«La consapevolezza di ciò che è così reale
e essenziale, così nascosto in bella vista
sotto gli occhi di tutti».
È quel tipo di scrittore che ogni tanto ti richiama. Sembra sempre che sia rimasto, con lui, ancora qualcosa in sospeso, un conto aperto. Torni alle sue pagine, niente è davvero semplice, ma senti – come avviene con i classici – che devi rileggere, devi riprendere il dialogo, capire ancora, capire meglio. È uno scrittore esigente: si aspetta molto da te; tu puoi aspettarti moltissimo da lui. Leggere i suoi libri, anche solo una delle sue pagine a metà fra narrazione e saggio sulla narrazione, somiglia a un incontro fra persone reali, tu e lui, complessi e sconosciuti l’uno all’altro. Più in generale, per lui, leggere dovrebbe sempre somigliare a questo: «Quando ho davanti una persona reale, primo: devo impegnarmi un po’. Cioè, se un altro presta attenzione a me, io devo prestare attenzione a lui. Io guardo lui, lui guarda me. Il livello di stress sale. Ma c’è anche... c’è anche qualcosa che mi arricchisce». Ecco il punto, questa ricchezza immensa di pensiero.
Tutte le multiformi idee e sfaccettature di David Foster Wallace-essere umano sono nei suoi libri inclassificabili, anomali, spesso impervi. Ma per chi non fosse tra i lettori-fan che l’hanno seguito nel corso degli anni (esordì venticinquenne nel 1987 con La scopa del sistema e nel 1996 sconvolse il mondo letterario con il mastodontico Infinite Jest), è davvero così semplice accostarsi alla sua opera, aprire la porta? Non lo è. Accordarsi alla gestione imprevedibile (perciò sorprendente, quando non spiazzante) del suo sapere, al movimento della sua intelligenza e del suo stile, che conosce un infinito numero di variazioni, richiede pazienza, energia, disponibilità. Wallace chiede al lettore di imbarcarsi in un tour de force, non privo di disagi, di scossoni, di momenti anche parecchio faticosi.
C’è molta confusione, molto mistero, molta «stranezza», nelle storie di Wallace, ma c’è soprattutto quella che Zadie Smith ha chiamato la sua «intelligenza generosa». Impressiona, spaventa, lascia ammirati: quando la si vede alle prese – pagina dopo pagina, libro dopo libro – con una moltitudine di oggetti, cose immateriali come odori («l’odore di limone» dei bagni pubblici, Infinite Jest), colori e tonalità del mare («a largo delle isole Cayman è blu elettrico e a largo di Cozumel è quasi viola», Una cosa divertente che non farò mai più), quando la vedi alle prese con la comicità di Kafka o con un romanzo di John Updike, condensato in una serie improbabile di dati statistici, o con il dolore animale (è giusto bollire un’aragosta viva «per il piacere delle nostre papille gustative»?, Considera l’aragosta).
«C’entra solo la consapevolezza pura e semplice», come scrive nel testo che chiude la raccolta postuma Questa è l’acqua: «la consapevolezza di ciò che è così reale e essenziale, così nascosto in bella vista sotto gli occhi di tutti». Così nascosto in bella vista sotto gli occhi di tutti: ecco cosa va cercando uno scrittore vero. Ma non basta.
Bisogna essere convinti, come lo era Wallace, che la scrittura, la letteratura possano farci sentire più umani, eliminare quel senso di solitudine che ci assedia, metterci in comunicazione con altre coscienze in cui specchiare la nostra. In un’intervista (le sue interviste sono sempre stupefacenti): «Nei tempi bui, quello che definisce una buona opera d’arte mi sembra che sia la capacità di individuare e fare la respirazione bocca a bocca a quegli elementi di umanità e di magia che ancora sopravvivono ed emettono luce nonostante l’oscurità dei tempi. La buona letteratura può avere una visione del mondo cupa quanto vogliamo, ma troverà sempre un modo sia per raffigurare il mondo sia per mettere in luce le possibilità di abitarlo in maniera viva e umana». Bisogna essere pronti a morire, diceva, pur di arrivare a questo, pur di arrivare a toccare il cuore del lettore. Pur di arrivare a capire «cosa voglia dire essere un cazzo di essere umano».
Uno dei primi contatti con la sua prosa l’ho avuto sfogliando in libreria un romanzo intitolato Verso Occidente l’Impero dirige il suo corso. Proprio la stranezza del titolo mi aveva incuriosito. Posso dire la verità? Non ho capito bene nemmeno la trama, mi sono perso. Grazie agli apparati, ho ricostruito i tratti essenziali dei personaggi, gente coinvolta in un improbabile viaggio verso l’Illinois, un raduno di ex attori di spot McDonald’s. A quel punto, mi sono abbandonato. Bastava, per non scoraggiarsi, trovare una frase come questa: «D.L. era estremamente magra, magra in un modo che sembrava indicare non delicatezza, ma una sorta di avara ritrosia a estendersi nello spazio circostante». Bastava cogliere anche solo per lampi la capacità fuori dal comune di questo ventisettenne – l’età di Wallace nel 1989 – di illuminare l’umano.
L’America dei tardi anni Ottanta, il circo dei consumi, la frustrazione e i desideri alimentati dalla subdola industria dei desideri, sì, certo, d’accordo, c’è questo, ma soprattutto: la vita delle persone. La vita interiore delle persone. Quello che hanno, che abbiamo dentro. «Le nostre piccole illusioni solipsistiche». Lascio parlare lui: «Tutti noi abbiamo piccole illusioni solipsistiche, spaventose intuizioni di una nostra assoluta singolarità: crediamo di essere gli unici della casa a riempire il contenitore dei cubetti di ghiaccio, gli unici a svuotare la lavastoviglie dai piatti puliti, gli unici a fare ogni tanto pipì nella doccia, gli unici ad avere un piccolo tic alle palpebre al primo appuntamento; di essere gli unici a prendere la nonchalance tremendamente sul serio; di essere solo noi a sentire il gemito patetico nello sbadiglio di un cane, il sospiro senza tempo nell’apertura di un barattolo ermeticamente sigillato, la risata sputacchiata qua e là in un uovo che frigge, il lamento in re minore nel rombo di un aspirapolvere; di essere solo noi a provare quando il sole tramonta lo stesso tipo di panico che un bimbo al primo giorno di scuola prova quando la mamma si allontana. Di essere solo noi ad amare i solo-noi. Di essere solo noi ad aver bisogno dei solo-noi. Il solipsismo ci tiene insieme, e J.D. lo sa. Sa che ci sentiamo soli in mezzo a una folla; senza fermarci a pensare a che cosa ha dato vita a quella folla. Sa che siamo, sempre, volti in mezzo a una folla».
Questo è Wallace. Bisogna dare per scontato che nei suoi libri ci si perde. Bisogna dare per scontato che perdersi è un gran vantaggio. Non conta troppo da quale porta si entra, una vale l’altra. I racconti, i saggi, romanzi elettrici come Verso l’Occidente o come La scopa del sistema. Romanzi sterminati come Infinite Jest. Momenti diversi di una stessa ininterrotta sfida al mistero di essere umani.
Questo mistero è in ogni riga di ogni sua pagina e – per quanto sia stupido e quasi indecente dirlo – anche nel gesto con cui Wallace, nel 2008, ha interrotto la sua vita, neanche cinquantenne. «La realtà è che morire non è brutto, ma dura per sempre. E per sempre non rientra nel tempo». Qualcosa, proprio a partire da qui – dal «per sempre» che riguarda la morte di David Foster Wallace-essere umano –, complica tutto. E si tratta di una strana complicazione. Ci si può sforzare, ci si dovrebbe sforzare di rileggere, di ripensare la sua opera senza ciò che l’ha conclusa – la morte sì, però quella morte –, e tuttavia risulta impossibile. Perché accade questo? Perché, avendo davanti i suoi libri (migliaia di pagine, milioni di parole, stretti dentro quarantasei anni), non si può fare a meno di pensare a quel gesto?
«Il suicidio è così contrario a tanti nostri istinti e impulsi programmati che nessuno sano di mente va fino in fondo senza passare attraverso una marea di oscillazioni interne, con fasi in cui per poco non cambia idea ecc.», scrive Wallace nel racconto (Caro vecchio neon) in cui un personaggio di nome David Wallace parla dopo il proprio suicidio. C’è in quelle pagine una lunga enumerazione di «ultime volte». «Questa è l’ultima volta che mi allaccio le scarpe», «questo è l’ultimo bicchiere di latte che berrò», e il sole che sorge, o certi paesaggi, le stagioni che passeranno ancora: tutto nello sguardo di chi si rende conto «che tutto ciò che vede gli sopravviverà».
Sembra impossibile rileggere Wallace senza avvertire con violenza questa «ultimità». È una prospettiva ingannevole? Può darsi che lo sia. Ma questo mirabile, immane, estenuante esercizio di attenzione alle cose, che sono i suoi libri, quest’esercizio che lo spinge ad annotare (letteralmente, caricare di note le sue pagine), a precisare, a non essere mai sicuro di avere detto abbastanza (è ossessionato dall’insufficienza del linguaggio), sembra essere sempre compiuto da dopo, o quasi. Con quella «velocità mentale» che – sostiene – si ha solo in punto di morte: «cioè durante quel nanosecondo così minuscolo e sul punto di sparire che separa il momento in cui si muore tecnicamente da ciò che avviene subito dopo». Da lì, si potrebbe dire se non fosse assurdo dirlo, ha scritto Wallace. Sul punto di sparire.
«Pensaci un attimo: e se tutti i mondi infinitamente densi e mutevoli dentro di te ogni istante della tua vita a questo punto si rivelassero in qualche modo completamente aperti ed esprimibili dopo, dopo la morte di quello che ritieni essere te, e se dopo questo momento ciascun istante fosse in sé un mare o uno spazio o un tratto di tempo infinito in cui esprimerlo o comunicarlo, senza neanche il bisogno di una lingua organizzata, e ti bastasse come si suol dire aprire la porta e trovarti nella stanza di chiunque altro in tutte le tue multiformi forme e idee e sfaccettature».
Pensaci un attimo.
Umanità. Amo ricordare lo stordimento provato chiudendo Le particelle elementari di Michel Houellebecq. Un senso come di ebbrezza triste. La voce narrante si congeda dall’umanità. E guarda gli uomini come da lontano, una specie superata: «Abbiamo saputo sconfiggere il per loro insormontabile potere dell’egoismo, della crudeltà e della collera; comunque sia viviamo una vita differente. La scienza e l’arte esistono ancora nella nostra società; ma la ricerca del Vero e del Bello, meno stimolata dallo sprone della vanità individuale, ha nei fatti acquisito un carattere meno assillante. Agli umani dell’antica razza, il nostro mondo fa l’effetto di un paradiso. Talvolta ci capita di qualificarci noi stessi – con un tono, a dire il vero, leggermente ironico – con quel nome di ‘dei’ che tanto li aveva fatti sognare. La storia esiste; essa si impone, essa domina, il suo imperio è inesorabile. Ma al di là del mero piano storico, l’ambizione ultima di quest’opera sta nel rendere omaggio a questa specie sventurata e coraggiosa che ci ha creati. Questa specie dolorosa e vile, di poco diversa dalla scimmia, e che pure recava in sé aspirazioni assai nobili. Questa specie tormentata, contraddittoria, individualista e rissosa, di un egoismo sconfinato, talvolta capace di inaudite esplosioni di violenza, ma che tuttavia non cessò mai di credere nella bontà e nell’amore. Questa specie che altresì, per la prima volta nella storia del mondo, seppe considerare la possibilità del proprio superamento; e che, qualche anno dopo, seppe mettere in pratica tale superamento. Nel momento in cui i suoi ultimi rappresentanti sono sul punto di estinguersi, riteniamo dunque legittimo rendere all’umanità quest’ultimo omaggio; omaggio che, anch’esso, finirà cancellato e perso nelle sabbie del tempo; è tuttavia necessario che tale omaggio, una volta almeno, venga reso. Questo libro è dedicato all’uomo».
Speranza. Amo la risposta che mi ha dato una volta lo scrittore ungherese László Krasznahorkai, autore del maestoso Satantango, quando gli ho chiesto cosa si aspetta dai suoi lettori. «La rivoluzione», ha risposto. «La ribellione. Una capacità di essere inquieti. La magnanimità dell’irresponsabilità. Il buon gusto. Un bagaglio culturale che non mira a conquistare il potere. Ma tutto questo non è davvero ciò che mi auguro di ricevere dai miei lettori: questo è quello che auguro loro di ricevere. E lo dico con un sentimento di grande tranquillità nell’animo, perché so di non averli mai privati di nulla, soprattutto di non aver mai tolto loro una cosa – se ne avevano, o se ne hanno ancora –: la speranza. La speranza che esista una realtà narrabile, e che vivere in essa non sia vano». In Satantango fa ballare ai suoi personaggi il tango satanico della Storia. Il comunismo è crollato; nella fangosa provincia ungherese i vivi sembrano morti, e i morti tornano vivi. E Irimias torna appunto come dal regno delle ombre, ma porta speranze – forse sbagliate, rischiose – a una piccola folla di disperati. C’è sempre, magari appena visibile, da qualche parte, una possibilità di riscatto.