Riportare sempre qualcosa da un viaggio

per Ninni

Non so se la ricordi, ma io sì, la prima volta che mi hai regalato un libro. Temevi che non ne fossi contento, e mi hai guardato: come si guarda un bambino quando si sta per deluderlo. Invece è andata che l’ho scartato – avevo capito che cosa fosse – con un entusiasmo che deve averti stupita.

È bastato poco per riconoscersi fra lettori: mi rigiravo fra le mani quel volume di grande formato, con i disegni che occupavano le pagine per intero. Raccontava gli dèi dell’Olimpo, «in pantofole»: Zeus come un padre dispotico, sovrappeso, cialtrone, Apollo come un rubacuori seriale, Ermes come un nipote magro, sbadato, sempre di fretta. Non so dove sia finito il libro – però mi è rimasto quel pomeriggio, nel piccolo soggiorno di casa tua, poca luce, tua madre minuscola, malata, l’avevo intravista su un grande letto pieno di cuscini. Era un pomeriggio di autunno, e non c’era nessun motivo per farmi un regalo. Da paziente di mio padre medico, costretto ogni tanto a trascinarci nelle sue visite a domicilio, tu ti eri affezionata al ragazzino occhialuto e a sua sorella. Mi chiedevi: ti piace leggere? Rispondevo sì, ed ero convinto. Da allora, il patto non scritto, stabilito da te, era regalarmi un libro quasi a ogni incontro, tenerlo pronto per l’occasione, oppure farmelo recapitare.

Come li avessi chiusi un minuto fa, come fosse rimasta impressa sui polpastrelli la loro forma, saprei dire tutto dei primi volumi ricevuti da te.

La grande copertina in pelle azzurra di un’edizione per ragazzi del Giro del mondo in ottanta giorni – Phileas Fogg disegnato con un tratto che mi ricordava il libro di catechismo. E Passepartout, buffissimo, che dei luoghi, e di tutto, capiva molto più del suo distratto datore di lavoro. E quella domanda, che arrivava alla fine del libro – «Che cosa aveva riportato da questo viaggio?» – mi piaceva, mi sembrava quella fondamentale.

La Storia di Roma scritta da Montanelli, un cofanetto elegante, la costina che lo faceva somigliare a un volume antico, di pregio.

La collezione di classici della letteratura italiana: me li prendevi in edicola, uno a settimana, c’era Ariosto e c’era Pascoli, c’era Fogazzaro e c’era Verga, di cui mi incantò una novella intitolata La roba, con un tramonto largo sopra i campi e un uomo che non vuole morire e ammazza le oche gridando.

Ho perso il conto, hai esagerato. A Natale, o per il mio compleanno, a giugno, sapevo che sarebbe arrivato un pacco più grande. Furono, per esempio, i quattro volumi della Ricerca del tempo perduto di Proust: compivo diciassette anni, c’erano un milione di cose diverse da fare dentro quell’età, e tuttavia immolai l’estate alla «parte di Swann». Mi sembrò di avere sempre aspettato quel libro, e di possedere lo stesso cuore malinconico e ripetitivo del Narratore – come un organetto di Barberia scassato.

Era bello parlare, parlarne. Con un pudore quasi inscalfibile, da nipote a vicenonna, un tono diverso da quello che usavo fra coetanei: ovvio, sì, ma valeva anche parlando di libri. Se sulle scale bianche del rettorato, all’università, qualche anno più tardi, mi sarei infiammato per pagine che a te sarebbero sembrate cervellotiche e aride – così avresti detto, e un po’ avevi ragione; se in un bar del quartiere San Lorenzo, o seduto sul letto di una studentessa fuori sede, o di un’altra i cui genitori non c’erano mai, a piazza Vescovio, se con loro facevo l’artista-da-giovane, inebriato dalle mie stesse complicazioni, con te tornavo a essere – ero ancora – il ragazzino composto che faceva bene i temi a scuola. Ritornavamo – a bordo della tua Panda, quando mi scarrozzavi verso una conferenza, la presentazione di un libro – i cultori di una letteratura casta e senza troppe ombre, pulita come quella che finisce nelle antologie scolastiche.

Quando mi avventuravo per strade diverse, era un azzardo quasi segreto. Ero esaltato, matita in mano, per pagine in cui lo stile si mostrava come un’invenzione continua, un tradimento, un esercizio a vuoto. Ero eccitato, mentre leggevo, come fossero manuali di anatomia o di educazione sessuale, romanzi di Moravia, di Philip Roth, o di Henry Miller. Nell’adolescenza, d’altra parte, bastava così poco! Oggi mi domando come sia stato possibile provare desiderio perfino per una come Lady Rowena – lei personaggio romanzesco del XII secolo, io in pieno sviluppo ormonale ottocento anni dopo – mentre leggevo Ivanhoe di Walter Scott, saltando parecchie pagine sotto il sole di luglio.

Tornavo da te come uno che deve nascondere l’odore di fumo ai propri genitori.

Quasi avessi frequentato cattive compagnie, ti nascondevo le tracce del mondo che ero riuscito a vedere. Persone lontane, diverse da me, da noi, cominciavano a raccontarmi storie insolite, inaudite, a svelarmi segreti, e rispondevano a domande che non avrei mai rivolto a te, ai miei, forse a nessuno. Mi fornivano notizie che avevano il potere di turbarmi, di farmi male e bene a un tempo, di suscitare la mia curiosità e la mia malizia. Insomma, casa mia era sempre quella, e sempre quelle le cose che si potevano dire e quelle che no. Ma poi la sera uscivo, e rientrando a notte fonda avevo addosso, al posto della scia di fumo, una serie di emozioni nuove e inattese.

Che c’entravano con me, con noi, chiacchiere di vecchi erotomani, memorie di viaggi così lontani da via Mameli 87 da sembrare impossibili, storie in cui pareva che la verità della vita fosse fatta solo di dolore, di ingiustizia, di crudeltà, di desiderio cieco, di fallimento? Ma chi stavo frequentando? Vite che non erano la mia, per tirare in ballo il titolo famoso di un libro di Emmanuel Carrère. Vite che diventavano mie.

I pregiudizi ricevevano colpi quasi mortali. Lo spazio davanti agli occhi si allargava incredibilmente, caricandosi di possibilità. Questo, è stato leggere. Questo è. Fare entrare nella propria vita molte più persone di quelle che davvero riusciamo a incontrare per strada. Intrattenersi con bambini, adolescenti, adulti, vecchi, animali, con il mistero di ciascun vivente. E con il mistero delle cose, anche. Lasciarsi toccare da ogni esperienza, lasciarla depositare in noi. Avere quasi sempre le vertigini, per come si spalanca – leggendo – non solo lo spazio, ma il tempo.

Tu, davanti a un discorso simile, avresti detto che mancava la cosa più importante. Non so nemmeno bene come tradurla: c’entra con l’idea che leggere educhi, nobiliti, o meglio, che debba educare, nobilitare, formare l’individuo, il suo «animo».

Eterna ragazza nata all’inizio degli anni Trenta, credente, mai sposata, rifiutavi volgarità, passaggi troppo espliciti, tentazioni nichiliste. E io? Mai avuta una vocazione da maledetto, devo esserti sembrato impeccabile fino ai temi di scuola media, eccellente fino all’esame di maturità. Già la tesi di laurea triennale – sull’immagine del corpo nella narrativa contemporanea – ti aveva lasciato qualche dubbio: scritta benissimo, mi avevi detto, ma davvero ti piacciono scrittori come quelli? La domanda non era formale, te lo chiedevi sul serio, un po’ sconcertata. Ma no, ti ho rassicurato.

E invece, per esempio, la lettura delle Particelle elementari di Michel Houellebecq mi aveva entusiasmato e stordito, ricordo di avere letto l’ultima frase e di essermi alzato dalla sdraio incredulo, barcollando come ubriaco. «Questo libro è dedicato all’uomo», aveva scritto Houellebecq. Ma che cosa avresti pensato di quel deserto esistenziale, di quella rinuncia alla speranza?

Me la cavavo – se mi chiedevi cosa stessi leggendo – rispondendo «un libro che non ti piacerebbe». «Allora non lo leggo» dicevi sempre, e ci veniva da ridere. La tua vista si era fatta più debole, eri costretta a scegliere bene, dicevi, e aggiungevi che piuttosto avresti voluto il tempo per rileggere. Rileggere i libri letti da ragazza. Rileggere i «classici», ma anche certi romanzi più leggeri di una tua stagione romantica. Non capivo – io bulimico, ossessivamente curioso del nuovo e di tutto. Ci stavamo allontanando? No. Però un po’ mi dispiaceva quando dicevi che era sempre più difficile regalarmi libri, che ne avevo troppi, che li avevo letti tutti, che non capivi più i miei gusti. Allora mi invitavi a darti io il titolo di un libro da regalarmi, così che fosse impossibile sbagliare. E io facevo in modo di non deluderti.

A metà settembre del 2008, avevi letto sul giornale del suicidio dello scrittore americano David Foster Wallace. Non l’avevi mai sentito nominare, mi hai chiesto: li hai tutti i suoi libri? Ti ho risposto che avrei voluto leggere una raccolta di racconti intitolata Oblio. Non hai aspettato un minuto, sei andata a cercarlo subito, prima nella «tua» libreria, niente, poi in altre. C’era stato un piccolo assalto. Non ti sei data pace finché non l’hai trovato. Allora sei passata da me, hai suonato il citofono, hai detto che non potevi lasciarlo nella buca delle lettere – come a volte facevi per non disturbare – perché era troppo voluminoso. Poi mi hai chiesto di promettere che, se avessi trovato un racconto bello, ma pure solo una frase, una frase che fosse bella anche per te, te l’avrei letta, o ti avrei prestato il libro. Quei racconti mi avevano ipnotizzato, rattristato, fatto pensare, costretto a pensare con la pretesa quasi tirannica di ogni pagina di Wallace. E una frase bella, una frase che ti potesse piacere, non c’entrava con i personaggi, insegnanti psicotici o bambini ustionati, e nemmeno con uno che matura l’idea di suicidarsi.

C’entrava con le parole: «Le parole e il tempo cronologico creano tutti questi equivoci assoluti su quello che succede per davvero a livello elementare. Eppure al tempo stesso la lingua è tutto ciò che abbiamo per cercare di capirlo e per cercare di instaurare qualcosa di più vasto o più significativo e vero con gli altri, il che è un altro paradosso».

Mi sono dimenticato di mostrarti questa frase, mi è passato di mente. Peccato, perché credo che ti sarebbe piaciuta. Conoscendoti, avresti detto che forse si poteva dire in modo anche più semplice, ma ci saremmo trovati d’accordo sul senso. Non era stata la passione per le parole a cementare questa strana amicizia?

Di entrambi, nati a distanza di mezzo secolo l’una dall’altro, si potrebbe scrivere una seconda biografia. Della prima, per quanto riguarda te, so poco, ti ho fatto poche domande; della seconda – una biografia di lettrice – qualcosa in più: i libri che hai evocato, ricordato, che mi hai prestato, o fotocopiato; i libri che, fin quando saranno anche di carta, ingombrano le stanze e le case di chi li accumula e li conserva, componendo uno strano museo personale – la storia del nostro avere pensato, sentito, capito.

Sarebbe divertente quantificare le ore spese dietro e dentro ai libri, anche per capire come se la battono con quelle impiegate a fare tutto il resto.

Dei ventisette anni passati dal giorno in cui sono diventato lettore, da quando ho appreso questa innaturale facoltà che pesci, cani e giraffe non conoscono, che è solo di noi umani, posso dire che raramente mi è accaduto di non avere un libro sottomano. In macchina, seduto sul sedile posteriore, nelle attese dall’oculista, finché non mi mettevano le gocce e il mondo veniva cancellato dalla nebbia, o dal dentista; nella borsa della palestra del basket o del nuoto, per quel poco che ho avuto di costanza nello sport; nella borsa del mare, e nei viaggi, in tutti, uno per uno, sempre c’era con me più di un libro.

Così, se non so svelare il mistero da cui questa confidenza con carta e inchiostro origina, so che ha determinato una mole impressionante di emozioni, scoperte, incontri. Anche relazioni, anche scelte. Al punto da non riuscire a immaginare come sarei, chi sarei, se nella mia vita non ci fossero stati e non ci fossero i libri. Temo che sarei proprio un altro: né peggiore, né migliore, un altro e basta. Un altro che non sono io. E tu – sono sicuro – non saresti stata tu.

Quando Henry Miller sostiene che gli incontri con i libri siano da considerare alla stessa stregua degli incontri con altri fenomeni della vita e del pensiero, non li sta sottovalutando. Al contrario: tutti gli incontri sono connessi tra loro, dice, «non sono isolati. In questo senso, e in questo senso soltanto, i libri sono parte della vita quanto gli alberi, le stelle o il letame». Sono parte della vita. Miller, arrivato a quasi sessant’anni, si guarda intorno e decide di fare un mucchietto dei libri che per lui sono stati davvero essenziali. Non sono tanti. E d’altra parte, non si tratta di un canone estetico, intellettuale, ma di un canone affettivo.

Ho provato a comporre il mio, ed è provvisorio: ventisette libri, ventisette come gli anni, a oggi, della mia vita da lettore. Dai sette ai trentaquattro che ho compiuto. Certo, i titoli potrebbero essere il doppio, il triplo, forse il quadruplo. Ma ho scelto, ho dovuto scegliere. Non è stato facile: il solito gioco della torre. Delitto e castigo o L’idiota? Il primo. Anna Karenina o Guerra e pace? Nessuno dei due. La morte di Ivan Il’ič. Mi sono fidato dell’intensità dell’emozione: i picchi in alto di un lungo elettrocardiogramma letterario. Mi sono accorto che da ciascuna di queste storie ho imparato qualcosa, ma non sempre nel senso che intendevi tu.

Talvolta, anzi molto spesso, i romanzi mi offrivano «istruzioni per l’uso» sbagliate, a rovescio, impraticabili. Vuoi innamorarti meglio della persona sbagliata? Leggi Le notti bianche di Dostoevskij. O Le avventure della ragazza cattiva di Mario Vargas Llosa. E se vuoi «cancellare» i lunedì dalle tue settimane, leggi Le avventure di Tom Sawyer, che sogna un calendario fatto tutto di domeniche. Vuoi imparare a non crescere troppo? Leggi Peter Pan! Peccato che poi si cresca lo stesso, e che i lunedì arrivino sempre e comunque. Però in un romanzo, nei romanzi, resta sempre aperto il campo della possibilità. È possibile cancellare i lunedì. Immaginare, sempre. Sentir battere il cuore e inventarsi il sesso. Cercare un posto sicuro, e non invecchiare male. Trovare l’ultima parola.

Se un romanzo funziona, funziona come un viaggio. Un viaggio ci rende migliori o peggiori? Nessuna delle due cose. Diversi, di sicuro, da quando eravamo partiti. Se è davvero un viaggio, è possibile rispondere alla domanda del Giro del mondo in ottanta giorni: «Che cosa aveva riportato?».

A volte, da un libro, riporti con te anche solo una frase. Un’intuizione. Una cosa che ignoravi. Un’altra che ignoravi di ignorare. A volte anche solo una visione, il gesto di qualcuno che si aggiusta un cappello, o sta seduto e aspetta. Altre volte una storia che somiglia alla tua. Una storia che avresti voluto somigliasse alla tua. Una storia che ha ancora il tempo di somigliare alla tua. A volte un sentimento che non riuscivi a tradurre in parole. Altre volte solo una stretta al cuore, un fastidio, un po’ di noia, uno sbadiglio. Ma tutto va bene, purché non ritorni a mani vuote.

Da ciascuno dei ventisette romanzi che qui ho messo in fila, da tutti quelli evocati – un centinaio in totale –, ho riportato qualcosa che non ho ancora perso. Alcuni li hai amati e letti anche tu, altri non li conoscevi, altri ancora sono fra quelli che non ti piacerebbero. Ma mi pare, in ogni caso, che avrei dovuto scrivere questo libro prima, in tempo perché tu lo leggessi, in tempo per portartelo in regalo in ospedale, l’ultima volta che ti ho vista.

Era un pomeriggio di fine dicembre – sereno e quasi tiepido, mi aveva fatto in venire in mente, guarda caso, l’inizio del Piacere di d’Annunzio, con l’anno che muore «assai dolcemente». Non volevo arrivare a mani vuote, ti ho portato una copia di un libro pubblicato da questo stesso editore; dentro c’è un mio testo che discute ironicamente la convinzione che leggere ci renda migliori. Dicevo tra l’altro che «il piacere della lettura», in senso astratto, forse non esiste. Esistono però il piacere, il divertimento, la commozione, la tristezza, il fastidio, l’indignazione, la sorpresa, suscitati di volta in volta dai singoli libri. Mi hai scritto un sms, uno degli ultimi: tu che contesti il piacere della lettura, non sembri tu. Era una provocazione, ti ho risposto.

Se ho scritto questo libro, è stato anche per aggiungere tutto il resto, tutto quello che mancava in quella risposta frettolosa. E confermarti che questo strano gesto, questo gesto inoffensivo e secolare di mettersi a leggere qualcosa come un romanzo

1. non rende più intelligenti

2. può fare male

3. non allunga la vita

4. non c’entra con l’essere colti, non direttamente

e però anche che

1. aiuta a non smettere mai di farsi domande

2. alimenta l’inquietudine che ci tiene vivi

3. permette di non vivere solo il proprio tempo e la propria storia

4. offre quindi la possibilità di non essere solo sé stessi

5. rende più intenso il vissuto, e forse più misterioso il vivibile

6.

[ti lascia sempre molte caselle vuote da riempire]

Certo, è difficile immaginare che tu possa leggere queste pagine. Però c’è una cosa che mi consola: ed è proprio il fatto di averti portato un libro, quel giorno. Forse non era quello giusto, ma sei stata contenta: mi portano solo libri pesanti, hai detto. Ti riferivi alla mole. Mi cadono dalle mani, per fortuna me ne hai portato uno più piccolo e leggero. Ti ho salutata come ci si saluta sicuri di rivedersi. E lì per lì non ci ho fatto caso. Ci sto pensando adesso: è stato il primo e l’ultimo gesto che abbiamo fatto insieme – scartare un libro regalato.

Questo, comunque, è dedicato a te.

Settembre 2017