«Chi potrebbe mai immaginare qui dentro
che nella testa di una ragazzina
possano accadere tutte queste cose?».
Vero: non è un romanzo. È il diario di un’adolescente. Ma chi non l’ha letto come un romanzo? Chi non l’ha comprato negli anni di scuola o ricevuto in regalo? Era – questo diario – un regalo anche per Anne M. Frank. Un mazzo di rose, due rami di peonie, una piantina, una camicetta azzurra, una torta di fragole, e un diario nuovo. Avvolto in una carta che lo fa spiccare. È venerdì 12 giugno 1942. Anne si sveglia presto, ma per alzarsi deve aspettare le sette meno un quarto. Non è facile tenere a freno la curiosità, il giorno del proprio compleanno. La prima frase, brevissima, Anne la scrive subito: «Spero che mi sarai di grande sostegno». Come si fa solito, si rivolge al diario con il tu, ma deve ancora trovargli un nome.
Quando riceve il diario, Anne compie tredici anni. Per i successivi due, il dialogo costante con le pagine riempirà giornate che, fino a mercoledì 8 luglio ’42, sono le giornate normali di un’adolescente. Vive ad Amsterdam con i genitori – il padre, Otto, è un industriale ebreo tedesco emigrato in Olanda – e una sorella, Margot. La vita scorre serena sino ai giorni dell’occupazione tedesca dei Paesi Bassi: le leggi ostili agli ebrei complicano la situazione della famiglia Frank, Otto cerca di ottenere un visto per gli Stati Uniti o per il Sudamerica, ma senza successo. I giovani ebrei sopra i sedici anni cominciano a essere convocati e destinati ai campi di lavoro nazisti. Anche Margot, la sorella maggiore di Anne, viene chiamata. Il giorno seguente, la famiglia Frank si nasconde in un alloggio segreto, che Otto aveva già predisposto per tempo nei locali della sua ditta. Saranno i suoi stessi dipendenti, con generosità e coraggio, a rendere possibile quest’impresa rischiosa e difficile. Sette persone (oltre ai Frank, c’è la famiglia van Pels) in uno spazio angusto, costrette a vivere una vita silenziosa e senza luce, i cui ritmi non sono più quelli della normalità. Anne registra nel diario questo cambiamento: un giovedì di inizio luglio, sotto la pioggia, finisce la sua prima vita.
La seconda, lunga un paio d’anni, è segnata dal verbo nascondersi. È fitta di limitazioni, di divieti: oltre a ciò che di per sé, sotto le leggi razziali, gli ebrei non possono fare (andare a teatro, al cinema, in piscina, praticare sport all’aperto, uscire per strada dopo le otto di sera...), si somma ciò che è proibito o impossibile fare nel nascondiglio. Non si può parlare a voce alta, mai. Non si può guardare dalla finestra. Eppure, là fuori, il mondo continua a muoversi, la gente a camminare per le strade! Il bagno si fa a turno in una tinozza. Se sono previste visite particolari nei locali della ditta – anche solo l’idraulico per una riparazione – bisognerà restare in assoluto silenzio e immobili per ore. Quando fa buio presto e non si può tenere la luce accesa, per passare il tempo occorre inventarsi di tutto – indovinelli, esercizi di ginnastica al buio –, chiacchierare in inglese o in francese, parlare di libri. Ma la noia e lo sconforto sono in agguato.
Per Anne, il diario non è un semplice passatempo, è qualcosa di più: lo spazio aperto in uno spazio chiuso, il luogo della trasparenza nel luogo del nascondimento. Al diario, alla «pazienza della carta», Anne affida le sue giornate, racconta sé stessa, talvolta sorpresa dalla propria assenza di pudori; e racconta gli altri. I cosiddetti «grandi»: li osserva, li giudica. E in un mondo così stretto, visti da così vicino, risultano diversi da come sembravano. Meno infallibili, meno giusti, in una parola meno perfetti.
Il diario, all’inizio, ha molti nomi. Anne moltiplica gli interlocutori, inventa una folla di amici per riempire la solitudine, li mette in scena in un teatro impeccabile, dando a ciascuno – come un regista agli attori – una parte specifica. Si scusa quando li trascura, simula di avere una sua preferita, tra tutti – ed è Kitty. Diventerà, in una fase successiva, l’unica destinataria dei suoi racconti in forma di lettera. C’è qualcosa di stupefacente nella consapevolezza con cui un’adolescente riesce a tradurre in scrittura la propria esperienza. Proiettandola progressivamente su un orizzonte che, pur restando privato, non è più solo quello.
Leggere il diario di Anne significa assistere al piccolo prodigio della nascita di uno scrittore. Certo, è lei stessa a manifestare l’ambizione di fare della scrittura, un giorno, il proprio mestiere, ma il punto non è questo. È la letterale esplosione di un talento. Le descrizioni dei compagni di classe, da ritrattista nata. L’ironia con cui riesce a raccontare anche la tragedia delle persecuzioni antisemite. L’autoironia con cui descrive sé stessa, come guardandosi da lontano o attraverso gli occhi altrui, e giocando con i propri difetti. La capacità di registrare – una sorta di radiografia emotiva – i cambiamenti che sente avvenire dentro, ancora prima di quelli che avvengono fuori. In questa prospettiva, pochi libri del Novecento europeo hanno saputo mettere a fuoco con tanta precisione quella terra di mezzo che è l’adolescenza – le scoperte, le ansie, le incomprensioni e i conflitti con i genitori, il desiderio di essere capiti e nello stesso tempo di essere lasciati soli, di essere abbracciati e di fuggire via.
Ho un terribile bisogno di essere sola, scrive Anne, contraddicendo gli slanci che la portano a cercare nuovi affetti. Non c’è una sola tappa che Anne non contempli, di quella strada accidentata che chiamiamo crescere. E quando si tratta di esplorare l’inesplorato – l’amore che nasce per Peter, il figlio dei van Pels – ha parole fresche, sagge, precise. Scopre il verbo appartenere: dice che lui le appartiene, anche se nessuno ne sa niente.
Alla prima lettura come alla decima rilettura, di questo diario – troppo spesso rubricato come una testimonianza della Shoah – colpiscono l’energia e il calore: come un vento, una musica che arrivano sul viso, anche aprendo il libro a caso. Il miracolo di essere non sopravvissuti, come si dice in questi casi, ma semplicemente vivi – impresso nei gesti di ogni giorno, fissato nelle parole semplici come solo un vero scrittore sa fare. Anne che dà lezioni di nederlandese a un amico immaginario. Anne che fa il bagno nella tinozza, «un’operazione non da poco», e riesce a trovare in tutto qualcosa di divertente. Anne che usa come vaso da notte un barattolo per le conserve («sono terrorizzata che me lo prendano e lo riutilizzino per le conserve, ma se lo annusano cambiano sicuramente idea»), Anne che si incaponisce sui verbi irregolari francesi. Anne che compila elenchi. Anne che osserva i dettagli del suo corpo che cambia. Anne che si sconforta, la realtà è «talmente grigia», ma basta una candela accesa, una piccola festa improvvisata a rimetterle in moto il cuore. Anne quando spera che un giorno le cose torneranno normali. Anne convinta che in qualsiasi circostanza possa esserci consolazione. Anne con il raffreddore. Anne che decifra i propri stessi confusi desideri. Anne quando piange. Anne alle prese con le mestruazioni. Anne che fa il catalogo dei maschi che le sono piaciuti, dall’asilo in avanti. Anne che si sforza di essere gentile. Anne che fa domande e cerca risposte. Anne che prende nota degli eventi bellici, ascolta i notiziari alla radio, fa i suoi ragionamenti, rassicura Kitty: «Non mi faccio prendere da tutta quella preoccupazione». Anne e la sua definizione dell’amore: «L’amore, cos’è l’amore? Io non credo che l’amore sia una cosa che si può davvero dire con le parole. L’amore è capire l’altro, volergli bene, condividere gioia e dolore. E con il tempo arriva anche l’amore fisico, hai diviso qualcosa, qualcosa hai donato e hai ricevuto, se ti sei sposato o no, se hai avuto un figlio o no. Non vuol dire niente che hai perso l’onore, basta che tu sia sicuro che avrai qualcuno accanto a te per tutta la vita, qualcuno che ti comprende e che appartiene solo a te!». Anne che finalmente bacia Peter.
Anne Frank morì nel campo di concentramento nazista di Bergen-Belsen, nella Bassa Sassonia, nei primi mesi del 1945. Non aveva ancora compiuto sedici anni. Una delazione determinò la scoperta dell’alloggio segreto e l’arresto di tutti i clandestini.
L’ultima pagina del diario – datata martedì 1° agosto 1944 – è ancora un esempio impressionante di consapevolezza: Anne si confronta con l’immagine che gli altri hanno di lei, cerca di capire dove combacia e dove no. Ogni identità è un coro, una somma di possibilità, una continua contraddizione. Lei lo sa. E di continuo – dice – «capovolgo il cuore, con la parte brutta verso l’esterno e quella più buona verso l’interno, continuando a cercare un modo per riuscire a essere come vorrei tanto e come potrei se solo... non ci fossero altre persone al mondo». Sii gentile e abbi coraggio, sprona sé stessa. Il futuro, da lì, sembra ancora una promessa.
Spensieratezza. Amo che, in un libro come La tregua, dove racconta il suo ritorno da Auschwitz, Primo Levi possa scrivere una frase così: «Eravamo entrati in Katowice come scolari in vacanza».
Felicità. Amo il fatto che Herta Müller riesca a scrivere un capitolo intitolato Sulla felicità nel Lager, nel suo romanzo L’altalena del respiro. E la definisce con ventisette aggettivi, fra cui malevola, nascosta, sbriciolata, confusa, avanzata. «La felicità della mente può avere gli occhi bagnati, il collo torto o le dita tremanti. Ma strepita in ogni caso nella fronte, come una rana in una scatola di latta».
Bambini. Amo quando il tempo torna indietro, in Mattatoio n. 5 di Kurt Vonnegut, e allora gli aviatori americani lasciano l’uniforme e diventano dei ragazzi. E anche Hitler torna bambino. «Tutti tornarono bambini, e tutta l’umanità, senza eccezione, cooperò biologicamente fino a produrre due individui perfetti di nome Adamo ed Eva».
Barzellette. Amo il buio sul palcoscenico e la luce che si accende quando entra Dova’le, un cabarettista di Netanya, in Israele. Suda, cerca di far ridere il pubblico, non ci riesce. Passa dalle barzellette al racconto di un pezzo della sua vita, quando era in un campo di addestramento militare. Mescola la risata al dolore, è il buffone che conosce l’altra faccia del comico. David Grossman, Applausi a scena vuota.