Rinaldo, a bordo della nave incantata, approda a Palazzo Zolioso, un luogo bellissimo dove è accolto da una dama che gli promette la lieta conclusione della sua avventura (1-6). Il cavaliere è invitato a cena nel palazzo e altre donzelle gli tengono compagnia cantando e danzando. Alla fine del pasto, una di loro lo informa che tutto ciò che vede è stato costruito per lui ed è a sua disposizione: Angelica ne è l’artefice (7-11). Quando Rinaldo sente pronunciare quel nome si turba e comincia a odiare il luogo tanto ameno. La donna gli dice anche che è prigioniero e che non può fuggire, ma il cavaliere torna alla nave, deciso a morire se non riuscisse ad allontanarsi, e prende il mare (12-15). Il vascello lo conduce rapidamente a un’altra terra. Una volta sbarcato, Rinaldo incontra un vecchio cui è stata appena rapita la figlia: subito si dà a inseguire il malfattore che, quando lo vede, lascia libera la ragazza e suona un corno (16-18). Al suono del corno, un gigante armato di una freccia e di una catena uncinata esce da un castello posto su un’altura vicina. Il gigante fa cadere il cavaliere in un trabocchetto, lo immobilizza e lo porta nel castello. L’aspetto del maniero è terrificante: le mura sono arrossate dal sangue e l’ingresso è decorato con membra umane strappate ai corpi (19-25). Arriva una vecchia molto brutta che racconta la storia del luogo. In passato era stato signore del castello il nobile e generoso Grifone, marito dell’avvenente Stella. Un giorno Marchino, principe di Aronda, era stato accolto e ospitato a corte. Lì si era follemente innamorato di Stella e aveva deciso di averla a tutti i costi. Perciò aveva teso un’imboscata a Grifone, che era uscito dal castello per andare a caccia, e l’aveva assassinato (29-35). Impadronitosi della rocca usando l’insegna dell’ucciso, aveva poi massacrato tutti gli abitanti e offerto il proprio amore a Stella, che però lo aveva rifiutato. La dama aveva anzi trovato un’alleata nella moglie di Marchino, furiosa di gelosia: costei è la vecchia che sta raccontando i fatti (36-38). La moglie, per vendicarsi, era giunta a uccidere i due figli suoi e di Marchino, cucinando le loro carni e dandole da mangiare all’ignaro marito. Quindi era andata a chiedere soccorso al re di Orgagna, parente di Stella (39-42). Stella, nel frattempo, aveva presentato a Marchino le teste dei due figli, rendendogli manifesto lo scempio perpetrato dalla moglie. Il signore aveva allora fatto riesumare il cadavere di Grifone e vi aveva legato Stella. Non pago di tanto, l’aveva violentata e uccisa, continuando ad abusare di lei già morta. Dopo una cruenta battaglia, le truppe del re di Orgagna avevano espugnato la rocca: Marchino era stato fatto a pezzi per punizione e Stella era stata sepolta con tutti gli onori accanto all’amato Grifone (43-48). Otto mesi più tardi, un urlo spaventoso era uscito dalla tomba: il cadavere di Stella aveva partorito un mostro fortissimo e antropofago. Da allora, la vecchia e gli abitanti del castello avevano cominciato a catturare persone da dargli in pasto vive, uccidendo anche coloro che eventualmente avanzassero. Le membra di questi si possono vedere appese all’ingresso della rocca (49-52). Ora tocca a Rinaldo, che chiede però di entrare nella stanza dell’orrenda creatura armato di Fusberta. Gli è concesso, ma l’avversario è formidabile, lo ferisce e gli strappa la spada di mano (53-64).
1.
Gionse Renaldo al Palazo Zolioso:
Così se avea quela isola a chiamare,
Ove la nave fiè il primo riposo,
La nave che ha il nochier che non apare.
Era quello un giardin de arbori ombroso,
De ciascun lato in cerco il bate il mare;
Piano era tutto, coperto a verdura:
Quindici milia è intorno per misura.
2.
Di ver ponente aponto sopra al lito,
Un bel palagio rico se mostrava,
Fatto de un marmo sì terso e pulito
Che il giardin tuto in esso se spechiava.
Renaldo in terra presto fu salito,
Ché star sopra ala nave dubitava;
Apena sopra il lito era smontato,
Ecco una dama che l’ha salutato.
3.
La dama li dicea: «Franco barone,
Qua ve ha portato la vostra ventura!
E non pensati che sancia casone
Siati condotto con tanta paura,
Tanto di longi, in strana regïone:
Ma vostra sorte che al principio è dura,
Avrà fin dolce, alegro e dilectoso,
Se avete il cor, com’io credo, amoroso».
4.
Cossì dicendo, per la man il piglia
E dentro al bel palagio l’ha menato.
Era la porta candida e vermiglia
E di ner marmo e verde e mischiato;
Il spazo che coi piedi se scapiglia
Pur di quel marmo è tutto varïato;
Di qua, di là son logie in bel lavoro,
Con relevi e compassi azuro e de oro.
5.
Giardin occulti di fresca verdura
Son sopra a’ tetti e per terra nascosi;
Di gemme e d’oro a vaga dipintura
Son tutti e lochi nobil e zoliosi;
Chiare fontane e fresche a dismisura
Son circondati de arborscelli umbrosi:
Sopra ogni cosa quel loco ha un odore
Da tornar lieto ogni affanato core.
6.
La dama intra una logia col barone,
Adorna molta, rica e delicata,
Per ogni facia e per ogni cantone
Di smalto in lama d’oro istoriata.
Verdi arborscelli e di bella facione
Da il loco aperto la teneano umbrata,
E le colone di quel bel lavoro
Han di cristallo il fusto e il capo d’oro.
7.
In questa logia il cavaliero intrava;
Di belle dame ivi era una adunanza:
Tre cantavano insieme, e una sonava
Uno istrumento fuor de nostra usanza,
Ma dolce molto il cantar acordava;
L’altre poi tute menano una danza.
Come intrò dentro il cavalier adorno,
Cossì danzando lo acerchiarno intorno.
8.
Una di quelle, con sembianza umana
Disse: «Signor, le tavole son pose
E l’ora dela cena è proximana».
Cossì per l’erbe fresche e odorose
Seco il menarno a lato ala fontana
Sotto un coperto di vermiglie rose;
Quivi è aparato, che nulla vi manca,
Di drappo d’oro e di tovaglia bianca.
9.
Quatro dongelle se fòrno assetate
E tolsen dentro a lor Renaldo in megio:
Renaldo sta smarito in veritate;
Di grosse perle adorno era il suo segio.
Quivi venner vivande delicate,
Coppe con zoglie di mirabil pregio;
Vin di bon gusto e di soave odore
Servon tre dame a lui con molto onore.
10.
Poi che la cena comencia a fenire
E fuòr scoperte le tavole d’oro,
Arpe e leuti se poterno odire.
A Renaldo se acosta una di loro,
Basso ala orechia li comencia a dire:
«Questa casa real, questo tesoro
E l’altre cosse che non pòi vedere,
Che più son molto, son a tuo piacere.
11.
Per tua cagione è tutto edificato,
E per te solo il fece la regina.
Ben te déi raputare venturato
Che te ami quella dama peregrina:
Essa è più bianca che zigli nel prato,
Vermiglia più che rosa in sula spina.
La giovenetta Angelica se chiama,
Che tua persona più che il suo cor ama».
12.
Quando Renaldo fra tanta alegreza
Ode nomar colei che odiava tanto,
Non ebbe ala sua vita tal tristeza,
E cambiosse nel viso tutto quanto.
La lieta casa ormai nulla non preza,
Anci li asembra un loco pien di pianto;
Ma quella dama li dice: «Barone,
A nui non pòi disdir, ché sei prigione!
13.
Qua non te val Fusberta adoperare,
Né te varìa se avesti il tuo Baiardo;
Intorno ad ogni parte cinge il mare:
Qui non te val ardir, né esser galiardo.
Quel cor tanto aspro ti convien mutare:
Lei altro non disia fuor che il tuo guardo;
Se de mirarla il cor non ti conforta,
Come vedraï alcun che odio ti porta?».
14.
Cossì dicea la bella giovenetta,
Ma nulla ne ascoltava il cavaliero,
Né quivi alcune dele dame aspeta,
Anci soletto va per il verziero.
Non trova cosa quivi che il diletta,
Ma con cor crudo, dispietato e fiero
Partir de quivi al tutto se destina,
E da Ponente torne ala marina.
15.
Trova il naviglio che l’avea portato
E sopra a quel soleto torne ancora,
Perché nel mar se sarebbe gitato
Più presto che al giardin far più dimora.
Non se parte il naviglio, anci è acostato:
E questo è la gran doglia che lo acora;
E’ fa pensier, se non se pò partire,
Gitarsi in mar e al tuto morire.
16.
Ora il naviglio nel mar se alontana
E con Ponente in poppa via camina;
Non lo potrìa contar la voce umana
Comme la nave va con gran roina.
Nel’altro giorno una gran selva e strana
Vede: a quella il legno se avicina;
Renaldo al lito di quella dismonta:
Subito un vechio bianco a lui si afronta.
17.
Forte piangendo quel vechio dicea:
«Deh, non me abandonar, franco barone,
Se onor te move di cavaleria
Chi è la diffesa di iusta ragione!
Una dongella che è figliola mia,
Ème rapita da un falso latrone!
E’ pur adesso presa se la mena:
Ducento passi non è longi apena!».
18.
Mosse pietate quel baron galiardo:
Benché sia a piedi, armato, con la spada,
A seguir il latron già non fu tardo;
Coperto de arme corre quella strada.
Comme lo vide quel ladron ribaldo,
Lassa la dama e già non stete a bada;
Pose ala bocca un grandissimo corno:
Par che risone l’aria e il ciel de intorno.
19.
Venne Renaldo la vista ad alciare:
A sé davanti vede un monticello,
Che facea un capo picoletto in mare;
Alla cima di quello era un castello
Che al son del corno il ponte ebe a calare.
Fuor venne un gigante iniquo e fello;
Sedeci piedi è dala terra altano,
Una catena e un dardo tiene in mano.
20.
Quella catena ha da cappo uno oncino:
Or chi potrà questa opra indivinare?
Comme fu gionto, il gigante mastino
Il dardo con gran forza ebbe a lanciare:
Gionge nel scudo, che è ben forte e fino,
Ma tutto quanto pur l’ebbe a passare.
Usbergo e maglia tuto ebe passato:
Ferì il barone alquanto nel costato.
21.
Dicea Renaldo a lui: «Deh, tiene a mente
Chi meglio de noi doi di spada fiera!».
E vàli adosso iniquitosamente.
Come il gigante il vide nela cera,
Volta le spale e non tarda nïente:
Forte correndo fuge a una rivera.
Questa rivera un ponte sopra avìa,
Una sol pietra quel ponte facìa.
22.
Nel capo di quel ponte era uno anelo:
Dentro li attaca il gigante l’oncino.
E già Renaldo è sopra il ponticelo,
Ché correndo al pagano era vecino.
Tirò lo inzegno con gran forza il felo:
La pietra se profonda. «O Dio divino!»
Dicea Renaldo, «Aiuta, o Matre eterna!»
Cossì dicendo va nela caverna.
23.
Era la tana scura e tenebrosa,
E sopra ad essa la fiumana andava;
Una catena dentro vi era ascosa
Che il caduto baron presto legava.
E quel gigante già non se riposa:
Cossì legato in spalla se il portava
A lui dicendo: «E perché davi impacio
Al mio compagno, e io te ho gionto al lacio!».
24.
Non respondìa Renaldo alcuna cosa,
Ma nela mente tristo ne dicìa:
«Or ti par che Fortuna roïnosa
Una disgratia detro al’altra invia!
Qual sorte al mondo è la più dolorosa
Non se paragia ala sventura mia,
Che in tal miseria mi vedo arrivare
Né con qual modo lo saprìa contare!».
25.
Cossì dicendo, già sono su il ponte
Che dil crudel castelo era la intrata:
Teste de occisi nela prima fronte,
E gente morte vi pende apicata;
Ma quel che era più scuro, eran disiunte
Le membre ancora vive alcuna fiata.
Vermiglio è lo castello e da lontano
Sembrava foco, ed era sangue umano.
26.
Ranaldo sol pregando Idio ce aiuta:
Ben vi confesso che ora ebbe paura.
Già davanti una vechia era venuta
Tutta coperta de una veste scura,
Magra nel volto, orribil e canuta,
E di sembianza dispietata e dura.
Lei fa Ranaldo ala terra gettare
Cossì legato, e comencia ’ parlare.
27.
«Forsi per fama avrai sentito dire»
Dicea la vechia «la crudel usanza
Che questa roca ha preso a mantenire;
Ora nel tempo che a viver te avanza
(Poiché a diman se indugia il tuo morire:
Che già de vita non aver speranza!),
In questo tempo, te voglio contare
Qual cagion fece la usanza ordinare.
28.
Un cavalier di possanza infenita
Di questa roca un tempo fu signore.
Vita tenea magnifica e fiorita,
Ad ogni forastier faceva onore;
Ciascun chi passa per la strata invita:
Cavalier, dama e gente di valore.
Avìa costui per moglia una dongella,
Che altra al mondo mai fu tanto bela.
29.
Quel cavalier avea nome Grifone,
Questa roca Altaripa era chiamata,
E la sua dama Stella per ragione,
Che ben parea de il ciel esser levata.
Era di magio, ala bella stagione;
Andava il cavalier alcuna fiata
A quela selva chi è in sula marina,
Dove giongesti in questa matina.
30.
E’ passar per lo bosco ebbe sentito
Un altro cavalier che a cacia andava.
Sì comme a tutti fiè il cortese invito,
E ala roca qua suso il menava.
Fu questo altro che io dico mio marito:
Marchino, il sir de Aronda, se chiamava;
Lui fu menato dentro a questa stanza
E onorato assai, come era usanza.
31.
Or comme volse la Disaventura,
Gli ochi ala bella Stela ebe voltato:
E’ fo preso de amor oltra misura,
E seco pensò il viso delicato
Di quella mansueta creatura;
Insoma, è dentro il cor tanto infiamato
Ch’altro nol stringe, né d’altro ha pensiero
Se non di tòr la dona al cavaliero.
32.
Da questa roca se parte fellone;
Torna cambiato in viso a maraviglia,
Altro che lui non sapìa la cagione.
Parte da Aronda con la sua famiglia;
Porta le insegne seco di Grifone
E di persona alquanto il rasumiglia.
E soi compagni nel bosco nascose,
Le insegne e l’arme pur con essi pose.
33.
Lui comme a caccia tutto disarmato
Va per la selva e forte sona un corno;
Il cortese Grifon l’ebe ascoltato,
Che era nel bosco ancora lui quel giorno:
In quella parte presto ne fu andato.
Marchino, il falso, si guardava intorno
E comme non avesse alcun veduto,
Forte diceva: “Io l’averò perduto”.
34.
Poi ver Grifone se véne a voltare;
Come il vedesse alor primeramente,
Diceva: “Io vengo un mio cane a cercare,
Ma in questo loco non sciò andar nïente”.
Or vano insieme, e vengon ’ arivare
Ove Marchino ha nascoso la gente;
E, per venir più presto al compimento,
Ociserlo costor a tradimento.
35.
Con la sua insegna la roca pigliàro,
Né dentro vi lassàr persona viva:
Fanciulli e vechi, sancia alcun riparo,
E ogni dama fu de vita priva.
La bella Stella qua dentro trovàro,
Che la sventura sua forte piangiva;
Molte careze li facea Marchino,
Mai non se piega quel cor peregrino.
36.
Ella pensa lo oltragio dispietato
Che li avea facto il falso traditore;
E Grifon, ch’è da leï tanto amato,
Sempre li stava notte e dì nel core;
Né altro desìa che averlo vendicato,
Né trova qual partito sia el megliore.
Infin le offerse il suo voler crudele
Quel’animal che al mondo è di più fele.
37.
Lo animal che è più crudo e spaventevole
Ed è più ardente che foco che sia,
È la molie che a un tempo fu amorevole,
Che, disprezata, cade in zelosia.
Non è il leon ferito più spiacevole,
Né la serpe calcata è tanto ria
Quanto è la moglia fiera in quella fiata
Che per altrui se vede abandonata.
38.
E io ben lo sciò dir, che lo provai:
Quando advisata fui di questa cosa
Io non senteti magior doglia mai,
E quasi venni in tutto rabïosa.
Ben lo mostra la crudeltà che usai
Che forse ti parà maravigliosa,
Ma dov’è gelosia strenge lo amore:
Quel mal che io fece in onta è ancor pegiore.
39.
Dui fanciulleti aveva di Marchino:
Il primo lo scanai con la mia mano;
Stava a guardarmi l’altro picolino,
E dicìa: “Matre, deh, per Dio, fa’ piano!”.
Io presi per li pedi quel mischino
E detti il capo a un saxo proximano.
Te par che io vendicasse il mio dispeto?
Ma questo fu un principio, e non lo effeto.
40.
Quasi vivendo ancora lo squartai,
De il pecto al’un e al’altro trassi il core,
Le picollete membre minuciai:
Pensi se ciò facendo avìa dolore!
Ma ancor mi giova che io mi vendicai.
Servai le teste, non già per amore,
Ché in me non era amor né anco pietade:
Servalle per usar più crudeltade.
41.
Quelle portai qua susso di nascoso;
La carne che fece io poi posi al foco.
Tanto poté lo oltragio dispetoso:
Io stessa fui becaro, io stessa coquo!
A mensa li ebe il patre doloroso,
E quelle se mangiò con festa e gioco.
Ahi crudel sole, ahi giorno scelerato,
Che comportò veder tanto peccato!
42.
Io mi parti’ dapoi nascosamente,
Le man e il pecto di sangue machiata;
Al re de Orgagna andai subitamente,
Che già longa stagion m’aveva amata
(Era costui dela Stella parente),
E racontai la istoria dispietata.
Quel re condusse io armato in sul’arcione
A far vendeta de il morte Grifone.
43.
Ma non fu questa cosa cossì presta,
Che, comme io fui partita dal castello,
La cruda Stella, menando gran festa,
A Marchin va davanti in viso fello
E li apresenta l’una e l’altra testa
D’i fioli, che io servai dentro a un piatelo.
Benché per morte ciascuna era trista,
Pur li cognobe il patre in prima vista.
44.
La damisella aveva il cren disolto,
La facia altiera e la mente sicura,
E a lui disse: “L’un e l’altro volto
Son d’i toi figli: dàgli sepoltura!
Il resto hai tu nel tuo ventre sopolto;
Tu il divorasti: non aver più cura!”.
Ora ha gran pena il falso traditore,
Ché Crudeltà combatte con Amore.
45.
Lo oltragio ismisurato ben lo invita
A far di quella dama crudo stracio;
Dal’altra parte la faza fiorita
E lo afocato amor li dava impacio.
Delibra vendicarsi, ala fenita;
Ma qual vendeta lo porìa far sacio?
Ché, pensando al suo oltragio, in veritate
Non v’era pena di tal crudeltade.
46.
Il corpo di Grifon fece portare,
Che cossì occise ancor giacea nel piano;
Fece la dama a quel corpo legare,
Viso con viso stretto e mano a mano.
Cossì con lei poi s’ebbe a diletare:
Or fu piacer giamai tanto inumano?
Gran puza mena il corpo tutafiata,
La damisella a quel stava legata.
47.
In questo tempo véne il re de Orgagna
E io con esso, con molta brigata;
Ma comme fumo viste ala campagna,
Marchin la bella Stella ebe scanata,
Né ancor per questo poï la sparagna,
Ma usava con lei morta tuttafiata.
Credo io che il fece sol per darsi vanto
Che altro om non fosse scelerato tanto.
48.
Noi qui vinémo e con cruda bataglia
La forte roca al fin pur fo pigliata
E Marchin prese, e di ardente tinaglia
Fu sua persona tutta lacerata:
Chi rompe le sue membre e chi le taglia.
La bella dama poi fu sotterata
Intra un sepolcro adorno per ragione;
Posto fu sieco il suo caro Grifone.
49.
Il re de Orgagna poi se ne fu andato,
E io rimasi in questa roca scura.
Era lo octavo mese già passato
Quando sentìmo in quella sepultura
Un crido tanto orribil e spietato
Che io non vòl dir che l’altri abian paura,
Ma tre giganti ne fòr spaventati
Che il re de Orgagna meco avìa lassati.
50.
Un de essi, alquanto più di cor ardito,
Volse la sepultura un poco aprire,
Ma ben ne fu poi presto repentito,
Però che un mostro, che non pòte ussire,
Pur fuor getò una branca e hal gremito:
In poco de ora lo fece morire;
Straciòlo in peci e trassel dentro; possa
La carne divorò con tutte l’ossa.
51.
Né se trovò più om tanto sicuro
Che dentro a quella chiesia voglia intrare.
Cengere la fece io de un forte muro,
Quello sepulcro a ingegno diserare;
Ussìne un mostro contrafatto e scuro
Tanto che alcun non li ardisce a guardare.
La orribil forma sua non te discrivo,
Perché sarai da lui di vita privo.
52.
Noi poi servàmo cossì facta usanza:
Che ciascun giorno qualcun è pigliato
E lo gettamo dentro a quella stanza,
Perché la bestia l’abia devorato.
Ma tanto ne pigliamo che ne avanza:
Alcun se scana, alcun vien impicato,
Squàrtassi ’ vivi ancora alcuna fiata,
Comme veder potesti in sula intrata.»
53.
Poi che la usanza cruda, ismisurata,
Fu per Ranaldo pienamente intesa,
E l’oribil casone e scelerata
Chi fiè la bestia a chi non val diffesa,
Rivolto a quella vechia dispietata,
Disse: «Deh, matre, non mi far contesa:
Concedimi, per Dio, che dentro vada
Armato come io sono e con la spada».
54.
Rise la vecchia, e disse: «Or pur ti vaglia!
Quante arme vòi ti lassarò portare,
Ché il mostro con suo dente il fero taglia,
Né contra ale unge sue se pote armare.
A te convien morir, non far bataglia,
Ché la sua pelle non se può tagliare:
Ma per far il tuo pegio io son contenta,
Perché la bestia lo armato più stenta».
55.
Sì comme aparve il giorno il sol lucente,
Renaldo dentro al muro è giù calato
E fu una porta alciata incontinente:
Esce il mostro diverso e sfigurato.
Sì forte batte l’uno al’altro dente
Che ciascun sopra al muro è spaventato,
Né di star tanto ad alto se asicura;
Altri se asconde e fuge per paura.
56.
Solo è Renaldo lui sancia spavento:
Armato è tutto e in man ha Fusberta.
Ma io credo che a voi tutti sia in talento
De quel mostro saper la forma aperta.
Aciò che abiati il suo comenciamento:
Fièllo il demonio (questa è cosa certa)
De il seme de Marchin che in corpo porta
Quella dongella che da lui fu morta.
57.
Egli era più che un bove di grandeza,
Il muso avëa proprio di serpente;
Sei palme avea la boca di longeza,
Ben megio palmo è longo ciascun dente;
La fronte ha de cingiale, in tal fiereza
Che non si può guardarla per nïente;
E di ciascuna tempia ussiva un corno
Che move a suo piacere e volge intorno;
58.
E ciascun corno taglia come spata.
Mugia con voce piena di terrore;
La pelle ha verde e giala, e varïata
Di negro e bianco e di rosso colore;
Avea la barba sempre insanguinata,
Ochii di foco e guardo traditore;
La man ha de omo e armata de ungione,
Magior che quel del’orso o de il leone.
59.
Nele unge e dente avea cotanta possa
Che piastra o maglia non li pò durare;
È la pelle sì dura e tanto grossa
Che nulla cosa la porìa tagliare.
Questa bestia feroce ora se è mossa
E va con furia Ranaldo a trovare,
Su dui piè ritta, con la boca aperta:
Mena Renaldo un colpo con Fusberta
60.
E proprio a megio il muso l’ebe colta.
Or par di foco la bestia adirata
E, con più furia a Renaldo rivolta,
Con la man alta tira una ciampata;
Troppo non gionsi avanti quella volta,
Ma quanta maglia prese ebe strazata,
Tanto avea duro il dispiatato ungione:
Sino ala carne disarmò il barone.
61.
Ora per questo Ranaldo non resta;
Benché abia il pegio, pur non si spaventa.
Tira a due man al drito dela testa:
Quella bestia crudel par che non senta,
Anci ogni colpo mena più tempesta,
Salta de intorno, né giamai se alenta;
Or de una zampa, or del’altra mena
Con tal presteza che se vede a pena.
62.
In quatro parte è già il baron ferito,
Ma non ha il mondo cossì facto core:
Védessi morto e non è sbigotito,
Perde il suo sangue e cresie il suo furore.
Lui certamente avìa preso il partito
Che al disperato caso era il migliore:
Però che se nol fa il mostro perire,
Pur lì di fame li convien morire.
63.
Già se faceva il giorno alquanto scuro
E dura la bataglia tuttafiata.
Ranaldo s’è acostato al’alto muro:
Il sangue ha perso e la lena è mancata,
E ben è del morir certo e sicuro,
Ma mena pur gran colpo dela spata.
Vero è che sangue al mostro non ha mosso,
Ma fracassata li ha la carne e l’osso.
64.
Or se il distina in tutto di stordire:
Mena un gran colpo quel baron soprano;
La mala bestia il brando ebe a gremire.
Or chi dé far il sir de Montealbano?
Diffender non si pò, né può fugire,
Perché Fusberta li è tolta di mano.
Ma poï vi dirò comme andò il fatto;
In questo canto più di lui non tratto.
1. 1. Palazo Zolioso: cioè Palazzo Gioioso, nome parlante in netta e deliberata contrapposizione a Rocca Crudele che incontreremo tra poco. Per i precedenti del nome, RAZZOLI 1901, p. 45 ricordava l’Isola Gioiosa che ospitò Lancillotto e il Giardino della Gioia del Merlin, nonché la Gioiosa Guardia nei romanzi di Tristano e Lancillotto. Innumerevoli i luoghi incantati che Boiardo poteva avere presenti: la Reggia del Sole (Ov. Met. II, 1-18), il palazzo di Amore (Apul. Met. V) e così via (BRUSCAGLI 1995). 3. il primo riposo: ‘la prima sosta’. 4. nochier: ‘pilota’. 5. Cfr. Teseida V, 33: «giunse nel bosco per gli albori ombroso» (TISSONI BENEVENUTI 1999). 6. in cerco: ‘intorno’. 7. verdura: ‘vegetazione’.
2. 1. Di ver: ‘verso’. 5. fu salito: ‘saltò’. 6. dubitava: ‘temeva’.
3. 1. Franco: cfr. I, i, 1, 7. 2. ventura: ‘buona sorte’. 3. sancia casone: ‘senza motivo’. 5. strana: ‘straniera’. 8. Questa specificazione da parte della dama non è casuale, perché la mancanza di amore, e anzi l’odio, per Angelica allontaneranno Rinaldo dalle amenità di Palazzo Zolioso per condurlo in un luogo terrificante dove rischierà una morte orrenda.
4. 2. menato: ‘condotto’. 4. mischiato: ‘screziato’. Il verso richiede una dialefe tra marmo ed e. 5. spazo: cioè spazio ‘pavimento’. se scapiglia: ‘calpesta’; voce rara che sembra garantita da un’altra occorrenza boiardesca nel volgarizzamento di Erodoto (TROLLI 2003, p. 257). 6. varïato: ‘variegato’. 8. relevi: ‘rilievi’. compassi: ‘fregi di forma circolare’. Questi due ultimi elementi sono quelli che più avvicinano il passo boiardesco al palazzo reale di Marmorina e alla torre dell’Arabo descritti nel Filocolo boccacciano (II, 32, 1-6; IV, 85, 1-12; cfr. QUAGLIO 1973).
5. 3. vaga dipintura: ‘bella pittura’. 4. tutti e lochi: ‘tutti i luoghi’. 6. arborscelli: ‘alberelli’. 8. tornar lieto: ‘fare tornare lieto’.
6. 1. intra: ‘entra’; cfr. I, vi, 47, 1. 3. cantone: ‘angolo’. 4. lama: ‘lamina’. 5. facione: ‘aspetto’; francesismo. 6. Da il loco aperto: ‘sul lato dove la loggia era aperta’. umbrata:‘ombreggiata’. 8. fusto: ‘tronco’. capo: ‘capitello’.
7. 5. acordava:‘accompagnava’. 8. lo acerchiarno intorno: ‘lo circondarono’.
8. 1. sembianza umana: ‘aspetto gentile’. 2. pose: ‘poste, preparate’. 3. proximana: ‘prossima’. 5. Seco il menarno: ‘lo condussero con loro’. 6. coperto: ‘copertura’. 7. aparato: ‘preparato’ (cfr. I, v, 39, 1). 8. drappo: ‘tessuto’.
9. 1. se fòrno assetate: ‘si sedettero’. 2. tolsen… in megio: ‘presero in mezzo’. 6. zoglie: ‘gioielli’.
10. 2. fuòr: ‘furono’. 3. leuti: ‘liuti’. 8. son a tuo piacere: ‘sono a tua disposizione’.
11. 1. Per tua cagione: ‘per te’. 3. ‘Ti devi ben ritenere fortunato’; per raputare cfr. I, vii, 5, 6. 4. peregrina: ‘eccezionale’. 5. zigli: ‘gigli’.
12. 2. nomar: ‘nominare’. 5. nulla non preza: ‘non apprezza per nulla’. 6. Anci: ‘anzi’. li asembra: ‘gli sembra’. 8. disdir: ‘rifiutare’.
13. 2. varìa: ‘varrebbe’. 7. non ti conforta: ‘non ti regge’.
14. 4. verziero: ‘giardino’. 6. crudo, dispietato e fiero: aggettivi formulari della lirica, solitamente riferiti alla donna refrattaria alle offerte amorose. 7. se destina: ‘decide’. 8. torne: il verbo si trova con la medesima desinenza nell’ottava successiva. Non sembra però un tratto caratteristico dell’autore e sarà forse una falsa restituzione dell’atona finale da attribuire ai compositori di P: gli altri testimoni leggono torna.
15. 1. naviglio : ‘nave’. 4. Più presto: ‘piuttosto’. 5. acostato: ‘ormeggiato presso la costa’ (TROLLI 2003, p. 75). 6. lo acora: cioè lo accora ‘lo fa soffrire’.
16. 2. con Ponente in poppa: verso est. 4. roina: ‘furia’. 6. Dialefe tra Vede e a; gli altri testimoni leggono vede et a. legno: ‘nave’. 8. un vechio bianco a lui si afronta: ‘un vecchio canuto gli si para davanti’.
17. 4. ragione: ‘diritto’. 6. Ème: ‘mi è’. falso: ‘traditore’. 7. se la mena: ‘se porta via’. 8. longi: ‘lontano’.
18. 1. pietate: ‘compassione’. 3. tardo: ‘lento’. 6. non stete a bada: ‘non indugiò’.
19. 1. ‘Rinaldo alzò lo sguardo’; perifrasi. 6. iniquo e fello: ‘malvagio e crudele’; dittologia sinonimica. 7. altano: ‘alto’.
20. 1. ha da cappo uno oncino: ‘ha all’estremità un uncino’. 2. ‘chi potrà indovinare come funziona questo ordigno?’. 3. mastino: epiteto negativo insolito. 5. fino: ‘di ottima qualità’. 6. passare: ‘trapassare’. 7. Usbergo e maglia: ‘corazza e maglia di ferro’.
21. 1. tiene a mente: ‘fa’ attenzione’. 2. doi: ‘due’. fiera: ‘ferisca’. 3. vàli: ‘gli va’. iniquitosamente: ‘con violenza’. 4. nela cera: ‘in volto’. 6. rivera: ‘fiume’. 8. ‘il ponte era stato ricavato da una sola pietra’.
22. 4. vecino: ‘vicino’. 5. inzegno: ‘congegno’. felo: ‘traditore’.
23. 1. tana: ‘caverna’. 8. e io te ho gionto: ‘io ti ho preso’; costrutto paraipotattico.
24. 3. roïnosa: ‘portatrice di rovina’. 6. Non se paragia: ‘non uguaglia’; paragiarsi non ha altre attestazioni ed è forse un francesismo (TROLLI 2003, p. 210). 7. miseria: ‘sciagura’. 8. contare: ‘raccontare’.
25. Comincia qui l’episodio di Rocca Crudele, il più raccapricciante di tutto il romanzo. Boiardo vi concentra echi e suggestioni provenienti da diverse fonti, classiche e no. Il macabro aspetto del castello, decorato con resti umani straziati, risente delle Argonautiche di Valerio Flacco (la caverna del re dei Bebrici: IV, 180-183), dell’Eneide (l’antro di Caco: VIII, 196-197) e dei Fasti di Ovidio (ancora l’antro di Caco: I, 557). La sua scellerata custode ha un precedente nella Metamorfosi (IV, 7) di Apuleio (cfr. RAZZOLI 1901, pp. 66-67; ZAMPESE 1994, pp. 128-129). 3. nela prima fronte: ‘all’entrata, sulla facciata’ (TROLLI 2003, p. 157). 4. morte: cioè morta, con probabile falsa restituzione della vocale atona finale. 5. scuro: ‘terribile’. disiunte: ‘strappate’. 6. fiata: ‘volta’. 5-6. Il dettaglio orroroso può essere stato suggerito da Valerio Flacco: «hic trunca rotatis / bracchia rapta viris strictoque immortua caestu / ossaque taetra situ et capitum maestissimus ordo» (Argon. IV, 181-183). 7. Vermiglio: ‘rosso’.
26. 1. ce aiuta: ‘si aiuta’.
27. 3. mantenire: ‘mantenere’; metaplasmo di coniugazione. 5. a diman se indugia: ‘si rinvia a domani’. 8. ‘quale motivo fece stabilire la consuetudine’.
28. 3. fiorita: ‘splendida’ (TISSONI BENEVENUTI 1999). 8. La lezione di P obbliga a dialefe tra che e altra; il solo Z reca cotanto.
29. 3. per ragione: ‘a buon diritto’. 8. La lezione di P richiede dialefe tra giongesti e in; gli altri testimoni recano giongesti tu.
30. 3. fiè: ‘fece’. 4. qua suso: ‘quassù’.
31. 1. volse: ‘volle’. 3. E’ fo preso: solito verbo che esprime la cattura da parte di Amore, come stringe del v. 7. oltra misura:è l’espressione chiave per intendere il senso di questa terribile storia. La passione incontrollata può provocare i disastri peggiori, così come la refrattarietà all’amore di Rinaldo lo conduce in pericolo di morte. 4. E seco pensò: ‘e pensò tra sé’. 8. tòr: ‘togliere’.
32. 1. fellone: ‘traditore’. 4. famiglia: ‘seguito’. 6. il rasumiglia: ‘gli assomiglia’.
33. 3. l’ebe ascoltato: ‘lo sentì’. 4. ancora lui: ‘anche lui’.
34. Il tema dell’inerme ucciso a tradimento durante una partita di caccia si trova anche nel Buovo d’Antona (I, 42-48). 1. ‘Poi si voltò verso Grifone’. P, seguito dall’edizione Tissoni Benvenuti-Montagnani, ha Griphon; si preferisce la lezione metricamente più regolare degli altri testimoni. 2. primeramente: ‘per la prima volta’. 4. non sciò andar nïente: ‘non conosco la strada per nulla’. 5. vengon ’ arivare: ‘arrivano’; perifrasi francesizzante (MENGALDO 1963, p. 340). 7. ‘e, a farla breve’. 8. Ociserlo: ‘lo uccisero’.
35. 2. lassàr: ‘lasciarono’. 3. sancia: ‘senza’. 4. fu de vita priva: ‘fu privata della vita’, cioè uccisa; priva è participio passato forte. 6. piangiva: con chiusura sett. della vocale tonica. 7. careze: ‘dimostrazioni d’affetto’ (TROLLI 2003, p. 108). 8. peregrino: ‘eccezionale’ (cfr. 11, 4).
36. 1. pensa lo oltragio: ‘ripensa all’oltraggio’. 2. falso traditore: formulare; cfr. I, iii, 27, 3. 3. Ha qualche probabilità di essere migliore la lezione degli altri testimoni: che da lei fo tanto amato. 4. li: ‘le’. 6. qual partito: ‘quale decisione’. 7-8: ‘Infine quell’animale che ha in sé più fiele (cioè più cattiveria) le offrì la sua volontà crudele’; quale sia l’animale si scoprirà nell’ottava successiva.
37. L’apertura presenta forti legami lessicali con la chiusura dell’ottava precedente, quasi a marcare un andamento didattico del discorso. L’animale più pericoloso di tutti è la moglie un tempo amata e poi disprezzata. La spiegazione è chiaramente ispirata a Ov. Ars II, 373-378: «Sed neque fulvus aper media tam saevus in ira est, / fulmineo rabidos cum rotat ore canes, / nec lea, cum catulis lactantibus ubera praebet, / nec brevis ignaro vipera laesa pede, / femina quam socii deprensa paelice lecti: / ardet et in vultu pignora mentis habet» (cfr. ZAMPESE 1994, p. 129, che vi avverte anche echi dalla Medea senecana). 6. calcata: ‘calpestata’. 7. moglia: metaplasmo di declinazione per moglie. fiera: ‘crudele’. 7-8. in quella fiata Che: ‘nel momento in cui’.
38. 3. P legge sentì’ e dà luogo a un quinario tronco entro il verso; si preferisce il passato remoto debole senteti ‘sentii’ degli altri testimoni. 4. venni: ‘divenni’. rabïosa: ‘furiosa’. 6. maravigliosa: ‘straordinaria’. 7. Il verso non è chiaro e va forse interpretato ‘la gelosia, dove regna, soffoca l’amore’. 8. in onta: ‘quanto a esecrabilità’ (TISSONI BENVENUTI 1999) o ‘per oltraggio, per vendetta’ (TROLLI 2003, p. 206).
39. Boiardo racconta l’uccisione dei due figli ricorrendo a fonti classiche diverse; soprattutto tragedie senecane tra le quali sembra prevalere il Thyestes. Il mito di riferimento è quello di Procne (Ov. Met. VI, 412-674), che uccide però il suo unico figlio, mentre Ercole (Sen. Hercules) e Medea (Sen. Medea; Ov. Met. VII, 396-397) li uccidono entrambi (cfr. MONTAGNANI 1990, pp. 71-72 e la sinossi di ZAMPESE 1994, pp. 136-137). 4. Le parole del figlio ricordano quelle del figlio di Procne che sta per essere ammazzato: «et “Mater! Mater!” clamantem et colla petentem / ense ferit Progne» (Ov. Met. VI, 640-641). 6. ‘feci sbattere la sua testa su un sasso vicino’. 7-8. La domanda, con il suo tono pacato, accresce l’orrore preannunciato. il mio dispeto: ‘l’oltraggio che avevo subito’. e non lo effeto: ‘e non la conclusione’.
40. vivendo: ‘vivo’; gerundio con valore di participio presente (cfr. I, i, 51, 8). 2. trassi: ‘estrassi’. 3. picollete: ‘piccole’. minuciai: ‘sminuzzai’. 4. Pensi: ‘pensa’; imperativo. avìa: ‘avevo, provavo’. 5. mi giova: ‘mi dà piacere’; latinismo. 6. Servai: ‘conservai’. 7. né anco pietade: ‘e neppure compassione’. 8. Servalle: ‘le conservai’.
41. 1. qua susso:‘quassù’, nella rocca. 2. che fece io:‘che avevo creato io’ (si insisterebbe sul conflitto interiore tra madre e carnefice) o ‘che avevo preparato io’ (si calcherebbe invece sugli aspetti più terrificanti, da macelleria, della vicenda). 3. oltragio dispetoso: si notino le occorrenze di questi due termini e dei loro affini concentrate in questo tratto (36, 1; 39, 7; 45, 1). 4. becaro: ‘macellaio’. coquo: ‘cuoco’; forma latineggiante. 5. doloroso: per TISSONI BENEVENUTI 1999 anticiperebbe il dolore che Marchino proverà alla scoperta della verità; TROLLI 2003, p. 139 chiosa ‘infelice, sventurato’. Mi chiedo se l’aggettivo non valga, come altrove, ‘che provoca dolore’ e dunque ‘malvagio’ (cfr. I, xviii, 9, 5). 6. con festa e gioco: dittologia sinonimica. 8. comportò veder: ‘tollerò di vedere’.
42. 4. longa stagion: ‘da molto tempo’. 8. morte: falsa restituzione della vocale atona finale; la lezione è di P: gli altri testimoni antichi hanno morto.
43. 1. ‘Ma ciò non accadde così rapidamente’. 4. in viso fello: ‘con volto crudele’. 7. ‘Benché, a causa della morte, entrambe fossero sfigurate’.
44. 1. il cren: ‘il crine, i capelli’. 5. sopolto: ‘sepolto’. 6. non aver più cura!: ‘non preoccupartene più!’; il tono è ironico. 8. Marchino è combattuto tra il desiderio di vendicarsi e la passione che Stella suscita in lui.
45. 2. crudo stracio: ‘crudele strazio’. 3. la faza fiorita: ‘il bel viso’. 4. afocato: ‘infuocato’. li dava impacio: ‘lo tratteneva’. 5. Delibra: ‘decide’. ala fenita: ‘infine’. 6. lo porìa far sacio?: ‘lo potrebbe soddisfare?’.
46. La scena che ha qui luogo conserva un’evidente memoria virgiliana: le gesta del re etrusco Mezenzio narrate in Aen. VIII, 485-487 («mortua quin etiam iungebat corpora vivis / componens manibusque manus atque oribus ora, / tormenti genus»; cfr. ZAMPESE 1994, p. 130), ma certo Boiardo poté conoscere altri episodi letterari di necrofilia. Oltre a quelli noti, si può ricordare il Danese in ottave (precisamente la redazione conservata nel ms. M. A. 563 della Biblioteca Angelo Mai di Bergamo, datato 1476), dove Agirone, signore di Castel Brandano, mostra a Orlando e ad altri paladini una bella giovane e un ragazzo imprigionati in una cisterna infestata da rospi e serpenti. Quindi li conduce a una tomba che rinchiude un uomo vivo e uno morto legati insieme. Questa la spiegazione: un giorno Agirone si era allontanato per andare a caccia e i suoi fratelli avevano tentato di violentare sua moglie. Il padre si era opposto e loro l’avevano ucciso. Al suo ritorno, Agirone si era vendicato legando uno dei due al cadavere del padre nella tomba e facendo gettare la moglie e l’altro fratello nella cisterna. Orlando ottiene allora che i prigionieri siano liberati (SANVISENTI 1901, p. 221). Va pure detto che un episodio di cronaca quattrocentesco presenta analogie con il racconto: nel 1450 Sigismondo Pandolfo Malatesta, signore di Rimini, avrebbe violentato una gentildonna tedesca prima e anche dopo averla uccisa (MONTAGNANI 2004, pp. XXVI-XXVII). 2. occise: ‘ucciso’; per la vocale atona finale cfr. 14, 8. 5. s’ebbe a diletare: ‘prese piacere’. 7. mena: ‘emana’. tutafiata: ‘continuamente’.
47. 3. comme fumo viste: ‘non appena fummo avvistati’; per viste cfr. occise (46, 2). 5. sparagna: ‘risparmia’. 6. usava con lei: ‘la possedeva’. tuttafiata: ‘ancora’. 7-8. Possibile memoria del gigante virgiliano Caco (Aen. VIII, 205-206: «ne quid inausum / aut intractatum scelerisve dolive fuisset»; cfr. ZAMPESE 1994, p. 131).
48. 1. vinémo: ‘venimmo, arrivammo’. 3. prese: ‘preso’. di: ‘con’. 7. adorno per ragione: ‘ornato adeguatamente’. 8. sieco: ‘con lei’.
49. Il mostro, che si annuncia con un urlo agghiacciante, è la rilettura boiardesca del Minotauro classico. La sua vicenda avrà altri punti di contatto con il mito (MONTAGNANI 1990, pp. 70-71). 2. scura: il colore riflette l’orrore della storia. 5. spietato: ‘terrificante’ (TROLLI 2003, p. 278). 6. vòl: ‘voglio’. 8. avìa lassati: ‘aveva lasciato’.
50. 3. ne fu… repentito: ‘se ne pentì’. 4. Però che: ‘perché’. 5. branca: ‘zampa’. hal gremito: ‘lo ha ghermito’. 6. poco de ora: ‘poco tempo’. 7. ‘lo fece a pezzi e lo tirò dentro’. possa: ‘poi’.
51. 1. sicuro: ‘coraggioso’. 2. chiesia: cfr. I, vii, 37, 5. 4. ‘(feci in modo che) la tomba si aprisse con un congegno’. 5. Ussìne: ‘ne uscì’. contrafatto: ‘deforme’. 8. ‘perché sarai ucciso da lui’.
52. 1. servàmo: ‘osservammo’. 5. tanto: cioè tanti. 7. Squàrtassi: ‘si squartano’.
53. 1. ismisurata: ‘oltre ogni ragione’. 3. casone: ‘motivo’. 4. ‘che generò la bestia contro cui non vale alcuna difesa’. 6. non mi far contesa: ‘non ti opporre (alla mia richiesta)’.
54. 1. Or pur ti vaglia: ‘Che ti serva!’. 4. se pote armare: ‘ci si può difendere con un’armatura’. 5. A te convien morir: ‘devi morire’. 7. per far il tuo pegio: ‘di farti la cosa peggiore’. 8. stenta: ‘tormenta’.
55. 3. alciata: ‘alzata’. 4. diverso e sfigurato: ‘orribile e mostruoso’; coppia sinonimica. 7. ‘né, pur stando tanto in alto, si sente al sicuro’. 8. Altri: ‘alcuni’.
56. 1. ‘Rinaldo è l’unico che non ha paura’. 3. che a voi tutti sia in talento: ‘che tutti desideriate’. 4. aperta: ‘per intero’. 5. il suo comenciamento: ‘la sua origine’. 6. Fièllo: ‘lo fece’.
57. 3. ‘la bocca era lunga sei palmi’. 4. megio: ‘mezzo’.
58. 1. come spata: ‘come una spada’. 2. Mugia: ‘muggisce’. 3. varïata: ‘variegata’.
59. 2. piastra o maglia: cfr. I, ii, 1, 5. durare: ‘resistere’. 4. porìa: ‘potrebbe’. 6. trovare: ‘assalire’.
60. 4. ciampata: ‘zampata’. 5. ‘non arrivò molto avanti quella volta’. 8. disarmò: ‘ruppe l’armatura’.
61. 1. non resta: ‘non si ferma’. 3. al drito dela testa: cfr. I, v, 40, 8. 5. ‘anzi, ogni colpo (di Rinaldo) provoca più furia (nel mostro)’ (TISSONI BENEVENUTI 1999). 6. se alenta: ‘diviene più lenta’ (TROLLI 2003, p. 81). 8. ‘con tale velocità che a malapena si riesce a vederla’.
62. 3. Védessi: ‘si vede’. 4. cresie: ‘cresce’.
63. 4. la lena: ‘la forza’.
64. 1. ‘Ora decide definitivamente di stordirlo’. 4. chi dé far:‘che cosa deve fare’.