1. Ruggero Radice/Raro Monsieur-le-Suiveur
Quando veniva annunciato il percorso del Giro d’Italia o del Tour de France Raro lasciava le già ridotte incombenze redazionali nei suoi due giornali e preparava la Grande Trasferta. Cambiava atteggiamento ed anche modo di vestire, perché doveva abbigliarsi per tempo da suiveur, indipendentemente da ogni situazione climatica generale o particolare. Camicia a grossi scacchi, pantaloni di velluto o fustagno, scarpe pesanti, e via la giacca e la cravatta, spazio a giubbotti e foulard, insomma sciarpe però rigorosamente in francese. Mi faceva venire in mente che Machiavelli per pensare la Storia e poi scriverne si doveva vestire, diceva lui, come i personaggi con i quali in qualche modo dialogava. Tante telefonate a prenotare alberghi e ristoranti, tante telefonate agli amici sparpagliati nelle città e paesi dei due percorsi, alle telefoniste che erano le padrone delle sale stampa, le sacerdotesse per il rito del chiedere e avere la linea. Lingua francese spesso anche per la gente del Giro d’Italia, la koinè che faceva chic. Il francese era ancora – anni Sessanta – la lingua ufficiale del mondo olimpico, del ciclismo professionistico, insomma di quasi tutto lo sport. «L’Équipe» era il vangelo. I giornalisti erano appunto suiveurs, i più bravi réputés techniciens. Raro era francofono perfetto e francese di nascita, nonché collaboratore di «France-Soir» leader dei giornali transalpini della sera. Godeva dell’amicizia straordinaria di Jacques Goddet e Félix Lévitan, i due padroni (patrons) del Tour, e per il ciclismo italiano del presidentone federale Adriano Rodoni che parlava soltanto il dialetto lombardo e cercava di usare il giornalista italiano come una sorta di nostro ambasciatore a Parigi.
Mi meritai di andare al Tour de France 1960 con Raro. Su designazione di Carlin avevo fatto il Giro del 1959, senza il mio direttore, morto pochi giorni dopo avere annunciato che mi voleva al seguito con lui. Raro mi aiutò molto, da vero amico di mio papà, stesse origini biellesi, ma mi impose di sottomettermi in pieno a lui almeno nelle ore di lavoro, di rispettare insomma la gerarchia, vietandomi anche di parlare francese con i colleghi transalpini, i flics, i tifosi della strada. Comunque era un bel lavorare, me ne accorsi subito, anche perché si vincevano tappe con Defilippis e si faceva classifica con Nencini e Battistini.
Dopo qualche giorno di tappe, cioè di lezione permanente di ciclismo, di Tour ed anche di francese da parte di Raro, mi occorse un incidente di natura fisica: indigestione in corsa. Chiesi un alt – d’altronde come sempre precedevamo di molto i corridori – per andare a liberarmi in un prato. Nelle operazioni ovviamente quasi frenetiche mi cadde a terra il macaron, cioè il cartoncino dell’accredito dove c’era la mia foto, c’erano i miei estremi anagrafici e i dettagli del mio lavoro al Tour. La credenziale, insomma, che allora si portava appesa con un laccetto alla cintura.
Ripartimmo e mi accorsi dopo qualche chilometro che il macaron era rimasto là, sul prato, accanto a quel che avevo depositato di me. Slacciandomi i pantaloni lo avevo liberato. Lo dissi a Raro che mi fulminò. Mia disattenzione, mia leggerezza, mia incuria, insomma mia grave offesa alla sacralità del Tour. Mi condannò a un paio di giorni da paria, senza il macaron per girare il mondo della corsa, arrivi e partenze e sala stampa, prima che lui chiedesse il duplicato ai suoi amicissimi dell’organizzazione. Nell’auto c’era un clima pesantissimo, l’autista guardava la strada e badava bene a non dire una parola. Cercai di fare in qualche modo allegria, sfruttando fra l’altro il mio dar del tu al collega cantore da qualche giorno, su invito suo: «Vedi, Raro, non ci crederai ma ho fatto un favore alla corsa. Magari proprio adesso il contadino va in quel campo, vede cosa ho lasciato io ma vede anche il macaron dove fornisco su di me tutte le informazioni, e loda il Tour: quelle organisation!». Non poté evitare di ridere, e la sera mi aiutò a ottenere un duplicato del macaron.
Raro era il più allegro dei cantori, felice di vivere, di seguire i suoi ciclisti, di stare per giorni nella sua amata seconda patria. Ho partecipato ad alcuni scherzi quasi feroci propiziatigli dalla sua ingenuità, che era poi l’entusiasmo dell’eterno fanciullino, gli ho sistemato in buon italiano tanti dei suoi articoli improvvisati al telefono con acrobazie anche linguistiche, ma davvero ho imparato grazie a lui tanto della Francia e pure di un certo ciclismo semplice ma sempre appassionato e spesso appassionante.
Mi ha detto Marina figlia di Fausto Coppi: «Raro in casa nostra era un’autorità». A Castellania, nell’Alessandrino, gli hanno dedicato una via che fa angolo col viale intitolato a Serse e Fausto Coppi enfants du pays. Scriveva il giusto, cioè il vero nel senso abbastanza scrupoloso di quel che vedeva, però con molta e spesso troppa indulgenza verso i ciclisti, fachiri adorati. E pazienza se era scrittura semplice, agghindata un po’ dallo stenografo – d’altra parte gli inviati si affezionavano a certi stenografi, se sapevano che facevano un buon lavoro di trascrizione. Il ciclismo gli deve molto, lui ha sempre pensato di dovere molto al ciclismo.
Ho provato a dirgli, quando ero diventato il suo caposervizio, di scrivere come parlava, visto che lo faceva in buon italiano, persino ironico, e con grammatica e sintassi ortodosse. Ma per «Tuttosport» mica scriveva: andava al telefono e raccontava, il giornale chiudeva alle 19, lui prendeva almeno una pagina, non era proprio il caso di mettersi calmo alla Olivetti.
Ogni altro cantore è riuscito a farsi dei nemici, magari perché cantava troppo bene rispetto alla plebaglia giornalistica, lo sapeva e lo faceva sapere. A Raro tutti hanno voluto bene, specie la sera, a tavola, quando spiegava cibi e vini di Francia, ça va sans dire.