Amore, eros e pornografia. Tre parole per miliardi di parole

In oltre mezzo secolo di sodalizi assortiti ho fatto in tempo ad agganciare, persino frequentandoli sul lavoro, alcuni dei grandi cantori ufficiali. Mi ricordo specialmente di Emilio De Martino, aveva anche scritto un libro fortunatissimo su una vicenda di calciatori giovanissimi, La squadra di stoppa. Come direttore di un settimanale che era vangelo mio, «Il calcio e il ciclismo illustrato», seguiva il Giro d’Italia del 1959, il mio primo. Ogni mattina, al raduno di partenza, andavo alla sua auto, dove lui aspettava la partenza senza mescolarsi a noi eterni neofiti che cercavamo fino al via di stare con i corridori, e gli dicevo con deferenza sincera: «Buona tappa, direttore». Lui mi rispondeva di fisso: «Ciao caro, ti leggo». Ovviamente non sapeva manco il mio nome.

Convocato in tempi più recenti fra gli autori di un librone sulla storia della stampa italiana tutta ho proposto e scritto, relativamente al giornalismo sportivo, una suddivisione in tre epoche, ognuna popolata dalla sua tribù, per il periodo di cui sono stato testimone e attore:

1) l’epoca dei cantori, definibile meglio come quella dell’amore per lo sport (parole e musica, articoli come canzoni);

2) l’epoca degli studiosi o meglio l’epoca dell’erotismo, che è anche se non soprattutto accademia, studio dell’amore;

3) l’epoca dei pornografi o meglio della pornografia, che è rappresentazione oscena o quanto meno esplicita dell’atto amoroso nonché erotico.

Devo dire che la suddivisione non solo è piaciuta, ma è parsa esaustiva: del che non mi rallegro neppure con me stesso, anche perché ammetto anzi confesso di essermi gaglioffamente mosso niente male sia nell’epoca dell’amore che in quella dell’erotismo che in quella, perdurante, della pornografia.

Personalizzando le tre epoche, penso che la prima abbia i nomi e i cognomi, appunto, dei cantori antiqui: Emilio De Martino, Orio Vergani, Emilio Colombo, Bruno Roghi, Ruggero Radice, Vittorio Varale, persino Dino Buzzati, alcuni scrittori verissimi altri reporter talvolta sgrammaticati (la fretta…), tutti comunque innamorati dello sport, in particolare del ciclismo. Sì, del ciclismo anche se, anche perché vedevano pochissimo i corridori in azione, in questo parzialmente giustificati da strade orrende e automobili fragili, intanto che vedevano molti paesaggi ispiratori e facevano in corso di tappa splendide mangiate, scoprendo l’Italia e facendola scoprire ai lettori con una ingenuità che quasi sempre era anche onestà.

Per l’epoca dell’erotismo un nome decisissimamente su tutti, quello di Gianni Brera, che si autodefinì studioso dello sport e lo fu pure, usando lenti molto spesse e molto sue, una sorta di filtri ottici del mondo sportivo e non solo, di fabbricazione padana anzi lombarda, con rischi di militanza nel razzismo evitati grazie a classe, innovazione sensazionale nel lessico e dunque nel lavoro di scrittura, esperienze forti anche fuori Italia e grandissima arte del paradosso. Brera, nel ruolo di studioso ottimo massimo, come giornalista di ciclismo si sovrappose e in un certo senso si impose a Giuseppe Ambrosini, direttore responsabile della «Gazzetta dello Sport» (dove Brera lo affiancava come direttore e basta), e litigò di fisso per iscritto con Carlo Bergoglio, del rivale «Tuttosport», giornalista morto precocemente (nessuna colpa di Brera, sia chiaro). Tutti e tre studiavano lo sport, lo amavano seppure spesso criticandolo, non cercavano soltanto di cantarlo alla buona ma ne scrivevano omaggiando la grammatica e la sintassi, intanto che sempre sapevano giocare con la lingua italiana, sorridere e far sorridere con i dogmi e le eresie, con le logiche euclidee e i paradossi picassiani.

Per l’epoca della pornografia rimando tutto alla presa diretta: si tratta comunque di dolente attualità, dunque di cronaca e non di storia. In fondo l’accostamento (copyright di Oliviero Beha) della grande manifestazione sportiva allo spettacolo a luci rosse, alla esibizione appunto pornografica, è persino facile, direi automatico. C’è sempre, lì e là, chi guarda e chi agisce, cioè il voyeur e l’attore. Il primo vorrebbe fare, e al meglio, certe cose che il secondo fa al suo massimo, ma non ci riesce, e allora delega il campione a farle per lui, vede, guarda, lo tifa, lo sostiene, applaude in caso di riuscita e alla fine si concede spesso l’orgasmo del tifoso vincente e felice, o la rabbia sexy del fan sconfitto e infelice. La simmetria fra intenso evento sportivo e hard o hot show mi sembra perfetta, anche scendendo ai dettagli, dove ognuno può agire con il supporto forte della sua fantasia.

DAMMI LE LETTERE

Ho già detto che mio padre mi portò a vedere, anno 1946, l’arrivo della prima tappa del primo Giro d’Italia del dopoguerra, soprattutto per celebrare il passaggio in auto, in prossimità del traguardo, di Raro, il giornalista amico suo, uno dei cantori di quel ciclismo eroico che già prima della guerra aveva sfornato i Bartali e i Coppi dopo i Binda e i Guerra e i Girardengo.

Ruggero anzi Roger Radice detto Raro (RAdice-ROger), nato a Salon di Provenza, Francia, dove crebbe Nostradamus, ma piemontesaccio tipico, dialetto compreso alternato al francese persino più che all’italiano, inviato speciale di «Tuttosport» firmando Ruggero Radice e della «Gazzetta del Popolo» firmando Raro: per quello che mi riguarda il prototipo dei cantori, anche perché conosciuto direttamente grazie al mio primo lavoro e persino da me redattorino di «Tuttosport» controllato, corretto, «aggiustato» quando gli stenografi «traducevano», cartella dopo cartella, il suo dire, riferire, raccontare della corsa a braccio, cioè il suo improvvisare al telefono, con grande affetto per le vicende dei suoi cari ciclisti e pazienza se talora, in frequente emergenza di trasmissione del pezzo, con non piccolo disprezzo della lingua italiana. Da chiarire che per gli articoli non c’era allora la trasmissione elettronica, e non c’era neanche il fax, al massimo c’era il telex che era una macchina da scrivere che riceveva impulsi da operatori lontani ed era pure capace di tanti errori elettromeccanici. Gli stenografi erano i veri padroni dell’articolo, lo tramutavano, a mano a mano che l’inviato lo dettava, in segni brevi che poi «traducevano» battendo a macchina per la redazione, su fogli di carta si capisce, il testo liofilizzato, un testo che potevano anche manomettere e che spesso aggiustavano, correggevano, completavano, magari facendo un favore all’inviato non superbravo nella scrittura al volo.

Il giornalismo ciclistico italiano ha avuto tanti cantori «convocati» soprattutto dal Giro d’Italia. Si sono mossi, verso quella creatura di forte immediato appeal nazionalpopolare (allora non si diceva così, ma così era), letterati autentici e no ospitati provvisoriamente da grandi giornali. Orio Vergani, sportivissimo, ma anche Alfredo Panzini e Dino Buzzati, e poi Emilio De Martino e Bruno Roghi, e loro colleghi giornalisti esimi ancorché non sportivi, chiamati a dare e ricevere lustro dagli articoli di sicuro impatto sul vasto fenomeno dello sport, su tutti Indro Montanelli. Con divagazioni interessanti: Achille Campanile l’umorista delle commedie folgoranti, Giovanni Mosca della grande équipe del periodico «Candido», Alfonso Gatto e Velso Mucci poeti tout court, Curzio Malaparte studioso speciale della dicotomia Bartali-Coppi. Fu Gatto, al Giro d’Italia per «l’Unità», quaranta righe al giorno ma speciali, appunto da poeta, a cominciare affannatissimo, dopo grandi lotte per conquistare la linea telefonica in una località dalle comunicazioni impervie, la dettatura di un articolo con questa frase: «Ha vinto lo spirito…». Lo stenografo gli fece presente che secondo la radio aveva vinto Coppi, Gatto insistette con lo spirito, l’altro insistette con Coppi, Gatto furibondo gli urlò il vaffanculo più intenso, lo stenografo gli chiese di dargli le lettere, di fare lo spelling della parola. E Gatto: Verona Ancona doppia Firenze Ancona Napoli…

Leggende metropolitane, dicerie, cose vere e cose verosimili. Sempre comunque un profondo amoroso rispetto per la vicenda sportiva e per i suoi attori/fachiri. I cantori amavano i ciclisti, i carissimi «puzzapiedi», così tanto che non li disturbavano con la presenza rumorosa e pericolosa delle auto a fianco: preferivano prendere subito tanti chilometri di vantaggio sul percorso non sempre asfaltato, anzi, della tappa (o della gara in linea), consentendo ai motori e agli autisti la sosta da riposo e a sé stessi il ristorante celebre e straprenotato. In pratica i cantori erano tutti i giornalisti al seguito, anche quelli che lottavano con il loro italiano primario e sommario, e però l’età e le tacche di partecipazione alle corse facevano la differenza e filtravano le designazioni nei giornali. Cantori perché davvero cantavano la santa fatica degli atleti, dei pedalatori spesso opposti ai calciatori un po’ fighetti.

Cantavano, i cantori, lo sforzo, la fatica, il sudore, le puzze, le piaghe. Lavoravano bene di fantasia, inventavano molto, alla fin fine ingannavano poco. Avevano la confidenza piena degli atleti, quando non anche la sottomissione. Accrescevano o impreziosivano la popolarità dei campioni, o addirittura creavano i campioni. Magari non sapevano molto di sport, ma questo in fondo era un bene, liberava di più e meglio l’immaginazione.

Ricordo che al mio primo Giro d’Italia affondai subito felice tra personaggi che per me erano già celebri di firma, voce, anche immagine fisica (pur senza televisione, bastava la fotografia). C’era chi cominciava il Giro dilapidando tutto l’anticipo spese in una-due notti di lussuria, poi si metteva ufficialmente in carico agli amici. Il gran capo riconosciuto dei gaudenti era Mario Ferretti, radiocronista, l’inventore dell’«uomo solo al comando» per dire di Fausto Coppi. Aveva un’amante che era un’attrice celebre, Doris Duranti, e che lui citava in ogni radiocronaca, inventando sempre sul tracciato un paesino, Doris, dove era sfilato il gruppo «duranti» una fase importante della contesa.

In quel Giro c’era in carne e ossa Ciro Verratti, prima firma sportiva del «Corriere della Sera» e – dicevano – ammaliatore di donne vicine alla proprietà della testata, campione olimpico di fioretto a squadre a Berlino 1936, per me soprattutto attore protagonista del film Il Corsaro Nero (e sullo slancio appunto grande tombeur de femmes), Ciro che era per me assurto a mito anche giornalistico nelle teletrasmissioni da Cortina, Giochi invernali 1956, ogni sera lui e Emilio De Martino sul video a commentare la giornata esibendo una repente competenza in cose di sci alpino e nordico, Ciro che mi dicevano avarissimo e dittatoriale in redazione, grande specialista nel farsi invitare dagli organizzatori delle manifestazioni e intanto nell’ottenere il rimborso dal giornale per spese mai sostenute, Ciro che scivolò su una faccenda amministrativa di questo tipo, prima del finale traumatico e nobile della sua carriera, la morte per i postumi di un incidente proprio al Giro, finita contro un albero l’auto che lo portava a un banchetto. Lo avevo soprannominato, in una mia rubrica su «Tuttosport» detta allora di colore, «la volpe del dessert» (quella del deserto era Rommel, il generale di Hitler), per la sua abilità nel «coprire» nella stessa sede di tappa due e anche tre inviti a cena, pronto appunto in occasione di ogni dessert a dire due parole e raccogliere l’omaggio della proloco, di solito un tremendo oggetto d’arte locale. Aveva letto, si era riconosciuto ma non mi aveva tolto il saluto, dandomi in fondo una lezione di pax giornalistica «nonostante».

Alba degli anni Sessanta, dunque: tanti cantori si spegnevano, si disperdevano in fretta, con la loro notorietà datata e la loro signorilità affettata, quasi snob, nel boom dello sport televisivo che dava posto di tipo nuovo e anche improvvisa celebrità a tanti, che toglieva loro l’esclusiva di essere solenni testimoni diretti, che farciva i giornali di redazioni composite («per stare dietro a tutto»), di gente assortita, le redazioni dove di ogni evento ci si chiedeva, per decidere se mandare l’inviato: «Ma c’è anche la televisione?». Lo sport in tv proponeva, quando non anche imponeva, al giornalismo scritto forme nuove e nuove competenze, intanto che snidava e offriva un pubblico nuovo: e magari la militanza nel glorioso sport e specialmente nel gloriosissimo ciclismo prebellico diventava scricchiolio di memorie tarlate, smettendo di essere esperienza e prestigio.

Arrivava al video, dalla più nobile radiofonia, il fuoriclasse Sergio Zavoli – dirlo cantore è poco –, che si era tranquillamente spostato dal sensazionale documentario radiofonico sulle monache di clausura alla pipì in corsa dei corridori del Giro. Il suo Processo alla tappa, un trionfo di audience, è sicuramente la teletrasmissione sportiva di maggior rilevanza nella storia in pollici del nostro paese, e magari anche l’operazione giornalistica originale nello sport meglio riuscita di sempre. Era la corsa tutta ad andare in teletrasmissione con lui: nasceva il giornalista della stampa scritta specialista della consulenza televisiva e intanto anche ottimo uomo-sandwich perché faceva pubblicità in video al suo giornale, accedendo al palco magico del Giro d’Italia. Zavoli era un fenomeno nell’imporre argomenti e dosare presenze. Io passavo per uno dei suoi cocchi belli. Indovinando la presa del programma, su «Tuttosport» scrivevo il «processo al processo», dando per scontato che qualcuno dei miei pochi fan mi leggesse dopo avere assistito al teleshow. Ma siamo già avanti.

I cantori allora, ancora i cantori. In redazione a «Tuttosport» avevo come capo supremo ancorché poco presente in fase di cucina del giornale Carlo Bergoglio detto Carlin, cantore che però volutamente non frequentava note alte, nel senso che praticava la cosiddetta discrezione piemontese e la venerava, la praticava e la imponeva sin dove poteva. Non andava d’accordo – insisto – con il superemergente Gianni Brera, ancor giovane e sempre assai rampante, capace di cantare ma seguendo la metrica nuova.

Pochi cantori posso ricordare come loro per lunga e calda frequentazione diretta. Gli altri sono, con Raro, Giuseppe Ambrosini e Vittorio Pozzo, sì Pozzo, ex commissario tecnico della nazionale di calcio. Un piemontesone anche lui, come me, che sono regionalista praticante, anche perché il nostro giornalismo sportivo deve tutto a quello sport italiano che nella mia Torino è nato e cresciuto. Persino Giuseppe Ambrosini, romagnolo praticante ancorché marchigiano di nascita, passò professionalmente per Torino e si affermò introducendo la prima redazione sportiva vera e propria in un quotidiano politico, quel grande trainante giornale che era «La Stampa». La sua invenzione ebbe repente successo presso tante testate. Ambrosini – epocalmente soprattutto cantore amoroso, ma già pioniere dell’erotismo – era prodigo di studi e calcoli sulle medie e sulle muscolature e sulle ossa dei corridori, tanto di femore e tanto di polpaccio. Definiva come minori tutti gli sport che non si praticavano in bicicletta ed era nemico dichiarato della televisione (come anche Carlin). Sul piano delle sapienze tecniche, Brera poliedrico lo staccava se non altro per varietà di sport conosciuti. Ambrosini lo criticava, lo ammirava, sbuffava quando si ritrovava a confronto con lui, magari nello stesso giornale.

Tutti erano in fondo innamorati della stessa creatura. Ma il nostro sport era cresciuto moltissimo e in tempo brevissimo, si aprivano immense praterie di temi da proporre e di interesse da mietere. Credo – insisto, ripeto – che dicendo dei cantori, magari per il tramite di episodi personali, dico anche di una sfaccettatura particolare, della interpretazione giornalistico-sportiva di quel fenomeno postbellico che si chiama ripresa, ricostruzione, e che il ciclismo ha vissuto assai più del calcio, anche per la tragedia di Superga che ci privò, in Italia, di quel Grande Torino che era Bartali + Coppi col pallone al posto della bicicletta.

I cantori hanno sempre amato lo sport, lo ri-ripeto. Anche perché spesso lo sport era davvero figlio dei cantori, inventori di manifestazioni e testimoni unici del loro dipanarsi. Giornalisticamente, però, hanno patito il modernismo dirompente, la televisione narrante. La radiofonia no, non li aveva turbati e nemmeno disturbati: a loro era piaciuta, sembrava un completamento, un aperitivo o un digestivo degli scritti, degli articoli che erano sempre il piatto forte, e non c’erano le immagini a rendere obsolete o addirittura a smentire certe loro narrazioni di ambienti e anche di vicende. Hanno di contro patito eccome la nuova teleItalia, hanno patito la loro anagrafe pesante. Devo dire che a me hanno tutti dato lezioni di serietà e di dedizione al lavoro. Da Carlin, si capisce, a Bruno Roghi, espertissimo di musica lirica, letterato vero (anche se pare sia sua la frase del «grande cuore che batte sotto i calzoncini del campione»), il quale Roghi, assunta per pochi mesi, quando era già condannato da un brutto male, la direzione di «Tuttosport», si acconciò a scrivere, friggendo aria, di gare mondiali su pista in orari ipernotturni: due versioni prefabbricate ovviamente non scendendo ai particolari della contesa, ancora da svolgersi, una dedicata alla vittoria di Tizio e una a quella di Caio, i due finalisti, presentati soprattutto come personaggi. Il tutto affinché in tipografia ci fosse già pronta la colonna di piombo con cui far partite la rotativa non appena conosciuto l’esito della sfida. Seguii e apprezzai, di Roghi e di altri come lui, la grande lezione di umiltà davvero operaia.

Ogni tanto gioco con me stesso al gioco di pensare a come potrebbe essere un eventuale nuovo cantore. Io sogno di leggermi la partita di calcio, anche se vista e stravista allo stadio o in televisione, raccontatami da un Hemingway, ovviamente per iscritto. Ma non solo mi manca l’Hemingway, mi manca la partita ideale, «giusta», nel senso che mi sembrano ormai una eguale all’altra – secondo Michel Platini variate solo dal caso, da lui detto culo nel suo ottimo italiano, o dalla prodezza individuale peraltro rarissima o dall’arbitraggio (o, dico io, anche dal doping e dalle scommesse illegali, chissà).

BRERA E CONTORNI E DINTORNI

Il giornalismo dei cantori, il giornalismo sportivo dell’epoca dell’amore, è stato superato dall’avvento dell’erotismo con i suoi studiosi e presto anche sbattuto da parte, si concorda, ad opera della televisione. Ma penso che abbia contato anche, e tanto, l’intero districarsi dei tempi nuovi. Gli anni Sessanta (lo dico per fissare un dato cronologico approssimativo ma indicativo) sono stati quelli dei fervori per il presente che costruivamo e per il futuro nel quale credevamo e speravamo, sono stati quelli della nascita di un’Italia viva e valida e bella da raccontare nel suo work in progress, senza bisogno di mediazioni fornite dalle fantasie altrui.

Ai Giochi estivi di Roma 1960, splendenti ma non cafoni, ricchi ma non riccastri, il successo dello sport nostro era gloriosamente sincrono al boom del paese tutto. La nostra nazionale calcistica (definita olimpica benché fatta di giovani non olimpicamente dilettanti, stando alle regole di allora, ma capaci giocando di dilettarsi e dilettare) coglieva il quarto posto dopo avere perso la semifinale contro la Jugoslavia per sorteggio, la star era un certo Gianni Rivera. E Livio Berruti, professorino torinese, vinceva sensazionalissimamente i 200 piani su bianchi e neri di tutto il mondo. Lo sport cresceva nel Bel Paese, il ciclismo non si era spento con l’improvvisa morte di Fausto Coppi, mentre il calcio di club conosceva grandi dimensioni internazionali, con il Milan e l’Inter addirittura leader in Europa. Dagli anni Sessanta in avanti è stata una pacchia, davvero.

Io ho goduto e sfruttato questi tempi felici e opimi. Di mio ho messo – me l’hanno detto – una feroce volontà di lavoro, tanto amore per lo sport (ancora grazie, papà) e persino un pochino di sempre valida istruzione diciamo pure tecnica (tecnica dello scrivere), regalatami dal liceo-classico-che-sempre-sia-lodato. Ma è stato tutto facile e bello, al giornale ci dividevamo in armonia il tanto mondo da girare con la fantasia e talvolta anche di persona: se ci dicevano di non spendere più di cinquecento lire a pasto rispondevamo grazie ed eseguivamo, le tirature aumentavano. In tanti, noi epigoni dei cantori, facemmo persino piccolo e talora ridicolo cabotaggio poetico, magari goliardico, su fatti però sempre forti come i nostri trionfi nello sport, o le nostre sconfitte polemiche: fummo enfatici, insomma, come innamorati chiassosi. Tutto serviva, bastava e avanzava per vendere i giornali.

E presto potemmo permetterci addirittura l’erotismo, la riflessione insomma sullo sport nostro amore ereditato dai cantori, la nostra capacità di farlo levitare e lievitare (salire e ingrossare) sulla base di fatti sempre meglio (tele)visti da tutti, senza epopee di fantasia.

E si cominciava pure a guadagnare bene con il giornalismo sportivo, grazie agli studiosi dell’amore, gli erotisti, Brera e contorni e dintorni umani. Costoro negli organici dei giornali erano saliti di importanza, ed erano riusciti a fare considerare anche noi «minori» come musicisti veri, non come stornellatori facili. Un po’ quel che accadde nel calcio quando, sempre anni Sessanta, l’allenatore Helenio Herrera, capace con l’Inter di enfatizzare copioni a priori anche poveri, fece sì che gli scienziati e/o istrioni della panchina cominciassero a guadagnare almeno come i loro calciatori celebri, ai quali dovevano poter dare ordini. Noi giornalisti sportivi cominciammo a guadagnare almeno come gli operai specializzati, in certi casi persino come i giornalisti «altri» più quotati, e fu un buon affare per tutti, da noi ai lettori, sicuramente serviti meglio, con più attenzione e competenza.

Intorno alla metà degli anni Sessanta avvenne anche il passaggio di supremazia quanto ad attenzioni (più che affetti) popolari fra ciclismo e calcio. Nel 1965 Felice Gimondi vinse alla grande il Tour de France e si gridò a Bartali e Coppi rinati, nel 1966 la nostra nazionale del pallone fece crepare dal ridere ai mondiali in Inghilterra, fatta fuori da una Corea, quella del Nord, e però si cominciò a parlare più di calcio che di ciclismo, nonostante il successo di Zavoli. Fiorenzo Magni, il terzo uomo del mondo del pedale, mi avrebbe una volta mostrato la «rosea» di quando, anni Cinquanta e stesso giorno, lui aveva vinto il Giro d’Italia e il Milan lo scudetto: la prima pagina quasi tutta per lui, al calcio un taglietto basso. Negli anni Sessanta due dei quattro giornali sportivi quotidiani italiani (un nostro megarecord, in tutto il resto del mondo ce n’erano appena altri tre) si calcistizzarono moltissimo sotto la direzione di due giornalisti saliti al Nord: Gualtiero Zanetti da Roma alla «Gazzetta dello Sport» di Milano, Antonio Ghirelli da Roma a «Tuttosport» di Torino. Il primo, bolognese, veniva dalla milizia interna del giornale, il secondo, napoletano, da tanto lavoro alla radio degli Alleati nel dopoguerra e poi da tanto giornalismo assortito, comprensivo di radio e incipiente televisione.

Zanetti fu conservatore nel senso che praticava un giornalismo diciamo classico, di notizie più commenti, però proprio da questo punto di vista incrementò di molto la già acclarata specificità e popolarità della «Gazzetta», leader assoluta, storica dell’informazione. Ghirelli rimase poco alla direzione e soggiornò pochissimo a Torino, ma portò nel sino ad allora abbastanza austero «Tuttosport» la sua dinamicità vulcanica: con pochi mezzi economici inventò un giornalismo d’assalto, grafica giovane e inchieste curiose e anche attenzioni al mondo della politica, inteso come vita della polis. Agì nella titolazione aggressiva e ben giocata su parole-choc, forzò sugli argomenti popolari più che popolareschi, arrivò presto a mettere in prima pagina qualcosa che non era di sport, intanto che la terza pagina era ricettacolo di idee, scritture anche azzardate, prove di talenti veri o finti, lo sport sovente puro pretesto per avventure e viaggi altrove, per cose da leggere anche senza tifare. Ghirelli metteva in prima pagina il turbamento delle famiglie per certi film volgari e «La Gazzetta dello Sport» metteva il Milan e l’Inter (e sempre meno il ciclismo).

In una storia ponderosa della stampa italiana mi fanno il regalo di attribuirmi il merito dell’ingresso della politica nella prima pagina di un quotidiano sportivo. Falso, Ghirelli lo aveva già fatto, io da direttore al massimo spinsi sull’acceleratore, con la mia rubrica Giorno per giorno, dedicata appunto a cose degli altri mondi – ma arrivai anche a titolare a tutta testata (allora le colonne erano nove) una mia intervista a Enrico Berlinguer che andava contro il dogma della sinistra per cui lo spettacolo sportivo era l’oppio delle povere genti, studiato e inflitto dal potere. Incrociavo Berlinguer negli stadi: «Ma lei segue sempre la Juventus?» mi chiese al terzo incontro in un mese, e gli risposi, provocando uno dei suoi celebri sorrisi tristi, che almeno io ero pagato per seguirla, lui no, lui che nobile sardo tifava per i torinesi del sire padrone Agnelli.

Ma al di là delle mie esperienze spicciole c’era tanto fermento nella vita di tutti i giorni. Non era solo un rinascimento dello sport italiano, era più semplicemente (ripeto) lo sport che si metteva nella corrente forte e bella dell’Italia in ripresa, nel grande fiume del boom, apportando però anche il tributo delle sue acque. La svolta di Ghirelli finiva per diventare trend di tutte le pagine sportive. Venivano persino tentati blandi esperimenti di ritorno alla letteratura nel senso di uso di nomi celebri a firmare reportage sportivi (nel 1964 Dino Buzzati ai Giochi invernali di Innsbruck per il «Corriere della Sera», e ne dico a parte, nel ritratto a lui dedicato). Fisiologicamente anche le redazioni sportive dei giornali politici venivano interessate, coinvolte, contagiate. Alla «Stampa» il vicedirettore Carlo Casalegno, che sarebbe stato ucciso dai terroristi, insisteva per convocare dandogli spazio sportivo Giovanni Arpino.

Fondamentale fu anche l’arrivo a Milano, da Napoli, di Gino Palumbo per dirigere al «Corriere della Sera» lo sport, poi per dirigere il «Corriere d’Informazione», infine per dirigere «La Gazzetta dello Sport» e farla svoltare verso un giornalismo nuovo e vecchio insieme, il nazionalpopolare in salsa ghirelliana, grafica e non solo. L’arrivo di Palumbo alla «rosea» fu peraltro il motivo della mia diciamo cacciata dalla direzione di «Tuttosport» (e ne parlerò più avanti). Tutto questo, sia chiaro, accadeva alla luce o se si vuole nel cono d’ombra (stessa cosa, quasi) di Gianni Brera, che sul «Giorno», testata nuova, spezzava il pane della sua scienza, fatto di farina vecchia e ogni tanto nuova. Brera che imperversava anche sul «Guerin Sportivo» con la rubrica L’Arcimatto, forse la più letta nella storia tutta del giornalismo sportivo italiano. Brera che trattava ciclismo e atletica, suo secondo amore meritevole anche di occasionali epifanie al primo posto, e impreziosiva l’articolo con argomentazioni scientifiche e trovate letterarie, riuscendo a farsi leggere anche quando parlava, ovviamente santificandole, delle doti fisiche e mentali dei padani come lui. Lo si accostava a Carlo Emilio Gadda, l’ingegnere lombardo grande scrittore, e lui Brera lasciava dire. Al calcio dava la parte più popolaresca di sé stesso, accettandolo anche nei suoi eccessi e spartendolo alle genti come uno sport spesso minore, quanto a nobiltà, e che però lui rendeva importante con le sue notazioni. Scriveva bene. Lo pativano, lo pativamo tutti. Un grande, mica devo scoprirlo io (che comunque gli dedico anche un ritratto che lo «ribadisce» e lo completa).

SVILUPPI FISIOLOGICI DI VOGLIE EROTICHE

Dopo gli anni Sessanta (timidamente), negli anni Settanta e Ottanta e soprattutto Novanta eccetera si è andati avanti portando i fatti della polis sulle pagine sportive, per effetto volano, e poi anche i grandi eventi internazionali. Il tutto spesso con approssimazione, con la protezione di alibi formidabili costituiti per la stampa scritta dal possente progredire del mondo esterno, accerchiante e assorbente, e dunque con una sorta di necessità nostra di lottare per sopravvivere. Provo a stilare di questi alibi un «elenchino»: l’avvento della televisione, robuccia, il giornalismo televisivo, i diritti televisivi, l’ampliamento delle offerte televisive, la retrocessione della radio comunque capace di reinventarsi con cosine intelligenti, i vagiti di internet, le grida di vitalità di internet, le grida guerriere di internet, le grida di quasi vittoria di internet quando è cominciato l’occaso della stampa scritta, dell’inchiostro, della carta, del suo giornalismo antiquo con i suoi tempi e modi… E pure i tempi, questi, della free press, dei primi veri giornali sul display, nonché dei piccoli giornali anzi dei microscopici giornali onanistici di persone da sempre assai frustrate e finalmente orgogliose di poter dire la loro, non si sa bene a chi ma dirla anzi pubblicarla. (Umberto Eco sostiene che un internettista scarso ma ambizioso e tecnologicamente furbetto ha più risalto di un premio Nobel, ed è purtroppo vero). E i tempi dei vari blog tweet facebook chat e altre madonne, del web parola che dice tutto e niente, del libro da leggere per pochi soldini sullo schermo piccino alla faccia (giustamente scocciata) di Umberto Eco eroico musealizzatore della carta.

Mi rendo conto che sto visitando, con le mie povere forze ma anche con le mie sicuramente meno deboli esperienze, territori immensi e temi spaventosamente difficili. Vorrei soltanto segnalare che, secondo me si capisce, l’avvento della pornografia nel trattare lo sport, o meglio lo show sportivo, è stato fisiologico, naturale, più che legittimo, sulla falsariga del precedente intervento epocale intitolato all’erotismo. Normale studiare l’amore, quando c’è, normale passare al porno, quando ciò significa partecipazione e intanto semplificazione. Ci sono gli attori, atleti e giornalisti, vogliosi di ben pagati primi piani. Ci sono gli spettatori, smaniosi di portare avanti giocose pratiche comunque onanistiche. Ci sono i mezzi tecnologici, per cui anche un banale coito può addirittura essere mandato in onda dal di dentro. C’è il senso permanente di orgia, di licenza piena non dico da ultimo giorno dell’umanità ma da penultimo o almeno terzultimo. O da repubblica di Weimar, per chi sa.

Credo tuttavia che considerare quanto è accaduto meriti ancora delle pagine, se non altro per mettere in ordine sensazioni ed esperienze, e intanto cominciare a costruire qualcosa che, sia pure fra un bel po’ di tempo, si possa chiamare Storia. Anche se mancano date precise, scansioni rigorose, passaggi essenziali. Dall’amore all’erotismo alla pornografia si è passati senza svoltare clamorosamente angoli o voltare solennemente pagine, senza salire o scendere cime, senza vivere e addirittura provocare situazioni epocali. C’è qualcuno che sa dire quando la televisione generalista (e dunque anche sportiva) ha cominciato a calarsi nella pornografia se non altro delle idee, delle situazioni, anche senza immagini e affermazioni esplicite? Se si fa un esempio, subito ne salta fuori un altro prima o meglio datato. Non c’è neppure un passaggio evidente, chiaro, stentoreo, a suo modo pietra miliare, come fu l’introduzione alla radio nazionale italiana del bisillabo attualmente più usato da giovani e anziani, vecchi e bambini, uomini e donne, cioè «cazzo» – sdoganato dal grande vecchio Cesare Zavattini, che lo pronunciò più volte in diretta, previo annuncio, proprio perché già diffuso.

Qualcuno può pure legare la nascita e la rapida crescita della pornografia nello sport, al di là del generale imbarbarimento planetario, alla scoperta e al dilagare di scandali, specialmente nel calcio, intanto che il doping, in fondo mica troppo lontano dalla droga, ha infierito particolarmente nel ciclismo. Io penso invece che gli scandali – se si vuole chiamare così certi curiosi accidenti – siano un effetto, non una causa della pornografia.

Per chiarire ed esplorare questo cambiamento, chiamo a un semplice esercizio: basta materialmente accostare un quotidiano sportivo anche di pochi anni fa a uno del Duemila. Si tratta di due mondi diversi, ecco. E però anche di due modi diversissimi di rappresentare quella che dovrebbe essere la stessa cosa, cioè la vicenda sportiva. Come grafica, come titolazione, come uso delle fotografie, come scelta degli argomenti anzi degli sport (ormai è quasi tutto calcio), insomma soprattutto come forma che diviene o pretende di divenire sostanza. Anche come stesura degli articoli, ma chi li legge più? Ed è sintomatico che da tempo non riesca a nascere qualcosa di veramente valido nel settore della stampa sportiva periodica, non sempre terremotata dall’attualità e dunque teoricamente migliore palestra per esperimenti e innovazioni. Niente, neanche nei supplementi dei quotidiani, di gran lunga dominati da «Sportweek» della «Gazzetta», capace ormai di proporsi vestito di una pelle in cui lo sport non c’entra per nulla o quasi, e sempre più vicino a concessioni al sesso, al nudo.

In piena dura involuzione è lo storico, troppo storico «Guerin Sportivo», che un tempo – il lontano tempo dei cantori – viveva eccome del filone satirico, e che adesso pratica il grande calcio anche internazionale. Chiusi presto alcuni suoi confratelli nati già con problemi; esauriti nella rapina una tantum ai danni dei creduloni i numeri speciali su questo o quell’evento, in pratica riassunti di quanto già pubblicato dai quotidiani; limitate dallo sport trattato – uno e solo uno, tendente a farsi bello staccandosi dal resto del mondo – le pubblicazioni molto periodiche sul basket, sul volley, sul tennis, sull’automobilismo, sul motociclismo, sull’alpinismo, sull’atletica… Niente di davvero valido è nato. Intanto che la stampa sportiva quotidiana – che aveva visto accantonato in fretta l’esperimento di «Olimpico», sette giorni su sette con la direzione di Mario Gismondi, ex «Corriere dello Sport» – ha tentato goffamente «Dieci», edito a Milano con pochi soldi e tante trappole per giovani ricchi di fede disposti a lavorare gratis o quasi, direzione di Ivan Zazzaroni che ritengo soprattutto bravo a parlare in televisione di sport e non solo (suo «gemello», ma più sportivo, Marino Bartoletti).

Come ho detto, sulle orme di Ghirelli, Gino Palumbo aveva segnato la via del nazionalpopolare, dando stabilità alla conduzione della «Gazzetta dello Sport», conduzione ad un certo punto così confusa che – ricordo – per il tempo di un amen Maurizio Mosca era diventato direttore vicario garante, senza che giustamente neanche lui sapesse bene cosa voleva dire. Candido Cannavò, il successore, ha perfezionato Palumbo, e gli altri due quotidiani sportivi (con «Stadio» risucchiato amministrativamente dentro al «Corriere dello Sport» ben prima di «Tuttosport») si sono acconciati al verbo editoriale nuovo, nazionalpopolare, pirotecnico, con mezzi però ridotti, specie «Tuttosport» che ha scelto di ancorarsi sempre più alla Juventus, bacino di utenza tanto vasto quanto sicuro, mentre il «Corriere dello Sport», pur facendo registrare numeri da primato quanto a tiratura, ha stentato a darsi una fisionomia marcata: Roma, sì, ma la Roma del calcio, intesa anche come Lazio, non è che abbia dato molto… E quanto ai suoi lettori, quasi quasi hanno funzionato per il quotidiano romano più i meridionali trapiantati al Nord che quelli rimasti al Sud, adoratori della Juventus ricca forte e vincente (oltreché del Napoli di Maradona, si capisce).

Nel frattempo, con la proliferazione di tecnologie sempre più invasive per «andare a vedere», con la sempre accresciuta aggressività tecnica ma anche ideologica delle trasmissioni (portare tutto sullo schermo e riversarlo sull’utente, che se è abbonato è anche pagante ad hoc), il lettore tipico e maggioritario, quello che leggeva il giornale per sapere «se», per informarsi, è sparito. O meglio è diventato uno spettatore/lettore che legge sapendo già tutto quello che è accaduto, e dunque legge per sapere «come». Sviluppi ulteriori e continui e fisiologici di voglie erotiche (saperne di più significa sovente volere sapere altro, non sentirsi saziati: per fortuna) hanno poi portato il fruitore dello spettacolo sportivo a sempre più interessarsi a questo «come», specie se utile, con le conoscenze che apporta, per la migliore fruizione del tutto.

L’abbondanza di sport interessante, estratto grazie alla televisione nelle miniere dove prima si calavano pochi giornalisti/minatori, ha portato i migliori giornali a curare la qualità dell’offerta, intanto che aumentavano la quantità e la diversificazione di essa. In parole poverissime, i giornali, specialmente si capisce quelli sportivi, sono stati come travolti e intanto esaltati dal tantissimo sport eruttato dal vulcano televisione.

I giornalisti, poveri diavoli di una stampa scritta invasa, violentata dal nuovo, non sempre hanno saputo bene cosa fare. La grafica dei loro giornali si è uniformata alle offerte televisive di immagini, ha voluto copiare il teleschermo, si è fatta supervariopinta se del caso, esplicita e brutale quasi sempre. Idem il lessico. L’annuncio non tanto della notizia, ma di cosa c’è dietro o dentro la notizia, già nota, ha occupato per farsi leggere sempre più spazio, con caratteri di stampa grossi e aggressivi, caratteri quasi fosforescenti a formare titoloni con le frasi della partecipazione da stadio, o addirittura del tifo spinto, e con sommari che vogliono spiegare tutto quello che c’è nell’articolo. Insomma, davvero scrivere e leggere l’articolo stesso, fra l’altro sovente limitato sulla prima pagina a poche righe con rinvio a qualche scomoda pagina interna, è diventato superfluo oltre che faticoso, nonostante la riduzione del formato dei giornali allo scopo di facile dispiegamento e consultazione. Inconsciamente il giornalista ha forse capito che più scrive meno viene letto, mentre al lettore, sommerso di richiami, di strilli, di sollecitazioni, ormai basta e avanza il sommario, cioè le poche righe che condensano l’articolo e che stanno subito sotto il titolo: e allora mica il giornalista si sforza di scrivere bene, mica si impegna culturalmente e neanche ideologicamente, tanto quella è la pappa omologante della comunicazione che avvolge tutto e tutti. E infatti non c’è (penso, credo) oggi come oggi un giornalista sportivo distinguibile chiaramente da un altro, e già dalle prime righe del pezzo, dall’incipit addirittura, come accadeva ai miei tempi (che non sono stati né migliori né peggiori, chi sono io per deciderlo?, ma che perdio sono stati diversi).

Adesso però finisco, mi finisco impiccandomi a una domanda. Possibile di ogni variazione, di ogni sommovimento rintracciare il perché o addirittura la genesi, come di regola si cerca di fare? Sì, purché si accetti anche il «perché sì»: cioè che sia solo il divenire, un divenire che è persino – spero – progresso, e amen. Io ho vissuto, goduto, patito questo divenire, non ho fatto altro, e qui riferisco. Mi sono sentito sorpreso dall’avvento rapido del pornosport estremo, che non mi è piaciuto da subito, fosse l’alpinismo a mani nude o il wrestling truffaldino dei trucidi pagliacci-acrobati o la traversata di un mare vasto dentro la metà di un guscio di noce, e mai ho perso tempo a meditarlo, a guardarlo bene, cercando casomai di trasferirlo sul giornale dopo un provvido maquillage, intanto che il tempo scorreva veloce e il wrestling si dissolveva in qualche vago lucore di teleschermo povero. Sono andato in pensione all’alba del 1991, raggiunti i contributi minimi, per smetterla di straviaggiare il mondo e per scrivere libri che non ho scritto, pur continuando a praticare il solito giornalismo attivo, tanto consueto quanto poco sindacale, se si vuole, fino ai Giochi invernali di Torino 2006. Non ho capito internet per tempo, mi consola soltanto sapere che non c’è forse niente da capire, come in un meteorite che ti schiaccia, in un vento che ti fa cadere e precipitare.

Negli anni, vagamente, ho coltivato e persino diffuso un’idea che difendo ancora: che allo sport, in evoluzione piena perché finalmente legato socialmente, politicamente, persino salutisticamente ed ecologicamente al mondo, siano mancati – troppa velocità? – quei supporti culturali che trasformano la gelatina in buon cibo solido. Dal brodo dei cambiamenti – anche nello sport accettati «perché sì» (appunto), perché insiti nel progresso del mondo, e frequentati e patiti nello svolgimento dei nostri compitini scritti quotidiani – siamo passati appunto alla gelatina e basta, proprio per carenza di supporti culturali. Lo sport come aperitivo, come stuzzichino tremolante, non come cibo. Un conto è scrivere di sport partendo dai greci e casomai anche dagli inglesi, un conto è scriverne per seguire la processione (e i processi) degli show televisivi, per stare dietro al mostro in pollici in attesa del mostro internet che chissà come è davvero bello e cattivo.

Il giorno in cui si è spenta sulla Luna una fondamentale telecamera e da allora, senza la garanzia dello show, sono cessate le esplorazioni dirette, fisiche, con i piedi insomma, dell’uomo su quel nostro piccolo satellite o su altri posti dell’Universo che non la Terra, ho pensato e anche scritto che forse la pur splendida avventura cominciata in Florida con Apollo 11 nel 1969 (lo riscrivo, io c’ero…) si era esaurita al primo cedimento della tecnologia, cioè il guasto di una telecamera.

Avventura esaurita perché? Ma anche perché l’evento non aveva goduto del supporto di fondamenta letterarie, poetiche, culturali. Molta più Luna ci aveva dato Astolfo quando nelle fantasie in versi dell’Ariosto saliva lassù con l’Ippogrifo, a cercare il senno di Orlando. Molta più Luna, e Luna per sempre, proprio perché ne ha scritto un poeta. Io almeno spero che sia proprio così: è bellissimo, fra l’altro, perché omaggia e rafforza la poesia.

COSA METTO E COSA NO

Sono sempre più consapevole, andando avanti, di galleggiare nello spazio delle supposizioni, delle illazioni, delle sensazioni e anche delle emozioni, non certo nel dominio serio delle deduzioni e delle previsioni motivate. Questo credo per due ragioni, una oggettiva e una soggettiva. La prima è che davvero per ora c’è poco da capire: il destino della stampa scritta, addirittura della carta vanificata dal display del computer, è spupazzato dai rovinologhi, ma questo non vuol dire nulla, basta un niente ormai a cambiare tutto. Una scoperta, una moda, un chissacosa. La seconda ragione è che nel divenire di un certo mondo, nella sua metamorfosi, allarmi compresi, io ci sto dentro fino al collo, e sono dunque nella situazione/posizione peggiore per vederci chiaro. Per questo mi limito, dopo tanto bla-bla-bla rituale e vaticinante, a dire, a scrivere che è stato bello. E mi piace ancorare, appiccicare questa sensazione di grande bellezza per un lungo periodo di lavoro a nomi e a fatti.

Per strano e snobistico che possa sembrare, non metto, tra i fatti miei importanti, la direzione di «Tuttosport», 1974-1979, evento estraneo alle mie voglie e alle mie doti. Ci metto il primo Giro d’Italia (1959) e il primo Tour de France (1960), la seconda Olimpiade (Roma 1960, Squaw Valley a febbraio di quell’anno era stata poco più che un curioso accidente). Casomai, da direttore ma in realtà da caporedattore, metto i mondiali di calcio del 1978 in Argentina, quando non mi ero mandato in loco nel ruolo di inviato speciale per fare meglio, o comunque al massimo delle mie possibilità, il giornale in sede. Metto il viaggio in Cina del 1966 con uno strepitoso bagno di folla semplice e di emozioni il primo maggio in piazza Tienanmen, poco prima della rivoluzione culturale, e appunto il servizio (1969, la Luna) a Cape Canaveral, dove c’erano anche Alberto Moravia e Oriana Fallaci e dove ogni sera a cena mi beccavo da Ruggero Orlando lezioni di opera lirica, per me materia avvincente come la coltivazione dei bambù nani. Metto la mia prima Vasaloppet, sci di fondo in Svezia (1968 o 1969, non è poi così importante), con un reportage che incuriosiva e apriva la via all’organizzazione in Italia della Marcialonga. Metto un viaggio, non ricordo l’anno, a Addis Abeba per incontrare il Negus dei miei padri, proprio lui, ancora in vita, e con lui Abebe Bikila, il maratoneta scalzo di Roma 1960, sfatto su una sedia a rotelle dopo un misterioso incidente d’auto. Metto, soprattutto per via di Enzo Bearzot il grande ct, Madrid 1982 del calcio azzurro mondiale, però dopo lo scudetto del mio Toro nel 1976 (e il granata Bearzot da lassù mi capisce).

Metto il mio debito costante e stimolante, fatto di diffidenza e invidia, verso tanto sereno e pacioso giornalismo romano che conobbi soprattutto, con servizi e viaggi per il nuoto che erano magnifiche zingarate, grazie a Gianni Melidoni, amico caldo e fraterno, provvido per me in occasione anche di tanti momenti di lavoro e guadagno, con le collaborazioni sotto firma fasulla al suo «Messaggero». Metto quelli che con lui sono stati miei compagni nei vagabondaggi dietro i nuotatori, a scrivere del solo sport che ho seriamente praticato, su tutti Aronne Anghileri e Alfonso Fumarola. Metto le trasfusioni di scienza prima cestistica (lui stava a Bologna, la Mecca del basket) poi calcistica da parte di Roberto Beccantini, con me a «Tuttosport» e poi mio caposervizio alla «Stampa» e adesso – lo avverto – con me nel dibattersi da pensionato dentro il pornogiornalismo. Metto quelli della fucina di matti sanamente febbricitanti che fu «Tuttosport», quelli – Gola, Cagliero, Bardi, Tortolini… – che la gente conobbe poco o niente, ma senza i quali il giornale non sarebbe uscito. Metto Beppe Conti capace da solo di fare intera redazione di ciclismo contro la «Gazzetta» tutta e metto – quasi preistoria – Renato Morino che mi inculcò il dovere/piacere di adorare l’atletica leggera, a cui poi dedicai tanti servizi suggeriti o comandati da Gianni Romeo. Metto ovviamente Giglio Panza, che nel 1953 mi accolse a «Tuttosport», di cui era allora vicedirettore, fornendomi i primi rudimenti di un mestiere divorante, e che nel 1974 mi lasciò la direzione con tanti abbracci forti e sinceri. E metto Pier Cesare Baretti, da Ghirelli e Panza e me allevato anzi allenato alla direzione, che rilevò nel 1979 esentandomi dal cedere diciamo ufficialmente all’avvento della pornografia.

Metto il giornalismo sportivo napoletano – su tutti Riccardo Cassero, formidabile chef di redazione – attivissimo intorno a Gino Palumbo, quello del «Mattino» e dei settimanali «Sport Sud» e «Sport del Mezzogiorno», che a colpi di collaborazioni mi hanno permesso di pagare tante bollette di luce gas telefono… Metto Piero Zoccola che si firmava Martin quando era primo inviato dello sport all’«Unità» – lo avevo conosciuto, io bambino, nella sua Limone Piemonte in tempo di guerra –, Martin per me importante perché, quando gli avevo detto che cominciavo a lavoricchiare a «Tuttosport», mi aveva cordialmente avvertito che si trattava di un giornale cadavere, spingendomi a dare tutto per resuscitarlo. Metto Giorgio Bocca che al massimo della sua affermazione parlava con me di quando mi portava a sciare a Limone Piemonte, lui a torso nudo sulle nevi, glielo ricordavo e si arrabbiava perché lo consacravo vecchio, però anche con due parolacce mi insegnava qualcosa. Metto Darwin Pastorin che mi chiedeva spazi su «Tuttosport» quando era un ragazzino, che era vicedirettore di quel giornale quando io ci tornai per un breve periodo di collaborazione, e intanto mai ha smesso di cucirsi addosso addirittura uno scrittore, ricordandosi del suo Brasile natio. Ho aspettato a lungo Curzio Maltese, che però il giornalismo politico ci ha rubato. Ho figliato (lo dice lui, troppa grazia, mica vero, è bravo di suo e basta) Maurizio Crosetti, da «Tuttosport» a «Repubblica», e Elisa Chiari a «Famiglia Cristiana».

Vorrei mettere ma non posso Massimo Gramellini, col quale purtroppo ho fatto per «La Stampa» una sola Olimpiade, Sydney 2000, ma col quale ho cresciuto un’amicizia forte e vera che mi permette di essere felice per quanto e come lui lavora da campione sulla carta del giornale come anche nel mondo dei libri e in quello della televisione, sempre morale, severo, divertente (e sempre tifoso granata). Vorrei ma non posso perché scrive ormai poco di sport, lui che quando cominciò si sentì dire come augurio: «Possibile che lei viva una vicenda come Ormezzano» (e invece gli è andata bene e ha fatto molto di più e di meglio).

Grazie alla grande diaspora di «Tuttosport», che dava spazio a tanti ma pagava poco tutti, mi sento, ecco, assai coinvolto da un mucchio di cose sparse, meglio ancora da una massa di persone sparpagliate in tanto giornalismo. Anche se proprio non c’entro con quello che è stato un lungo momento, speciale e alto, della stampa sportiva italiana, e cioè il passaggio di colleghi bravissimi dalla redazione dei fogli sportivi alla direzione di grandi quotidiani nazionali. A Ghirelli e Palumbo ho accennato: ricordo qui l’iter di Mario Sconcerti, arrivato al comando del «Secolo XIX» genovese, di Giancarlo Padovan (quello più vicino a me, come sodalizio di lavoro, tra i miei successori a «Tuttosport»), adesso fra i capi in Albania di una televisione emergente, e di Giorgio Fattori che propiziò il mio felice esodo alla «Stampa» (Fattori che era stato inviato di sport per la «rosea» prima di ascendere al cielo torinese).

Non posso neanche dire di avere frequentato il flusso opposto, verificatosi soprattutto in questi ultimi anni, di direttori di testate sportive arrivati dall’altro giornalismo. E con questi casting in movimento si sono ad un certo punto mescolati i casting del mondo radiotelevisivo. La stampa scritta ha rifornito la stampa elettronica, e viceversa: poteva essere una osmosi di valenza storica, capace di generare modi nuovi di fare giornalismo, ma ecco che è apparso il mostro internet, e gli spostamenti sempre più appaiono quelli di un’ultima frenetica serie di valzer ballati da una sorta di casta minacciata dalla rivoluzione, o peggio di scomposti movimenti di migranti su una zattera che sta per rovesciarsi.

ONANISMI ESPLICITI E ASSOLUTI

Per chiudere e aprire questo lungo discorso pieno – spero – di una sua logica quanto meno nella suddivisione dei periodi e nella tipicizzazione, peraltro facile, dei protagonisti, mi restano da esaminare due fenomeni davvero speciali e inquietanti: il fantacalcio e la scommessa, quest’ultima detta all’inglese bet, la giocata, o betting, lo scommettere. Entrambe le «cose» si sono tradotte, in questi ultimi anni, in forte presenza sui quotidiani sportivi, prima con rubriche apposite poi con foliazioni sempre più importanti, al punto che i redattori della «Gazzetta dello Sport» sono entrati in sciopero quando hanno ritenuto, secondo me giustamente, che la pubblicazione di una vera e propria «Gazzetta Bet» annessa al quotidiano significasse un uso improprio di una testata storica, seria, certificatissima, a fronte di un movimento di denaro che di sportivo non ha niente, e di allarmante ha quasi tutto.

Il fantacalcio è l’onanismo più esplicitato che si possa immaginare. Uno mette insieme una squadra di calcio teorica, con i giocatori importanti che si pensa siano più utili, ruolo per ruolo, e la oppone a una squadra avversaria costruita con l’identico modo da un altro, ovviamente lui pure espertissimo. I giocatori di calcio hanno una quotazione, i giocatori di fantacalcio si assegnano una specie di teoricissimo budget che impiegano nell’acquisto dei vari calciatori. Ci possono essere delle aste. Queste squadre teoriche disputano un loro campionato, organizzato da fantacalcisti privati o da marchi commerciali o dal giornale che addirittura lo indice. Prodezze e défaillance dei calciatori delle squadre teoriche sono tradotti in punti dati o tolti, e nasce la classifica. Fanno testo i resoconti e le «pagelle» dei quotidiani sportivi. Ci possono essere tasse di iscrizione e alla fine premi anche in denaro.

Lo spettacolo fornito dall’esultanza repente di quei ciuffetti di giocatori di fantacalcio raggrumati sulle gradinate di uno stadio, intenti a seguire la loro squadra del cuore e però festanti per un gol segnato da uno della loro compagine di fantacalcio, gol che magari nuoce indirettamente alla squadra che lì allo stadio stanno tifando, è deprimente, orribile, squallido.

Possibile pensare che il fenomeno muoia così come è nato? Assolutamente no, perché si basa sulla ormai marmorea convinzione italiota di essere, ognuno di noi, il migliore commissario tecnico possibile: farsi la squadra è troppo bello, troppo cattivante. Piuttosto, vien da pensare che tutto il calcio sia ormai una sorta di fantacalcio teorico totale, e che la partita reale che crediamo di vedere sia in realtà giocata da ologrammi (si può, si può).

E la scommessa? È vecchia come il mondo, quando si chiamava Totocalcio faceva le fortune economiche di tutto lo sport italiano. Poi si è diramata e diversificata e dilatata, in ogni campo anche dello sport. Nel calcio, riguarda ormai non solo l’esito finale di una partita, il celebre 1-x-2, non tanto il punteggio finale che adesso si dice score, ma il numero dei gol segnati nei 90’ più recupero, e anche il periodo del match in cui un certo gol viene segnato, e anche se segnato, il gol, su azione o su palla inattiva. Masturbazione assoluta, però costosa. E pericolosa. Uno scandalo cosmico delle scommesse, con diramazioni attualmente non immaginabili, è ipotizzato da tanti, «quorum ego» per dirlo alla Brera. Lo si pensa immanente e imminente. Anzi, io posso addirittura pensare che lo scandalo esista già, semplicemente non viene scoperto, anzi viene coperto. O diluito in scoperta di scandaletti.

C’è gente (gli happy few che posseggono, sempre più in pochi, ormai quasi tutta la ricchezza del mondo) che sta decidendo come vestiremo fra qualche mese, cosa canteremo il prossimo anno, cosa mangeremo e berremo nella prossima stagione, persino quali balli balleremo al prossimo grosso anniversario di vattelappesca. Quale problema pratico o morale ha questa stessa gente per non «aggiustare» una partita di calcio, per non stabilire a priori (basta un tot di corruzione, pochina pochina, più semplice se riguardante il portiere) come andrà a finire quel match attesissimo o anche – per lo scommettitore incallito fa lo stesso – quella partitella da niente? E sulla base del risultato prefissato, quale problema a non raccogliere con qualche organizzazione finanziaria insospettabile, lontana dai posti sacri del pallone, i flussi di denaro delle puntate? Il tutto con tutte le comodità, le magie di internet per far viaggiare e sparire quantità anche enormi di soldi senza lasciare tracce. Che dice, che dovrebbe dire la stampa sportiva, in questi ultimi tempi presa spesso in giro da rivelazioni su partite che, descritte sui giornali come vere, valide e magari anche epiche sfide, si sono rivelate poi comprate, vendute, ammaestrate? Potrebbe trovare in una crociata spunti di rinascita morale, o non invece cadere in fosse mortali? Non lo so proprio. So soltanto che un tempo proposi che nel ciclismo e non solo alla fine di un articolo esaltante un’impresa, un successo, un personaggio vittorioso apparisse la segnalazione «s.d.», salvo doping. Su «Repubblica», Gianni Mura di tanto in tanto mi fa l’onore di ricordarlo per iscritto. Forse adesso è tempo di inventare qualche trovata perlomeno grafica di riserva, di cautela, per il calcio ma anche per il tennis, dove le scommesse, facili e comode, sono una piaga ormai persino più riconosciuta che combattuta, e anche per tanto altro sport, secondo la legge non scritta per cui più denaro significa più marciume, dovunque e comunque. Amen. O requiem.

E adesso dove si va a finire? O meglio, dove vanno a finire i giornalisti giovani, ammassati in un precariato senza sbocchi persino più che senza soldi, strizzati fra carta e radio e televisione e internet, usati dalla televisione, specialmente se piccola, da Strapaese, come presentatori/animatori (/conduttori/manichini/pubblico)? Mentre coloro che puntano ancora sul giornalismo scritto classico, dentro i giornali, si vedono scavalcati dagli internettiani che con le loro piccole scoperte, il loro frugare nella rete danno vita a giornali impalpabili, ognuno col suo sito che diventa il suo giornale, ognuno cronista di sé stesso e dei propri mestrui, ognuno predicatore dal podio più basso che ci sia e con tutto sé stesso sdraiato sulla tecnologia padrona.

Dove va a finire tutto il mio splendido mondo, ammesso che di questa domanda, con la quale passo e chiudo, anzi chiudo e (tra)passo, possa fregare qualcosa a qualcuno?