CANTO DODICESIMO

Rinaldo e Fiordelisa si incamminano insieme condividendo la cavalcatura. Mentre si approssimano a un fitto bosco, la dama, per alleggerire la noia del viaggio, racconta una novella (1-4). Due amanti di nome Iroldo e Tisbina vivevano, qualche tempo prima, a Babilonia. Un giorno il generoso cavaliere Prasildo si innamorò di Tisbina e, da quel momento, fece di tutto per conquistarla. Ogni suo tentativo, però, fu vano e Prasildo cadde nella disperazione più nera, giungendo al proposito di uccidersi (5-17). Il giovane era solito uscire dalla città e dare libero sfogo ai suoi lamenti in un bosco, dove, per caso, una mattina fu udito da Iroldo e da Tisbina. I due, impietositisi da tanta sofferenza, decisero di alleviare i suoi dolori. Tisbina, senza dire a Prasildo di averlo ascoltato, gli promise il suo amore in cambio di un’impresa straordinaria (18-25). Nell’Africa occidentale si trova un giardino cui si accede per quattro porte, custodite rispettivamente dalla Vita, dalla Morte, dalla Povertà e dalla Ricchezza. In mezzo al giardino un albero meraviglioso genera perle e pietre preziose dai suoi rami d’oro: proprio di uno di quei rami aveva bisogno Tisbina. Prasildo, infiammato di speranza, partì subito, senza sapere che l’albero era custodito da Medusa, che provocava l’oblio a chiunque la guardasse. Iroldo e Tisbina contavano che il lungo viaggio o i poteri della prodigiosa guardiana facessero dimenticare a Prasildo l’oggetto dei suoi desideri (26-31). Lungo il cammino Prasildo incontrò un pellegrino che gli rivelò i segreti del giardino: si doveva entrare per la porta della Povertà e uscire per quella della Ricchezza; bisognava inoltre neutralizzare Medusa con uno specchio: la sua immagine riflessa l’avrebbe messa in fuga. Il cavaliere seguì i consigli e si impadronì del ramo d’oro. Quindi tornò a Babilonia (32-42). Tisbina e Iroldo, appreso l’accaduto, si disperarono: la donna, pur non potendo mancare alla parola data, era troppo innamorata del suo compagno per lasciarlo. Così i due decisero di suicidarsi bevendo un veleno che lasciasse comunque a Tisbina il tempo per mantenere la promessa fatta. La pozione fu richiesta a un vecchio medico (43-58). Assunto il veleno, Tisbina si recò da Prasildo e, mettendosi a sua disposizione, gli narrò del drammatico gesto compiuto con Iroldo. Prasildo, sconvolto, lasciò subito libera la dama senza nulla pretendere da lei se non un bacio. Tisbina tornò da Iroldo – che ammirò sommamente la cortesia del rivale – e cadde svenuta (59-77). Nel frattempo Prasildo si lamentava per la crudeltà del destino, ma fu raggiunto dal medico che aveva fornito la pozione a Tisbina. L’anziano dottore, sospettando che la donna stesse ordendo qualche delitto, le aveva dato un forte sonnifero in luogo del veleno richiesto. Avendola poi vista entrare in casa di Prasildo, era corso a metterlo in guardia temendo per lui (78-84). Prasildo si riconfortò e andò subito a casa di Iroldo per dargli la buona notizia. Iroldo, per ricompensare la grande generosità di Prasildo, gli cedette Tisbina e lasciò per sempre Babilonia. Prasildo fece dapprima qualche resistenza ma poi accettò. Tisbina, risvegliatasi, soffrì per la partenza di Iroldo ma finì per sposare Prasildo. Fiordelisa conclude riconoscendo la volubilità delle donne ma, mentre ancora sta parlando, si sente un grido fortissimo che proviene dal bosco (85-90).

1.
Io ve ho contato la bataglia scura
(Che ancor me trona in capo quel rumore!)
De Sacripante, ch’è sanza paura,
E de Agricane, il franco signore.
Più quella cruda voce non me dura,
E dolcemente canterò de amore.
Teneti voi, signor, nel pensier saldo
Dove io lassai parlarvi de Renaldo.

2.
La damisella subito dismonta,
E il palafreno a lui donar volìa;
Dicea Renaldo a lei: «Tu mi fai onta
Ad invitarmi a tanta vilania!».
Lei rispondeva con parole pronta
Che seco a piedi mai nol menarìa;
Al fin, per far questa novella corta,
Lui montò in sella e quella in groppa porta.

3.
La dama andava alquanto spaventata
Per la temenza che avìa del suo onore;
Ma poi che tuto il giorno ha cavalcata,
Né mai Renaldo ragionò de amore,
Alquanto nel parlar resicurata,
Disse a lui: «Cavalier pien di valore,
Or intrar nela selva se convene,
Che cento leghe di traverso tiene.

4.
Aciò che men te incresca il caminare
Per questa selva orribil e diserta,
Una novella te voglio contare,
Che intravenne: ed è ben cosa certa.
In Babilonia potraï arivare
Dov’è la istoria manifesta e aperta,
Però quel che io naro (è veritade)
Fu fatto dentro de quella citade.

5.
Un cavalier, che Iroldo era chiamato,
Ebbe una dama nomata Tisbina,
Ed era lui da questa tanto amato
Quanto Tristan da Isota la Regina.
Esso era ancor di leï inamorato,
Che sempre, dala sera ala matina,
E da il nascente giorno a nocte scura,
Sol di lei pensa e de altro non ha cura.

6.
Vicino ad essi un baron abitava,
Di Babilonia stimato il magiore;
E certamente ciò ben meritava,
Ch’è di cortesia pien e di valore.
Molta richeza, de che egli abondava,
Dispendea tuta quanta in farsi onore:
Piacevol nele feste, in arme fiero,
Ligiadro amante e franco cavaliero.

7.
Prasildo nominato era il barone,
Qual è invitato un giorno ad un giardino,
Dove Tisbina con altre persone
Faceva un gioco, in atto peregrino.
Era quel gioco di cotal ragione:
Che alcun li tenea in grembo il capo chino;
Quella ale spalle una palma voltava,
Chi quella batte a caso indivinava.

8.
Stava Prasildo a riguardar il gioco:
Tisbina ale percosse l’ha invitato,
E in conclusïon prese quel loco,
Perché fo prestamente indovinato.
Standoli in grembo sente sì gran foco
Nel cor, che non l’avrebe mai pensato.
Per non indovinar mette ogni cura,
Ché de levarsi quindi avìa paura.

9.
Ma poi che il gioco è partito, e la festa,
Non parte già la fiama da il suo core,
Ma tuto il giorno intégro lo molesta,
La note lo assalisse in più furore.
Ora quella cagion ritrova, or questa
Che al volto li è fugito ogni colore,
Che la quïete de il dormir gli è tolta,
Né trova il loco, e ben spesso si volta.

10.
Ora li par la piuma assai più dura
Che non sòl apparer un saxo vivo.
Cresce nel pecto la vivace cura,
Che de ogni altro pensier il cor l’ha privo:
Sospira giorno e notte a dismisura,
Con quella affectïon che io non descrivo,
Perché descriver non si può lo amore
A chi nol senti e a cui non l’ha nel core.

11.
E corenti cavagli, e cani arditi
De che molto piacer prender solìa,
Li son al tuto de il pensier fugiti:
Or se dilette in dolce compagnia,
Spesso festigia e fa molti conviti,
Versi compone e canta in melodia;
Giostra sovente ed entra a’ torniamenti
Con gran destrieri e richi paramenti.

12.
E benché pria cortese fosse assai,
Or è cento per un moltiplicato,
Ché la vertute cresce sempremai
Che se ritrova l’omo inamorato,
E nela vita mia già non trovai
Un ben che per Amor sia rio tornato:
Ma Prasildo, ch’è tanto d’Amor prese,
Sopra a quel che se stima fo cortese.

13.
Egli ha trovata una sua messagera,
Che avea molta amicicia con Tisbina,
Che la combate e il matino e la sera,
Né per una repulsa se rafina.
Ma poco vien a dir, ché quela altera
A pregi né a pietade mai se inchina;
Perché sempre enterviene, in veritate,
Che la altereza è gionta con beltate.

14.
Quante volte li disse: “O bella dama,
Cognosci l’ora dela tua ventura,
Dapoiché un tal baron più che sé te ama,
Che non ha il ciel più vaga creatura;
Forsi anco avra’ di questo tempo brama,
Che il felice destin sempre non dura:
Prende diletto mentre sei su il verde,
Che lo aùto piacer mai non se perde!

15.
Questa età giovenil, che è sì zogliosa,
Tutta in diletto consumar si deve,
Perché quasi in un ponto c’è nascosa:
Comme disolve il sol la bianca neve,
Comme in un giorno la vermiglia rosa
Perde il vago color, in tempo breve,
Così fuge la età come un baleno,
E non se può tenir, che non ha freno!”.

16.
Spesso con queste e con altre parole
Era Tisbina combatuta invano.
Ma, quale in prato le fresche vïole
Nel tempo fredo palide si fano,
Come il splendido giazo al vivo sole,
Cotal si disfacea il baron soprano:
E’ conduto era a sì malvagia sorte
Che altro ristor non spera che la morte.

17.
Non più festegia sì come era usato:
In odio ha ogni dileto e ancor sé stesso;
Palido molto e magro è diventato,
Né quel che esser solìa pareva adesso.
Altro diporto non ha ritrovato,
Se non che dela terra usiva spesso,
E solìa solo in un boscheto andare
De il suo crudel amore a lamentare.

18.
Tra l’altre volte avenne una matina
Che Iroldo in quel boscheto a cacia andava,
E avea seco la bella Tisbina.
E cossì andando, ciascun ascoltava
Pianto diroto con voce mischina:
Praseldo sì soave lamentava,
E sì dolce parole al dir gli cade
Che avrìa speciato un saxo di pietade.

19.
“Odeti, fior, e voi, selve,” dicìa
“Poiché quella crudel più non me ascolta:
Diati odïenza alla sventura mia!
Tu, sol, che hai mo’ de il ciel la note tolta,
Voi, chiare stelle, e luna che vai via,
Oditi il mio dolor solo una volta:
Che in queste voce estreme hagio a fenire
Con cruda morte il longo mio martire!

20.
Cossì farò contenta quella altera
A cui la vita mia tanto dispiace,
Poiché ha voluto il Ciel una alma fiera
Coprir in viso de pietose face.
Essa ha diletto che un suo servo piera,
E io me occiderò, poiché li piace;
Né de altre cose hagio io magior diletto
Che di poter piacer nel suo cospeto!

21.
Ma sia la morte mia, per Dio, nascosa
Tra queste selve, e non se sapia mai,
Ché la mia sorte è tanto dolorosa
(Né mai palese non me lamentai)
Che quella dama in vista gratïosa
Potrìa de crudeltà colparsi assai,
E io cossì crudel l’amo a gran torto,
E amarola ancor, poi che io sia morto!”

22.
Con più parole assai se lamentava
Quel baron franco con voce tapina,
E da il fianco la spada denudava,
Palido assai per la morte vicina;
E il suo car dileto ognor chiamava:
Morir volea nel nome de Tisbina,
Ché, nomandola spesso, gli era aviso
Andar con quel bel nome in Paradiso.

23.
Ma essa col suo amante ha ben inteso
Di quel baron il suo pianto focoso:
Iroldo di pietade è tanto aceso
Che ne avea il viso tutto lacrimoso;
E con la dama ha già partito preso
De riparare il caso doloroso.
Essendo Iroldo nascoso rimaso,
Mostra Tisbina agionger quivi a caso,

24.
Né mostra aver inteso quei richiami,
Né che tanto crudel l’abia nomata;
Ma vedendol giacer tra i verdi rami
Quasi smarito, alquanto se è firmata;
Poi disse a lui: “Praseldo, se tu me ami
Come già dimostrasti averme amata,
A tal besogni non me abandonare,
Perché altramente io non posso campare.

25.
E se io non fosse al’ultimo partito
Insieme dela vita e del’onore,
Io non farebe a te cotal invito:
Ché non è al mondo vergogna magiore
Ca arichieder colui ch’hai deservito.
Tu m’hai portato già cotanto amore,
E io fo’ sempre a te tanto spietata;
Ma ancor con tempo te sarò ben grata.

26.
Ciò te prometo sula fede mia,
E già del’amor mio te fo securo,
Pur quel che io chegio da te fato sia.
Or odi, e non ti para il fatto duro:
Oltra ala selva dela Barbarìa
È un bel giardin, e ha di fero il muro;
In esso intrar se può per quatro porte.
L’una la Vita tien, l’altra la Morte;

27.
Un’altra Povertà, l’altra Richeza:
Convien chi ve entra ala opposita ussire.
In megio è un tronco in smisurata alteza
Quanto può una sagita in su sallire;
Mirabilmente quel’arbor se apreza,
Che sempre perle getta nel fiorire,
Ed è chiamato il Tronco de il Tesoro,
Che ha pomi di smiraldi e rami d’oro.

28.
Di questo un ramo mi convien avere,
Altramente son streta a casi gravi.
Ora palese ben potrò vedere
Se tanto me ami quanto demostravi.
Ma se impetro da te questo apiazere,
Più te amerò che tu me non amavi;
E mia persona ti darò per merto
Di tal servigio, tientine ben certo”.

29.
Quando Praseldo intende la speranza
Esserli data di cotanto amore,
De ardire e de desio sí stesso avanza:
Promete il tuto, senza alcun timore.
Cossì promesso avrìa senza mancanza
Tute le stelle e il ciel e il suo splendore;
E l’aria tuta, con la terra e il mare,
Avrìa promesso senza dubitare.

30.
Sencia altro indugio si pone a camino,
Lassando ivi colei che cotanto ama;
In abito va lui de peregrino.
Or sapiati che Iroldo e la sua dama
Mandavano Prasildo a quel giardino
Che l’Orto di Medusa ancor si chiama,
Aciò che il molto tempo, al longo andare,
Se agia Tisbina delo animo a trare.

31.
Oltra di ciò, quando pur gionto sia,
Era quella Medusa una dongella
Che al Tronco dil Tesor stava al’ombria:
Chi prima vede la sua facia bella,
Scòrdassi la cagion dela sua via;
Ma chionque la saluta o li favella,
E chi la tocca, e chi li sede a lato,
Al tuto scorda de il tempo passato.

32.
Quello animoso amante via cavalca,
Soletto, over d’Amor acompagnato.
Il bracio de il Mar Rosso in nave varca,
E già tuto lo Egipto avìa passato;
Ed era gionto nei monti di Barca,
Dove un palmier canuto ebe trovato,
E ragionando assai con quel vechione,
Dela sua andata dice la cagione.

33.
Diceva il vechio a lui: “Molta ventura
Or t’ha conduto meco a ragionare;
Ma la tua mente pavida assicura,
Che io te vuò far il ramo guadagnare.
Tu sol de intrar al’Orto pone cura,
Ma quivi dentro assai è più che fare.
Di Vita e Morte la porta non si usa,
E sol per Povertà viensi a Medusa.

34.
Di questa dama tu non sciai la istoria,
Ché ragionato non me n’hai nïente:
Ma questa è la dongella che se gloria
Di aver in guardia quel tronco lucente.
Chiunque la vede perde la memoria
E resta sbigotito nela mente;
Ma se lei stessa vede la sua faza,
Scorda il tesoro e de il giardin si caza.

35.
A te bisogna un spechio aver per scudo,
Dove la dama veda sua beltate;
Sanza arme andraï e de ogni membro nudo,
Perché convien intrar per Povertate:
Di quella porta è lo aspeto più crudo
Che altra cosa de il mondo, in veritate,
Ché tuto il mal si trova da quel lato
E, quel ch’è pegio, ognon vien caleffato.

36.
Ma al’opposita porta, ove haï a ussire,
Ritrovarai sederse la Richeza,
Odiata assai, ma non se gli òssa a dire:
Lei ciò non cura e ciascadun dispreza.
Parte de il ramo qui convienci offrire,
Né si passa altramente quella alteza,
Perché Avaricia apresso li sede:
Benché abia molto, sempre più richiede”.

37.
Praseldo ha inteso il fatto tuto aperto
Di quel giardino, e ringratiò il palmero.
Indi se parte e, passato il deserto,
In trenta giorni gionse al bel verzero,
Ed essendo de il fatto ben esperto,
Intra per Povertate de ligero:
Maï ad alcun se chiude quela porta,
Anci vi è sempre chi de intrar conforta.

38.
Sembrava quel giardino un paradiso
Alli arborscelli, ai fiori, alla verdura.
De un spechio avìa il baron coperto il viso,
Per non veder Medusa e sua figura;
E prese nelo andar sì fato aviso
Che al’albor d’oro agionse per ventura.
La dama che apogiata al tronco stava
Alciando il capo nel spechio mirava.

39.
Come se véde, fu gran maraviglia,
Che esser credéte quel che già non era,
E la sua faza candida e vermiglia
Parve di serpe teribil e fiera.
Lei paurosa a fugir se consiglia,
E via per l’aria se ne va ligera.
Il baron franco, che partir la sente,
Li ochi disolse a sì subitamente.

40.
Quinci andò al Tronco, poi ch’era fugita
Quella Medusa, falsa incantatrice,
Che, dela sua figura sbigotita,
Avea lassata la rica radice.
Praseldo un’alta rama ebe rapita,
E smontò in freta, e ben si tien felice.
Venne ala porta che guarda Richeza,
Che non cura vertù o gentileza.

41.
Tuta de calamita era la intrata,
Né sanza gran romor se pote aprire;
Il più de il tempo se vede serrata,
Fraude e Fatica a quella fa venire;
Pur se ritrova aperta alcuna fiata,
Ma con molta ventura convien gire.
Praseldo la trovò quel giorno aperta
Perché de megio il ramo fece offerta.

42.
De qui partito, torna a caminare.
Or pensa, cavalier, se egli è contento,
Che mai non vede l’ora de arivare
In Babilonia, e parli un giorno cento!
Passa per Nubia, per tempo avanzare,
E varcò el Mar de Arabia con bon vento.
Sì giorno e notte con fretta camina
Che a Babilonia gionse una matina.

43.
A quella dama poi fece asapere
Come ha sua voluntate a bon fin messa
E, quando voglia il bel ramo vedere,
Elegia il loco e il tempo per sé stessa.
Ben gli ricorda ancor comme è dovere
Che li sia atesa l’alta sua promessa;
E quando quella volesse disdire,
Sàpiassi certo di farlo morire.

44.
Molto cordoglio e pena smisurata
Prese di questo la bella Tisbina;
Gettasi al letto quella sconsolata,
E giorno e notte de pianger non fina.
“Ahi, lassa me!” dicea “perché fui nata?
Ché non morìte in cuna picolina?
A ciascadun dolor rimedio è morte,
Se non al mio, ch’è fuor de ogni altra sorte!

45.
Ché se io me occido, e’ manca la mia fede:
Non se copre per questo il mio fallire.
Deh, quanta è paza quella alma che crede
Che Amor non possa ogni cosa compire!
E cielo e terra tien soto il suo piede:
Lui tutto il senno dona, e lui lo ardire.
Praseldo da Medusa è rivenuto:
Or chi l’avrebe mai in prima creduto?

46.
Iroldo sventurato, or che farai
Dapoi che avrai la tua Tisbina persa?
Benché tu la cagion data te n’hai:
Tu nel mar di sventura m’hai sumersa!
Ahi, me dolente, perché mai parlai?
Perché non fu mia lingua alor riversa
Tuta in sé stessa, e perse le parole,
Quando io promessi quel che ora mi dole?”

47.
Aveva Iroldo il lamento ascoltato
Che facea la fanciulla sopra al lecto,
Però che improviso era arivato,
E avìa inteso ciò ch’ella avìa deto.
Sanza parlar a leï fo accostato;
Ténsela in brazo e strenge peto a peto;
Né solo una parola potean dire,
Ma cossì stretti si credean morire.

48.
E’ sembravan dui giazi posti al sole,
Tanto pianto negli ochi gli abundava;
La voce venìa men ale parole,
Ma pur Iroldo al fin cossì parlava:
“Sopra ogni altro dolor al cor mi dole
Che de il mio dispiacer tanto ti grava,
Perché aver non potrebi alcun dispeto
Che a me gravassi essendo a te dileto.

49.
Ma tu cognosci ben, anima mia,
Che hai tanto senno e tal discretïone,
Che comme Amor se gionge a Gelosia,
Non è nel mondo magior passïone.
Or cossì parve ala sventura ria
Che io stesso de il mio mal fossi cagione:
Io sol te indusse la promessa a fare;
Lascia me solo adunque lamentare!

50.
Soletto portar debbo questa pena,
Ché te fece falir al tuo mal grato;
Ma pregote, per tua faza serena,
E per lo amor che un tempo m’hai portato,
Che la promessa atendi, intégra e piena,
E sia Prasildo ben rimeritato
Dela fatica e de il periglio grande
A che se pose per le tue dimande.

51.
Ma piaciati indugiar finch’io sia morto,
Che sarà solamente questo giorno!
Faciami quanto vuol Fortuna torto,
Che io non avrò mai, vivo, questo scorno.
E nelo ’nferno andrò con tal conforto
De aver goduto solo il viso adorno;
Ma quando ancor saprò che me sei tolta,
Morò, se morir puossi una altra volta!”.

52.
Più longo avrìa ancor fato il suo lamento,
Ma la voce mancò per gran dolore.
Stava smarito e sanza sentimento,
Come de il peto avesse trato il core.
Né avea de lui Tisbina men tormento,
E avea perso in volto ogni colore;
Ma avendo esso la facia a lei voltata,
Cossì rispose con voce affannata:

53.
“Adunque credi, ingrata a tante prove,
Che io mai potesse sanza te campare?
Dove è l’amor che me portavi, e dove
È quel che spesso soleva iurare:
Che se tu avesti un ciel, o tuti nove,
Non vi potresti me sanza abitare?
Or te pensi de andare nelo Inferno,
E me lasciar in terra in pianto eterno?

54.
Io foi e son tua ancor, mentre son viva,
E sempre sarò tua poi che fia morta,
Se quel morir de amor l’alma non priva,
Se non è al tuto di memoria tolta.
Non vòi che mai si dica o mai si scriva:
‘Tisbina sanza Iroldo si conforta’.
Vero è che de tua morte non mi doglio,
Perché ancor io più in vita star non volio.

55.
Tanto quella convengo differire
Che io solva di Prasildo la promessa,
Quella promessa che mi fa morire;
Poi me darò la morte per me stessa.
Con te nel’altro mondo i’ vuò venire,
E teco in un sepolcro sarò messa.
Così te prego ancora e strengo forte
Che morir meco vogli de una morte.

56.
E questo fia de un piacevol veneno,
Il qual sia con tal arte temperato
Che il spirto nostro a un ponto venga meno
E sia cinque ore il tempo terminato,
Che in altro tanto fia compito e pieno
Quel che a Prasildo fo per me giurato.
Poi con morte quïeta estinto fia
Il mal che facto n’ha nostra pacìa”.

57.
Cossì dela sua morte ordine dano
Quei dui leal amanti e sventurati,
E col viso apogiato insieme stano,
Or più che prima nel pianto afocati.
Né l’un dal’altro dipartir si sano,
Ma cossì streti insieme e abrazati
Per il venen mandò prima Tisbina
Ad uno vechio doctor di medicina;

58.
Il qual diede la coppa temperata
Sanza altro dimandar ala richiesta.
Iroldo, poi che assai l’ebe mirata,
Disse: “Orsù, che altra via non c’è che questa
A dar risor al’alma adolorata!
Non mi sarà Fortuna più molesta,
Ché Morte sua possanza al tuto scerba:
Cossì si doma sol quella superba!”.

59.
E poi che per mitade ebbe sorbito
Sicuramente il succo venenoso,
A Tisbina lo porsi sbigotito:
Lui non è di sua morte pauroso,
Ma non ardisse a lei far quel’invito.
Però volgendo il viso lacrimoso,
Mirando a terra, la coppa gli porse,
E de morir alora stete in forse,

60.
Non de il toxico già, ma per dolore,
Che il venen terminato esser dovìa.
Ora Tisbina con frigido core,
Con man tremante la coppa prendìa;
E biastemando la Fortuna e Amore
Che a fin tanto crudiel li conducìa,
Bevéte il succo che ivi era rimaso,
Infino al fondo de il lucente vaso.

61.
Iroldo si coperse il capo e il volto,
E già con li ochii non volìa vedere
Che il suo caro desio li fosse tolto.
Or si comencia Tisbina a dolere,
Ché non è il suo cordoglio ancor dissolto:
Nulla la morte li facea al parere
Il convenirgli da Prasildo gire.
Questa gran doglia avanza ogni martire.

62.
Nulla di manco, per servar sua fede,
A casa de il baron essa n’è andata
E di parlar a lui secreto chiede;
Era di giorno, e leï acompagnata.
A pena che Praseldo questo crede!
E’ fatto s’è incontra in sula intrata:
Quanto più pote la prese a onorare,
Né di vergogna scià quel che si fare.

63.
Ma poi che solo in un loco secreto
Se fo con lei reduto ultimamente,
Con un dolce parlar e modo queto
E quanto più sapea piacevolmente,
Se forza di tornarli il viso lieto
Che lacrimoso a sé vede presente:
Lui per vergogna ciò crede avenire,
Né il breve tempo scià de il suo morire.

64.
Essa da lui al fin fu scongiurata,
Per quela cosa che più al mondo amava,
Che li dicesse perché era turbata
E di tal noglia piena si mostrava,
Ad essa proferendo tutafiata
Voler morir per lei, se il bisognava;
E a risposta tanto la stringìa
Che odéte quel che odir già non volìa,

65.
Perché Tisbina li disse: “Lo amore
Che con tanta fatica ha’ guadagnato
È in tua posanza, e sarà ancor quatro ore:
Per mantenirte quel che t’ho giurato
Perdo la vita e ho perso l’onore;
Ma quel che è più, colui che tanto ho amato
Perdo con sieco, e lasso questo mondo,
E a ti, cui tanto piacque, me nascondo.

66.
Se io fosse stata in alcun tempo mia,
Avendomi tu amata sì comme hai,
Avrìa comessa gran discortesia
A non averte amato pur assai.
Ma io non poteva e non si convenìa:
Dui non se pono amare e tu lo sai.
Amor non ti portai giamai, barone,
Ma sempre ebbe di te compassïone.

67.
E quelo aver pietà dela tua sorte
M’ha di questa miseria cente intorno,
Ché il tuo lamento me strensi sì forte,
Alora che te oldeva al bosco adorno,
Che provar mi convien che cosa è morte
Prima che a sera gionga questo giorno!”.
Con più parole poi raconta a pieno
Sì comme Iroldo e lei preso ha il veleno.

68.
Prasildo ha di tal doglia il cor ferito,
Odendo questo che la dama dice,
Che sta sanza parlar, isbigotito.
E dove si credeva esser felice
Védesse gionto al’ultimo partito:
Quella che de il suo core è la radice,
Colei che la sua vita in viso porta,
Védesse avanti ali ochii quasi morta.

69.
“Non è piaciuto a Dio, né a te, Tisbina,
Dela mia cortesia farme la prova,”
Dice il barone “aciò che una roina
De Amor crudiel il nostro tempo trova.
Gionger dui amanti di morte tapina
Non era al mondo prima cossa nova;
Ora tre insieme, sì comme io discerno,
Saran stasere gionti nelo Inferno!

70.
Di poca fede, or perché dubitasti
Di richiedermi in don la tua promessa?
Tu dice che nel bosco me ascoltasti
Con gran pietate. Ahi, fiera! Il ver confessa,
Ché già nol credo; e queste prova basti:
Che, per farmi morir, morta hai te stessa!
Or che me solo almanco avessi spento,
Che io non sentesse ancor di te tormento!

71.
Tanto te spiacque che io te volsi amare,
Crudiel, che per fugirmi hai morte presa!
Sasselo Idio che io non puòte lassare,
Benché io provasse, di amarti l’impresa.
Me nel bosco dovevi abandonare,
Se de amarmi cotanto al cor ti pesa.
Chi te forciava de quel proferire,
Che poi con meco al fin te fa morire?

72.
Io non volëa alcun tuo dispiacere,
Né lo volse giamai, né il voglio adesso.
Che tu me amasse cercai di ottenere,
Né altro da te mai chiesi per espresso;
E se altrimenti ti desti a vedere,
Di scoprirne la prova seï apresso,
Perché io te asolvo da ogni giuramento,
E star e andar ne pòi a tuo talento!”

73.
Tisbina, che il baron cortese odìa,
Di lui fatta pietose, prese a dire:
“Da te son venta in tanta cortesia
Che per te solo io non vorìa morire.
Volse Fortuna che altramenti sia,
Né i’ posso farti un longo proferire,
Però che il viver mio debe esser poco:
Ma in questo tempo andrìa per te nel foco!”.

74.
Prasildo di gran doglia sì se accese,
Avendo già sua morte destinata,
Che le dolce parole non intese,
E con mente stordita e adolorata
Un bàsso solamente da lei prese,
Poi l’ebe a suo piacer licenzïata;
E lui se levò ancor de il suo cospetto,
Piangendo forte se pose su il letto.

75.
Poi che Tisbina ad Iroldo fo gionta,
Ritrovandol col capo ancor involto,
La cortesia di quel baron li conta
E como solo ha un baso da lei tolto.
Iroldo da il suo leto a terra smonta
E con man gionte al ciel adreza il volto:
Inginochiato con molta umiltade
Prega Dio per mercede e per pietate

76.
Che lui renda a Prasildo guiderdone
Di quella cortesia dismisurata.
Ma mentre che lui fa la oratïone,
Cade Tisbina, e pare adormentata.
E fece il succo la operatïone
Più presto nela dama delicata,
Ché un debil cor più presto sente morte,
E ogni passïon, che un duro e forte.

77.
Iroldo nel suo viso vien un gelo,
Comme vede la dama a terra andare,
Che avea davanti agli ochi fato un velo:
Dormir soave e non già morte appare.
Crudel chiama lui Dio, crudel il Cielo,
Che tanto l’hanno preso ad oltragiare;
Chiama dura Fortuna e duro Amore
Che non lo occide, e ha tanto dolore.

78.
Lasciàn dolersi questo desperato:
Stimar pòi, cavalier, come egli stava.
Prasildo nela ciambra se è serrato
E cossì lacrimando ragionava:
“Fu maï in terra un altro inamorato
Percosso da fortuna tanto prava
Che, si io voglio la dama mia seguire,
In picol tempo mi convien morire?

79.
Cossì quel dispietato avrìa solacio,
Ch’è tanto amaro, e noi chiamamo Amore.
Prèndeti ogi piacer de il mio gran stracio:
Vien, sàciati, crudel, del mio dolore!
Ma al tuo mal grato io ne ussirò de impacio,
Che aver non posso un partito pegiore,
E minor pene assai son nelo Inferno
Che nel tuo falso regno e mal governo!”.

80.
Mentre che si lamenta quel barone,
Eccoti quivi un medico arrivare;
Dimanda di Prasildo quel vechione,
Ma non ardisse alcuno ad esso entrare.
Dicea il vechio: “I’ ho streta cagione:
Ad ogni modo li voglio parlare;
E altramente (io vi ragiono scorto)
Il signor vostro questa sera è morto”.

81.
Il camarier, che intese il caso grave,
De intrar dentro ala zambra prese ardire
(Questo teneva sempre un’altra chiave
E a sua posta potea intrar e ussire);
E da Prasildo con parlar soave
Impetra che quel vechio voglia odire:
Benché ne fece molta resistenza,
Pur lo condusse nela sua presenza.

82.
Disse el medico a lui: “Caro signore,
Sempremai te ho amato e reverito;
Ora ho molto sospeto, anci timore,
Che tu non sia crudelmente tradito,
Però che gelosia, sdegno e amore
E de una dama il mobile appetito
(Che raro ha tuto il senno naturale)
Possono indur ad ogni estremo male.

83.
E ciò te dico perché stamatina
Mi fo veneno occulto domandato
Per una camariera di Tisbina.
Or poco avanti me fu racontato
Che qua ne venne a te, la mala spina.
Io tuto il facto ho ben indovinato:
Per te lo tolse, e tu da lei ti guarda;
Làssale tute, che il mal foco l’arda!

84.
Ma non sospicar già per questa volta,
Che in veritade io non gli die’ veneno;
E se quella bevanda forsi hai tolta,
Dormirai da cinque ore, o poco meno.
Cossì quella malvagia sia sopolta
Con tute l’altre de che il mondo è pieno:
Dico le triste, che, in questa citate,
Una vi è bona e cento scelerate!”.

85.
Quando Prasildo intende le parole,
Par che se avivi il tramortito core:
Comme doppo la piogia le vïole
Se abbatino, e la rosa e il bianco fiore,
Poi, quando al ciel sereno appare il sole,
Apren le foglie e torna il bel colore,
Cossì Prasildo ala lieta novella
Dentro si alegra e nel viso se abella.

86.
Poi ch’ebe assai quel vechio ringraciato,
A casa de Tisbina se ne andava;
E ritrovando Iroldo disperato,
Sì comme stava il facto li contava.
Ora pensati se costui fu grato:
Colei che più che la sua vita amava
Vuol che nel tuto de Prasildo sia,
Per render merto a sua gran cortesia.

87.
Praseldo ne fié molta resistenza,
Ma mal se può disdir quel che se vòle!
E benché ciascun stesse in continenza,
Comme tra dui cortesi usar se sòle,
Pur stete fermo Iroldo ala sua intenza
Sine alla fin e, in poche parole,
Lascia a Praseldo la dama piacente;
Lui de quindi se parte incontinente.

88.
Di Babilonia se volse partire
Per non tornarvi mai nela sua vita.
Dapoi Tisbina s’ebe a resentire;
La cosa seppe, sì comme era gita,
E benché ne sentisse gran martire
E fosse alcuna volta tramortita,
Pur, cognoscendo che quel era gito,
Né vi è rimedio, prese altro partito.

89.
Ciascuna dama è molle e tenerina,
Cossì de il corpo comme dela mente,
E simigliante dela fresca brina,
Che non aspeta il caldo, al sol lucente.
Tutte siàn fatte comme fu Tisbina,
Che non volse bataglia per nïente,
Ma al primo assalto subito se rese,
E per marito il bel Praseldo prese».

90.
Parlava la dongella tuttafiata,
Quando davanti a lor, nel bosco folto,
Odirno una alta voce e smisurata:
La damisella sbigotita è in volto,
Benché Ranaldo l’abia confortata.
Or questo canto è stato longo molto,
Ma a cui spiace la sua quantitate,
Lassi una parte e lege la mitate!

1. L’esordio dichiara un radicale mutamento nella narrazione, annunciato peraltro alla fine del canto precedente. La meravigliosa novella che occupa tutto questo segmento ha nell’amore il suo movente, per questo Boiardo la può definire un canto amoroso (v. 6). 1. scura: ‘terribile’. 2. trona: ‘rintrona, risuona’; cfr. tron ‘tuono’ (I, i, 74, 6). 4. Dialefe tra Agricane e il franco: ‘valoroso’. 5. ‘Quella voce aspra non mi dura più’: era lo stile adatto a raccontare la guerra. 7. Teneti… nel pensier saldo: ‘tornate con la memoria’. 8. lassai parlarvi de Renaldo: ‘interruppi il racconto relativo a Rinaldo’.

2. 2. palafreno: ‘cavallo’ (cfr. I, ii, 55, 2). 3. Tu mi fai onta: ‘tu mi offendi’. 4. vilania: ‘scortesia’. È intollerabile che il cavaliere proceda a cavallo e la dama a piedi. 6. nol menarìa: ‘non lo condurrebbe’. 7. ‘Alla fine, per farla breve’.

3. 2. temenza: ‘paura’, che Rinaldo la insidiasse. 4. ragionò: ‘parlò’. 5. resicurata: ‘rassicurata’. 7. se convene: ‘bisogna’. 8. ‘che si estende per cento leghe’; cioè circa cinquecento chilometri (iperbolico).

4. La novella raccontata per rendere il viaggio meno noioso è un espediente narrativo antico e diffuso; tra i precedenti si può citare la Metamorfosi di Apuleio (I, 2: ZAMPESE 1994, p. 151). Boiardo vi ricorrerà anche in seguito (I, xxi-xxii; II, xxvi). L’inserimento di novelle nel romanzo cavalleresco avrà molta fortuna. 4. intravenne: ‘accadde’. 6. manifesta e aperta: ‘nota a tutti’; dittologia sinonimica. 7. Però: ‘perché’. 8. Fu fatto: ‘accadde’.

5. La novella che sta per essere raccontata è il risultato di un complesso tour de force intertestuale. Per quanto riguarda la trama, le fonti più evidenti sono boccacciane, in particolare le novelle V e VIII della decima giornata del Decameron, nonché la storia di Tarolfo nel Filocolo (IV, iv) e la gara tra Arcita e Palemone per Emilia nel Teseida. Tra queste, la prima novella ricordata è la più rilevante: i protagonisti si chiamano Dianora, Gilberto e Ansaldo e la vicenda si svolge a Udine. Boiardo interpreta la materia in chiave più favolosa, preferendo un’ambientazione esotica e un gusto più cortese, e modificando il finale. Vasta la bibliografia sull’argomento: una sintesi in TISSONI BENVENUTI 1999, ma si ricordino almeno RAJNA 1902; MORETTI 1970; DONNARUMMA 1992, pp. 590-593; FUMAGALLI 2009. 1. baron: ‘cavaliere’. 2. Tisbina: il nome ricorda quello dell’eroina tragica Tisbe e ne è un diminutivo, quasi un vezzeggiativo, forse non casuale. Anche la storia di Tisbina potrebbe concludersi con una morte prematura, ma il pericolo sarà scongiurato e il personaggio rivelerà un’indole più leggera del suo modello. Un fatto analogo si visto in Circella (cfr. I, vi, 49). 4. Ennesimo riferimento al ciclo arturiano. 5. ancor: ‘anche’. 7-8. Chiasmo e parallelismo; così sarà costruito anche il distico finale dell’ottava successiva, che porta in scena il terzo protagonista della novella.

6. 5. de che: ‘di cui’. 6. Dispendea: ‘spendeva’. 7. Chiasmo. fiero: ‘coraggioso’.

7. 4. in atto peregrino: ‘con atteggiamento grazioso’. 5. di cotal ragione: ‘di questo tipo’. 6-8. Il gioco, simile a quello a noi noto come “schiaffo del soldato”, prevedeva che i partecipanti, a turno, tenessero il volto coperto nel grembo di Tisbina e offrissero il palmo della mano perché un altro lo colpisse. Toccava poi allo schiaffeggiato indovinare chi l’avesse colpito.

8. 2. ale percosse: ‘a colpire’. 3. prese quel loco: cioè mise il capo in grembo a Tisbina. 4. indovinato: ‘scoperto’. 7. ‘Fa di tutto per non indovinare’. 8. quindi: ‘da lì’.

9. Prasildo si innamora di Tisbina e Boiardo inonda il testo di echi lirici (citando in più occasioni i propri Amorum libri) e del Boccaccio minore, senza dimenticare Petrarca e i classici. La prassi ricorda l’innamoramento di Orlando nei primi canti del romanzo. 1. partito: ‘finito’. 4. assalisse: ‘assale’. 6. Il pallore è un sintomo abituale della passione amorosa. 8. Né trova il loco: ‘e non trova pace’.

10. 3. vivace cura: ‘l’affanno amoroso’; cfr. «ché adesso infiama la vivace cura» (Al II, 56, 7). 4. il cor l’ha privo: ‘gli ha privato il cuore’. 6 affectïon: ‘sofferenza’. 7-8. Topos ricorrente: solo chi ha sperimentato l’amore può capirlo.

11. 1-3. I versi sono molto simili ad Al II, 50, 9-11 (TIZI 1988, p. 219), ma la contrapposizione tra la caccia (attività tipica dell’uomo non innamorato) e le cure amorose è un altro topos frequentissimo. 1. Chiasmo. 2. solìa: ‘soleva’. 4-8. Assai diffuso anche il tema per cui, nella fase immediatamente successiva all’innamoramento, l’uomo si dedica con generosità alla vita cortese, non escluse la composizione e l’esecuzione di canti assortiti. Precedenti clamorosi nel Filostrato e nel Teseida (DONNARUMMA 1992, p. 544). 4. se dilette: ‘si diletta’. 6. Chiasmo. 8. richi paramenti: ‘addobbi lussuosi’.

12. 1. pria: ‘prima’. 2. ‘lo è diventato cento volte di più’. 3. P, seguito dall’edizione Tissoni Benvenuti-Montagnani, ha vertù; si preferisce la lezione metricamente più regolare degli altri testimoni. la vertute: ‘il valore’. 6. sia rio tornato: ‘si sia trasformato in una cosa cattiva’. 7. ch’è tanto d’Amor prese: ‘che è tanto prigioniero d’Amore’. 8. ‘Fu cortese oltre quanto si possa immaginare’.

13. 1. una sua messagera:è topica pure la figura che cerca di aiutare l’innamorato a sedurre l’amata recando messaggi e dando consigli. Tra i precedenti si può annoverare Pandaro che, nel Filostrato, comunica a Criseide i sentimenti di Troiolo e la consiglia di assecondarli. 3. la combate: ‘tenta di persuaderla’. 4. ‘né la smette per il rifiuto (di Tisbina)’. 5. Ma poco vien a dir: ‘ma non serve a nulla’. 6. ‘non si piega né alle preghiere né alla compassione’; cfr. Al II, 44, 18: «per prieghi on per pietà benigna farsi». 7. enterviene: ‘accade’. 8. è gionta: ‘è unita’.

14. Questa ottava e la successiva insistono su un topos diffuso e spesso collegato al tentativo di seduzione di una giovane. Il consiglio è quello di cogliere al volo l’occasione propizia e di godere della gioia d’amore nell’età più verde. L’origine remota del tema potrebbe essere il carpe diem oraziano, ma lo si rinviene in molti testi più vicini a Boiardo, come il Filostrato e il rispetto continuato O trïonfante sopra ogni altra bella di Poliziano (molti riferimenti in TISSONI BENVENUTI 1999). 2. ‘riconosci il tuo momento fortunato’. 3. Dapoiché: ‘poiché’. 4. più vaga: ‘più bella’. 5. ‘forse un giorno avrai nostalgia di questo tempo’. 7. Prende: ‘prendi’. su il verde: ‘giovane’. 8. ‘che la gioia goduta non si perderà mai’.

15. 1. zogliosa: ‘gioiosa’. La convinzione che l’età giovanile vada trascorsa tra le gioie amorose è espressa più volte da Boiardo nel suo canzoniere (cfr. p. es. Al I, 1, 12-14). 3. quasi in un ponto: ‘all’improvviso’. La fugacità della giovinezza è un tema letterario di tutte le epoche. 4. disolve: ‘scioglie’. 5-7. Qui riecheggia il carme latino De rosis nascentibus, anonimo ma attribuito anche a Virgilio e ad Ausonio. 6. vago: ‘bello’. 8. tenir: ‘trattenere’.

16. 4. ‘nella stagione fredda diventano pallide’. 5. il splendido giazo: ‘il ghiaccio risplendente’. 6. soprano: ‘eccellente’.

17. 2. ancor: ‘anche’. 3. Pallore e magrezza sono i sintomi tipici dell’innamorato non corrisposto. 5. diporto: ‘svago’. 6. terra: ‘città’. 7. solìa: ‘soleva’. 8. lamentare: ‘lamentarsi’.

18. 5. mischina: ‘lamentosa’. 6. soave: ‘soavemente’. 7. gli cade: ‘gli escono’. 8. ‘che avrebbero spezzato un sasso per la compassione’; topos con molte attestazioni liriche (TISSONI BENVENUTI 1999).

19. L’appello alla natura circostante, invocata nei suoi vari elementi, è un motivo classico sfruttato anche dalla lirica volgare e, in particolare, da Boiardo negli Amorum libri (II, 40 ecc; cfr. TISSONI BENVENUTI 1999). 1. Odeti: ‘udite’; da notare la var. oditi al v. 6. 3. Diati: ‘date’. 7. ‘che in queste ultime parole terminerò’. 8. cruda: ‘violenta’.

20. 3. una alma fiera: ‘un’anima crudele’. 4. de pietose face: ‘con un aspetto compassionevole’. 5. piera: ‘perisca, muoia’. 8. ‘che di fare una cosa gradita al suo cospetto’. Anche il proposito di morire per compiacere alla crudeltà dell’amata e di tenere nascosta la causa della morte per non metterla in imbarazzo (come si leggerà nell’ottava seguente) si trova negli Amorum libri.

21. 4. palese: ‘palesemente’. 5. in vista gratïosa: ‘dall’aspetto benigno’. 6. ‘potrebbe accusarsi gravemente di crudeltà’. 8. amarola: ‘l’amerò’.

22. 2. tapina: ‘addolorata’. 7. nomandola: ‘nominandola’. gli era aviso: ‘pensava’.

23. 2. suo: pleonastico. 5. ha già partito preso: ‘ha già deciso’. 6. riparare il: ‘porre rimedio al’. 8. agionger quivi a caso: ‘di arrivare lì per caso’.

24. 1. quei richiami: ‘quelle invocazioni’. 2. nomata: ‘chiamata’. 7. a tal besogni: ‘in queste difficoltà’.

25. 1-2. ‘E se io non rischiassi di perdere insieme la vita e l’onore’. 3. non farebe: ‘non farei’. 5. ‘che chiedere aiuto a uno cui lo si è prima rifiutato’. 7. fo’: ‘fui’.

26. L’impresa che Tisbina chiede e che Prasildo porterà inopinatamente a termine è il frutto di una spericolata contaminazione di fonti e di modelli. È presente il richiamo alle fatiche di Ercole (il recupero delle mele d’oro nel Giardino delle Esperidi), ma anche il mito di Perseo che sconfigge Medusa con l’espediente dello specchio. Il giardino stesso in cui Prasildo compirà l’avventura, oltre a quello delle Esperidi, ne rammenta uno simile nel Roman de la Rose (vv. 10051-10267), poema allegorico antico francese ancora in circolazione nell’Italia quattrocentesca. Proprio dalla letteratura allegorica Boiardo riprende l’impostazione del racconto e, soprattutto, i significati delle porte del giardino. 3. Pur: ‘purché’. chegio: ‘chiedo’ (cfr. I, xi, 12, 5). 4. non ti para: ‘non ti sembri’. duro: ‘difficile’. 5. Barbarìa: terra dei Berberi, l’attuale Marocco.

27. 2. ‘chi entra da una porta deve uscire da quella opposta’. 3. In megio: ‘al centro’. 4. ‘(alto quanto) può salire una freccia’. 5. se apreza: ‘è prezioso’. 8. Il verso è molto vicino a POLIZIANO, Stanze, I, 94, 2: «che fronde ha di smeraldo e pomi d’oro» (DONNARUMMA 1992, pp. 578-579).

28. 1. mi convien: ‘devo’. 2. ‘altrimenti sono in grave pericolo’. 5. impetro: ‘ottengo’. apiazere: ‘piacere’. 7. per merto: ‘per ricompensa’.

29. 3. ‘supera se stesso per coraggio e desiderio’.

30. 3. peregrino: ‘pellegrino’; forse memoria dantesca: «in abito leggier di peregrino» (Cavalcando l’altr’ier per un cammino, v. 4: Vita nuova IX). 8. ‘gli tolga Tisbina dalla mente’; se dovrebbe essere forma assibilata del più consueto settentrionalismo ge.

31. Nella versione del mito più nota il guardiano dell’albero era un drago, ma qui si inserisce la reinterpretazione medievale della leggenda di Medusa, secondo cui la creatura non pietrificava chi la guardava in viso ma gli induceva l’oblio (ZAMPESE 1994, pp. 154-155). I due motivi fanno cortocircuito anche nelle Fatiche di Ercole di Pier Andrea de’ Bassi (MONTAGNANI 1990, pp. 82-83). 3. al’ombria: ‘all’ombra’. 5. ‘si dimentica il motivo del suo viaggio’. 6. li favella: ‘le parla’.

32. Si noti la serie cavalca: varca: Barca, nella quale il primo elemento è in assonanza e non in rima perfetta con gli altri. 1. animoso amante: l’allitterazione sottolinea il fervoroso stato d’animo di Prasildo in partenza per l’avventura. 5. Barca: località sulla costa della Libia. 6. palmier: ‘pellegrino’ (cfr. I, v, 57, 4). 7. vechione: ‘vecchio’. 8. Dela sua andata: ‘del suo viaggio’.

33. 1. Molta ventura: ‘una gran fortuna’. 3. pavida: ‘timorosa’. 5. ‘Tu ti preoccupi solo di entrare nel Giardino’. 8. viensi: ‘si arriva’.

34. Interessanti, per la rilettura cortese del mito, appellativi come dama o dongella riferiti a Medusa. 1. sciai: ‘sai’. 3. se gloria: ‘si vanta’. 8. si caza: ‘si allontana, fugge’.

35. 3. ‘andrai senza armi né armatura’. 5. crudo: ‘brutto’. 7. da quel lato: ‘in quel luogo’. 8. caleffato: ‘schernito’. Esplicito il significato allegorico: il povero soffre di tutti i disagi e della derisione generale.

36. 3. ma non… a dire: ‘ma nessuno osa dirglielo’. 5. Forse memoria del ramo d’oro che permette a Enea l’ingresso nell’Ade (Aen. VI, 136-147), così come la Sibilla cumana gli aveva consigliato. convienci: ‘bisogna’. 6. quella alteza: ‘quell’ostacolo difficilmente superabile’ (TROLLI 2003, p. 82; il significato non pare attestato altrove). 7. La lezione di P messa a testo richiede dialefe tra Avaricia e apresso. Avaricia: da interpretare come avidità. 8. Caratterizzazione simile a quella della lupa dantesca in Inf. I, 98-99 (CREMANTE 1970, p. 182), sottolineata da un chiasmo.

37. 1. il fatto: ‘le caratteristiche’. aperto: ‘chiaro’. 4. verzero: ‘giardino’. 5. esperto: ‘informato’. 6. P, seguito dall’edizione Tissoni Benvenuti-Montagnani, ha Povertà; si preferisce la lezione metricamente più regolare degli altri testimoni. de ligero: ‘con facilità’. 8. chi… conforta: ‘chi aiuta a entrare’; ironico: c’è sempre qualcuno che ti aiuta a diventare povero.

38. 2. ‘per gli alberelli, i fiori, la vegetazione’. 5-6. ‘e cominciò a camminare in modo tale che, per fortuna, arrivò all’albero d’oro’.

39. 1. ‘Quando si vide, fu una grande sorpresa’. 2-6. Medusa si vede orribile e, spaventata, fugge dal giardino volando. Questo episodio non è nelle fonti note. 8. ‘subito si liberò gli occhi (dallo specchio con cui li aveva protetti)’.

40. 2. falsa: ‘traditrice’. 3. ‘impaurita dal proprio aspetto’. 4. la rica radice: ‘l’albero prezioso’; sineddoche. 5. rama: spesso femm. al Settentrione. 6. si tien: ‘si ritiene’. 7. guarda: ‘custodisce’. 8. ‘che non apprezza valore o nobiltà d’animo’.

41. I dettagli disegnano un quadro allegorico moraleggiante delle ricchezza, adeguato all’etica neofeudale dei cortigiani estensi. La calamita attira i metalli (allusione alle monete e dunque al denaro) e il rumore nell’aprirsi sembra significare il fasto clamoroso che non di rado accompagna l’opulenza. È spesso chiusa, cioè difficile da ottenere, ma l’inganno (Fraude, forma linguistica latineggiante) e il lavoro (Fatica) aiutano a conquistarla. Qualche volta si ha la possibilità di ottenerla, ma bisogna avere molta fortuna. 8. megio il ramo: ‘mezzo ramo (d’oro)’.

42. 5. Nubia: regione a sud dell’Egitto. Questo itinerario non abbrevia il viaggio di Prasildo, ma forse Boiardo non possedeva notizie geografiche precise. 6. con bon vento: ‘con vento favorevole’.

43. 1. fece asapere: francesismo (Falconetto 1483, p. 135). 2. ‘che aveva esaudito il suo desiderio’. 4. ‘scelga lei stessa il luogo e il momento’. 6. atesa: ‘mantenuta’. alta: ‘solenne’. 7. disdire: ‘disattendere’.

44. 4. non fina: ‘non smette’. 6. ‘Perché non sono morta bambina, nella culla?’. 8. ch’è fuor… sorte: ‘che è diverso da tutti gli altri’.

45. 1. e’ manca la mia fede: ‘vengo meno alla mia promessa’. 2. ‘e con questo non si nasconde la mia scorrettezza’, cioè il fatto di non avere tenuto fede al giuramento. 3. quanta: ‘quanto’; avv. concordato all’agg. 4-8. Torna il tema portante dell’onnipotenza di Amore (cfr. I, i, 2). 7. rivenuto: ‘tornato’.

46. 6. riversa: ‘rovesciata’. 8. P reca hor mi; si preferisce la lezione degli altri testimoni antichi.

47. 3. Il verso richiede dialefe tra improviso e era. improviso: ‘all’improvviso’. 6. Ténsela: ‘se la tiene’. in brazo: ‘tra le braccia’.

48. Comincia qui una gara di cortesia tra i due amanti, disposti a sacrificare la vita l’uno per l’altra. Proprio la cortesia, che contraddistingue anche Prasildo, condurrà la vicenda dalla possibile tragedia a uno scioglimento felice e imprevisto. 1. dui giazi: ‘due pezzi di ghiaccio’. 6-8. ‘che tu soffra tanto per il mio dolore, perché nessuna cosa che ti fosse gradita potrebbe dispiacermi’.

49. 1. cognosci: ‘sai’. 2. discretïone: ‘discernimento’. 3. comme: ‘quando’. se gionge: ‘si unisce’. 4. passïone: ‘sofferenza’.

50. 2. ‘perché ti ho fatto sbagliare tuo malgrado’. 3. per tua faza serena: ‘per il tuo volto luminoso’. 5. atendi: ‘mantieni’. 6. rimeritato: ‘ricompensato’. 7. periglio: ‘pericolo’.

51. 4. scorno: ‘offesa’. 6. ‘di essere stato, da vivo, l’unico tuo amante’. 8. puossi: ‘si può’.

52. 3. sanza sentimento: ‘senza conoscenza’. 4. trato: ‘tratto, strappato’.

53. 1. ingrata: potrebbe valere ingrato ed essere riferito a Iroldo. prove: d’amore. 6. me sanza: ‘senza di me’. 7. P, seguito dall’edizione Tissoni Benvenuti-Montagnani, ha andar; si preferisce la lezione metricamente più regolare degli altri testimoni.

54. L’eterna appartenenza all’amato è marcata dal poliptoto foi (‘fui’), son, sarò e dall’anafora dell’agg. tua. 4. tolta: rima imperfetta (cfr. 32). 5. Non vòi: ‘non voglio’. 7. mi doglio: ‘mi addoloro’. 8. ancor io: ‘anch’io’.

55. 1. ‘Devo rimandare la morte di tanto’. 2. solva: ‘assolva, mantenga’. di Prasildo: cioè fatta a Prasildo. 7. strengo forte: ‘insisto fortemente’. 8. de una morte: ‘della stessa morte’, con un richiamo a Paolo e Francesca in Inf. V, 106 «Amor condusse noi ad una morte» (SANGIRARDI 1998, p. 818).

56. 1. un piacevol veneno: ‘un veleno che provochi una morte dolce’. 2. ‘che sia preparato in tale modo’. 3. a un ponto: ‘nello stesso momento’. 5. ‘che nello stesso tempo si possa mantenere’. 8. pacìa: ‘pazzia’.

57. 1. ‘Così dispongono la propria morte’. 4. afocati: ‘infuocati, appassionati’. 7. Per il venen mandò: ‘mandò a procurare il veleno’.

58. 1. la coppa temperata: la coppa contenente la pozione velenosa. 5. risor: ‘ristoro’. 7. scerba: cioè scerpa ‘distrugge’, con sonorizzazione. 8. quella superba: la Fortuna.

59. 1-2. ‘E dopo che ebbe bevuto, con fare sicuro, la metà della pozione velenosa’. 8. stete in forse: ‘ebbe paura’. Ottava aperta.

60. 1. Non de il toxico già: ‘non già per il veleno’. 3. frigido: ‘freddo, impassibile’ (secondo TROLLI 2003, p. 156, ma forse è il gelo della paura). 5. biastemando: ‘maledicendo’. 6. crudiel: forma iperdittongata. 7. Bevéte: ‘bevve’.

61. 1. In segno di disperazione. 3. desio: ‘amore’. 5. cordoglio: ‘dolore’. 6-7. ‘Dovere andare da Prasildo le faceva sembrare nulla la morte (al confronto)’. 8. avanza: ‘supera’. martire: ‘sofferenza’.

62. 1. ‘Tuttavia, per mantenere la promessa’. 3. secreto: ‘segretamente’. 5. ‘Prasildo riesce a stento a crederci’. 8. ‘né, per la vergogna, sa che cosa fare’.

63. 2. Se fo… reduto: ‘si fu ridotto, recato’. 5. ‘tenta di farle tornare l’aspetto allegro’. 8. ‘e non sa che lei morirà tra poco’.

64. 4. noglia: ‘noia, sofferenza’. 5. proferendo tutafiata: ‘promettendo continuamente’. 7. la stringìa: ‘la urgeva’. 8. odéte… odir: poliptoto. odéte: ‘udì’.

65. 3. È in tua possanza: ‘è in tuo potere’. 5-7. Un altro poliptoto, questa volta sulle voci del verbo perdere. 6. Ma quel che è più: ‘ma quello che è più grave’. 7. con sieco: ‘con essi’. 8. piacque: ‘piacqui’.

66. L’ottava risente del Teseida (IX, 66). 1. mia: cioè non innamorata di Iroldo. 3. discortesia: mancanza alla cortesia, che domina questo passo. 5. non si convenìa: ‘non si doveva’. 6. Dui non se pono amare: ‘non si può essere innamorati di due persone (allo stesso tempo)’.

67. 2. miseria: ‘sciagura’. cente: cioè cinta ‘circondata’. 3. strensi: ‘strinse, addolorò’. 4. P, seguito dall’edizione Tissoni Benvenuti-Montagnani, ha Alhor; si preferisce la lezione metricamente più regolare degli altri testimoni.

68. 4. dove: ‘quando’. 5. ‘si vede arrivato alla morte’.

69. 2. ‘mettere alla prova la mia cortesia’. 3-4. ‘affinché il nostro tempo conosca una tragedia provocata da Amore crudele’ (TROLLI 2003, p. 299). 5. ‘Che due amanti fossero uniti in una morte infelice’. 8. stasere: ‘stasera’.

70. 1. Sottinteso donna. Come nota TISSONI BENVENUTI 1999, il verso è perfetta traduzione di Matth. 14, 31: «modicae fidei quare dubitasti». dubitasti: ‘temesti’. 7. ‘Ora: avessi almeno ucciso solo me stesso’; ottativo. 8. Torna il tema dell’amante che preferisce morire pur di non vedere la sofferenza dell’amata.

71. 1. volsi: ‘volli’. 3. ‘Dio sa che io non potei smettere’. 7. ‘Chi ti obbligava a quella promessa’.

72. 1-2. Ancora un poliptoto (volëa, volse, voglio). 5. ‘E se hai avuto modo di capire diversamente’. 7. te asolvo: ‘ti sciolgo’. 8. a tuo talento: ‘come ti pare’.

73. 2. Di lui fatta pietose: ‘divenuta compassionevole nei suoi confronti’. 3. venta: ‘vinta’. 5. altramenti: ‘altrimenti’. 6. un longo proferire: ‘un’offerta con molte parole’. 8. andrìa: ‘andrei’.

74. 2. destinata: ‘decisa’. 5. bàsso: ‘bacio’; con assibilazione e raddoppiamento ipercorretto. 6. ‘poi la lasciò andare dove voleva’.

75. 2. involto: ‘avvolto’. 4. tolto: ‘preso’. 6. adreza: ‘dirige’. 8. per mercede e per pietate: sinonimi. Ottava aperta.

76. 1. guiderdone: ‘ricompensa’. 3. la oratïone: ‘la preghiera’. 5. fece… la operatïone: ‘ebbe effetto’.

77. L’ottava, molto drammatica, è costruita nei vv. 5-8 attorno a figure di insistita ripetizione. 1. Anacoluto.

78. 1. Lasciàn: ‘lasciamo’. 3. ciambra: ‘camera’, gallicismo (CELLA 2003, pp. 110-112). 4. ragionava: ‘parlava’. 6. prava: ‘malvagia’; latinismo.

79. 1. avrìa solacio: ‘avrebbe piacere’. 3. stracio: ‘strazio’. 4. sàciati: ‘sàziati’. 5. al tuo mal grato: ‘tuo malgrado’. 6. partito: ‘condizione’.

80. 4. ardisse: ‘ardisce, ha il coraggio’. 5. I’ ho streta cagione: ‘io ho un motivo urgente’. 7. io vi ragiono scorto: ‘io vi parlo chiaramente’ (TROLLI 2003, p. 261).

81. 2. zambra: cfr. ciambra (78, 3). 4. a sua posta: ‘a suo piacere’. 6. Impetra: ‘ottiene’.

82. 2. Sempremai: ‘sempre’; rafforzativo. 6. il mobile appetito: ‘il desiderio volubile’. 7. ‘che di rado (la donna) ha il senno dato dalla natura’ (TROLLI 2003, p. 201). I pensieri misogini del medico sono tributari di una lunga tradizione letteraria, particolarmente nutrita nel Medio Evo. Alcuni accenti ricordano il Corbaccio boccacciano.

83. 2. occulto: ‘di nascosto’. 3. Per: ‘da’. 4. poco avanti: ‘poco fa’. 5. la mala spina: ‘quella cattiva persona’. 7. ti guarda: ‘guardati, stai attento’. 8. che il mal foco l’arda!: ‘che brucino all’Inferno!’.

84. 1. sospicar: ‘sospettare, avere paura’. 2. die’: ‘diedi’. 3. hai tolta: ‘hai bevuto’. 4. da: ‘circa’. 5. sopolta: ‘sepolta’. 7. triste: ‘malvagie’.

85. 2. se avivi: ‘si ravvivi’. 4. Se abbatino: ‘si abbattono’. 8. se abella: ‘ritrova la sua bellezza’ (TROLLI 2003, p. 73).

86. 7. nel tuto: ‘assolutamente’. 8. La gara di cortesia raggiunge il suo apice. merto: ‘merito’.

87. 2. ‘ma a fatica si può rifiutare ciò che si desidera’. 3. in continenza: ‘in atteggiamento riservato, trattenendosi’ (TROLLI 2003, p. 119). 4. Comme… se sòle: ‘come è usanza’. 5. intenza: ‘intenzione’. 6. Sine: ‘sino’. 7. piacente: ‘bella’.

88. 3. s’ebe a resentire: ‘rinvenne’. 4. gita: ‘andata’. 6. ‘e talvolta perdesse i sensi’. 7. ‘pure, sapendo che Iroldo se n’era andato’. 8. prese altro partito: ‘cambiò idea’; si noti la corrispondenza lessicale con l’ultimo verso dell’ottava successiva.

89. La morale della novella, non a caso esposta da un personaggio femminile, stempera la tinta misogina in un tono più accattivante, si direbbe quasi “cortese”. 3-4. La brina si scioglie prima che arrivi il momento più caldo della giornata. 5. siàn: ‘siamo’. 7. se rese: ‘si arrese’.

90. 1. tuttafiata: ‘ancora’. 7. In questo luogo la lezione è piuttosto incerta. La versione di P a testo richiede dialefe tra Ma e a, mentre T e Z recano un plausibile dispiace. 8. e lege la mitate: ‘e ne legga la metà’. L’annotazione bonaria sulla lunghezza di questo canto fa riscontro a quella sulla brevità del precedente (cfr. I, xi, 53).