«Non raccontate mai niente a nessuno.
Se lo fate, poi comincia a mancarvi chiunque».
Guarda caso, gli sta antipatico David Copperfield. Alla quarta riga liquida, quasi con disprezzo, il personaggio inventato da Dickens. Va per le spicce, racconta con l’aria di chi lo fa controvoglia e di fretta. Un adolescente, appunto. Ha mollato la scuola o, per essere più precisi, è stato espulso. Questo è tutto. Fine della storia. Ma bastano le prime cinque pagine per inciampare in frasi come: «La verità è che lassù c’ero andato per vedere se riuscivo a provare un senso di addio». Oppure, come questa: «Era uno di quei pomeriggi assurdi, un freddo terrificante, senza sole né niente, e la sensazione di scomparire ce l’avevi ogni volta che attraversavi la strada». Perciò viene subito da pensare che Holden Caulfield non sia uno qualunque. Ruvido e sensibilissimo come la gran parte di chi ha sedici anni, sì, ma con qualcosa in più. Le parole che usa. Il modo in cui le usa. È facile arrivare alla conclusione che siamo davanti a uno scrittore travestito da ragazzo di sedici anni. Ma forse è più esatto dire che siamo davanti a uno scrittore che non ha mai smesso di avere sedici anni.
I professori più o meno sopportabili, i genitori «simpatici, per carità, ma permalosi», i compagni di classe, le ragazze. Il romanzo è del 1951; gli ingredienti quelli di un qualunque racconto sugli anni di scuola. Ma se il risultato è questo – un romanzo-mito, ingombrante e proverbiale come tutti i miti (l’assassino di John Lennon ne aveva una copia nella borsa il giorno in cui sparò al cantante) – la mano del cuoco deve fare per forza la differenza. E in effetti la fa. Perché il cuoco è un cuoco misterioso e anticonformista, tratta male la ricetta, non gli importa se la panna si smonta, se la maionese impazzisce. Non mette in ordine, mette in disordine. Non compone, scompone. Lascia al personaggio tutto lo spazio, lascia che prenda la parola da maleducato, da strafottente. Dev’essere il contrario degli adolescenti educatissimi e tormentati del secolo prima: non dev’essere, insomma, la voce di Keats o del Werther di Goethe. Il turbamento può essere simile, forse è lo stesso, e così la paura, la fame d’amore, la solitudine. L’adolescenza, in fondo, è fuori dai calendari.
Holden è romantico? Sì, ma controvoglia. La famosa domanda su dove vanno le anatre di Central Park quando il laghetto ghiaccia non gli verrebbe in mente, se non lo fosse. Un romanticissimo antiromantico, uno che odia gli ipocriti – forse il tratto dominante è proprio questo –, odia gli adulti che lo chiamano «ragazzo mio», odia più in generale chi ti fa la lezione e non può permetterselo. Porta il berretto con la visiera girata all’indietro, non fa quasi niente che non sia nello stereotipo con tutte le scarpe, le «cafonate», i conflitti con gli amici-nemici brufolosi, la corte fatta a ragazze carine che fumano senza divorare il fumo, l’essere lì lì per baciarsi, e tutto il resto. Mettersi una mano davanti alla bocca e mandare su il fiato verso le narici, per capire se puzza di fumo o di alcol. Aspettare l’occasione giusta per perdere la verginità, poi trovarla e non sapere che farsene. C’è qualcuno che non sappia di cosa sto parlando?
Tra l’altro, il punto non è nemmeno identificarsi in Holden: se penso ai miei sedici anni, mi rendo conto di non essere mai stato un «giovane Holden», se per «giovane Holden» si intende appunto uno un po’ ribelle, uno che si fa buttare fuori dalla scuola e si fa spaccare il naso con una palla di neve e nasconde il whisky. Sarei stato in un banco opposto al suo, lui mi avrebbe guardato con sospetto o con fastidio. Ma la libertà che Salinger lascia a chi legge il romanzo è anche quella di non essere Holden, e di essere il padre, il nonno, volendo, o un nemico, o quella ragazza con un gran naso e «le unghie tutte mangiucchiate che sembravano sempre sanguinare» e «quegli stupidi reggiseni imbottiti che puntano dritti come fucili». Lascia la libertà di essere tutto: anche qualcosa di inconsistente, di aereo come un clima – il clima, appunto, dell’adolescenza. E quando mi pare di non ricordare più benissimo cosa significhi avere sedici anni, so dove tornare; so dove recuperare, e ritrovare intatti
l’ansia di «rimanere a far le ragnatele» mentre gli altri escono, il sabato sera
il disgusto verso un vicino di banco che si schiaccia i brufoli
il misto di ansia e di sorpresa nel contare i soldi che ti sono rimasti
certe schifezze che uno rimane incantato a guardare anche se non vuole
la voglia di parlare al telefono con qualcuno
la voglia di non parlare con nessuno
il fastidio tremendo quando un gruppo di ragazze ti guardano e ridono «come delle deficienti»
essere a casa di una ragazza, con la certezza che i suoi arriveranno nel momento sbagliato
mettersi a piangere di colpo, a piangere sul serio
il progetto di scappare di casa, di andarsene via, da qualche parte
avere mal di testa e sentirsi di schifo...
Salinger riesce a rendere tutto incredibilmente esatto e assoluto, nell’inesatta e personalissima voce di Holden Caulfield. Il quale dice di avere per fratello «uno scrittore normale», al momento prestato a Hollywood e diventato ricco sfondato. In verità, come dicevo, lo scrittore è lui. Diventa chiaro quando Holden scrive un tema al posto di un suo compagno – non gli va più di tanto, il foglio si inceppa nella «macchina da scrivere schifosa», e non sa bene che cosa raccontare.
«Allora che ho fatto, ho descritto il guanto di mio fratello Allie». Un guanto da baseball da esterno mancino: «Si prestava alla descrizione perché c’erano scritte delle poesie sulle dita, nel palmo e dappertutto. Con l’inchiostro verde. Se le era scritte da solo, per avere qualcosa da leggere quand’era in campo e nessuno batteva». Allie è morto di leucemia. Aveva i capelli rossi, ma non si arrabbiava mai. La notte che è morto, Holden ha spaccato a pugni i vetri di tutte le finestre del garage. Ogni tanto la mano gli fa ancora male, «quando piove e via dicendo».
Allie appare anche in un’altra scena, quando – «depresso come non potete immaginare» – Holden parla con suo fratello come fosse vivo, gli dice di andare a casa, prendere la bici e raggiungerlo davanti a casa di Bobby Fallon. C’è una tale quantità di sentimento che basterebbe a scaldare anche parecchi romanzi non ancora scritti. E una felicità di immagini che fa appunto pensare a Holden come a uno straordinario narratore in potenza, che intende restare tale. Uno che, esattamente come J.D. Salinger, pensa che scrivere, o recitare, o suonare per gli altri sia, più che sbagliato, fastidioso.
Nel novembre del 1953, due liceali chiedono allo scrittore un’intervista per il giornale della scuola. Lui accetta di buon grado («Erano state gentili»). L’intervista viene passata a un grande quotidiano. Salinger vive l’episodio come un affronto e un tradimento. Da allora non concederà più interviste, chiuderà le porte della sua casa di Cornish, nel New Hampshire, e lascerà fuori il mondo. Di lì a dieci anni, smetterà anche di pubblicare libri. Diventa così un leggendario artista della sparizione. Ma d’altra parte, in una lettera spedita a Hemingway a ventisette anni, si era fatto sfuggire questa frase: «Lontano dalla scena, è molto più facile pensare chiaramente. Con il tuo lavoro, voglio dire».
Sembra di sentire Holden, quando dice che, se suonasse il piano, suonerebbe «in un accidenti di sgabuzzino»: «Nemmeno vorrei che mi applaudissero. La gente applaude sempre per le cose sbagliate». Lo dice quando assiste a un concerto in un locale. Osserva il pianista, critica il suo inchino ipocrita: «Credo che nemmeno lui si renda più conto di quando suona bene o no. E non è solo colpa sua. Per me è anche colpa di tutti quei cretini che si spellano le mani. Rovinerebbero chiunque, a lasciarglielo fare».
E sì che da applaudire, nel caso di Salinger, ci sarebbe eccome! Chi ha letto solo Holden, non lo sa. Il capolavoro si chiama Nove racconti. In sole nove storie, Salinger si lascia alle spalle Gente di Dublino di Joyce e i Quarantanove racconti di Hemingway. Lo fa raccontando vicende di un’umanità che cerca di riprendersi dal trauma della seconda guerra mondiale (lui stesso era stato al fronte), gente che tenta di tornare alla vita e non ci riesce. Nel primo dei Nove racconti, Un giorno ideale per i pescibanana, appare un uomo reso irriconoscibile dall’esperienza della guerra: lo vediamo parlare sulla spiaggia con la bambina Sybil come fosse un suo compagno di giochi. Pronuncia frasi quasi incomprensibili, un po’ morbose, allarmanti. Sybil a un certo punto corre via. Lui rientra in albergo e si spara alla tempia destra. È un capolavoro di tenerezza – «una tenerezza tutta speciale», direbbe l’autore – e di mistero: Salinger non spiega mai troppo; ci getta in un punto qualsiasi della storia, tagliando e accostando scene con l’abilità di un montatore cinematografico. Si arriva alla fine del racconto con la sensazione di non aver capito tutto, di aver capito molto meno di quanto si potrebbe capire. Come nella vita.
Passano, davanti ai nostri occhi stupefatti, squadre di baseball, bambini che scappano di casa, ragazzine che parlano con il loro amico invisibile detto Jimmy Jimmirino, aspiranti artisti che millantano di avere conosciuto Picasso, un soldato americano che parla fittamente con una bambina in un bar. Lei si chiama Esmé: «Aveva i capelli fradici, da cui trapelavano i padiglioni delle orecchie». Parla in modo strano, come un’adulta in miniatura. Chiede al soldato di scrivere un racconto «esclusivamente» per lei: «Lo scriva molto squallido e commovente». Infine, gli augura di tornare dalla guerra «con tutte le sue facoltà intatte».
Forse i veri, grandi protagonisti dei Nove racconti sono proprio i bambini. Nel momento impercettibile in cui comincia la loro trasformazione: Salinger li mette sotto una lente d’ingrandimento, ce ne mostra i dettagli più buffi e disarmanti, gli istanti in cui si assentano e quelli in cui, con curiosità, con ostinazione, talvolta con cattiveria, chiedono udienza al mondo e lo giudicano. Prova a entrare nella loro testa, a tradurre la personalissima logica che essa produce. Li osserva con la perizia di un entomologo e con il trasporto di un padre che non è mai cresciuto del tutto. Che anzi vorrebbe restare, con loro, là, dove tutto è ancora possibile.
Nell’ultimo, bellissimo racconto, Teddy, un bambino prodigio, carico di sapienza Zen, parla come un oracolo e spiega: «La gente crede che le cose finiscano a un certo punto. E invece no... Se le cose sembra che finiscano a un certo punto, è solo perché la gente di solito non le sa guardare che in quel modo».
Promesse. Amo il primo istante della sua vita in cui Peter ha paura, nelle pagine finali di Peter Pan di James Matthew Barrie. Wendy gli accarezza i capelli. Lui grida di non accendere la luce. «Non era più la bambina cui si spezzava il cuore per lui. Era una donna adulta che sorrideva di tutto il passato, ma era un sorriso bagnato di pianto». Peter le ricorda la promessa fatta, la promessa di non crescere. Lei risponde che non ha potuto farne a meno. «Io sono vecchia, Peter. Ormai ho molto più che venti anni. Da lungo tempo sono cresciuta».
Rabbia. Amo la tristezza di Törless, nelle pagine dei Turbamenti del giovane Törless di Robert Musil. Dopo le cinque del pomeriggio, il giovane protagonista cammina seguendo le orme aperte nella polvere dal compagno che lo precede, mentre «sui campi si posava freddo e grave il presagio della notte». Törless pensa «ai genitori, ai conoscenti, alla vita» e sente che la sta vivendo poco, niente, lui, la sua vita. E questo lo fa «vibrare di rabbia impotente contro sé stesso, contro il destino, contro la giornata sepolta».
Innocenza. Amo quando, nella Bella estate di Cesare Pavese, Ginia si accorge di non essere più la stessa. Ha fatto l’amore con Guido, lui poi se n’è andato. «Scese la scala, sbalordita, e stavolta era convinta di non essere più lei e che tutti se ne accorgessero». Cammina lungo le vetrine, si specchia, sente di essere un’altra «da quell’immagine molle che passava come un’ombra».