani ma «a due teste», come recitava la quarta di copertina) con l’ex calciatore Nello Governato, che avrebbe poi dato altre notevoli prove di scrittore in proprio. Riprendi in mano quel libro, Gpo, poi ne parliamo.
P.S. In effetti a Pontremoli avrei voluto anche svelare che dietro il nome di Maurizio Tabacco, autore del libro Tutti nel pallone (Longanesi, 1977, altro testo – che la quarta di copertina definiva «divertente romanzo di fantasport» – da non trascurare), si celava ancora il Nostro, sempre in coppia con Nello Governato. Inutile aggiungere altro: il lettore avrà compreso quanto piaccia al gattone Gpo scherzare con i topolini, e come I cantaglorie racconti e metta in scena, da una prospettiva più che mai personale e particolare, una vicenda lunga almeno sessant’anni.
ALBERTO BRAMBILLA