CANTO VENTISEIESIMO

Esaltazione delle leggende arturiane (1-3). La dama che stava al balcone esorta Brandimarte ad aprire la tomba e a baciare la creatura che ne uscirà. Il cavaliere si accinge spavaldo all’impresa ma, sollevato il coperchio, si trova di fronte un serpente sibilante e minaccioso. La paura è tanta e Brandimarte si ritrae, ma la dama lo persuade avvertendolo che il suo rifiuto provocherebbe la morte di tutti i presenti. Dopo il bacio, il serpente si trasforma in una ragazza: è la fata Febosilla che recupera il suo aspetto originario. La fata affida a Brandimarte la dama del balcone, che si chiama Doristella, perché la conduca in Siria e, per ringraziarlo, incanta le sue armi e il suo destriero rendendoli invulnerabili; poi se ne va (1-20). Brandimarte, Fiordelisa e Doristella partono per la Siria. Per alleviare la noia del cammino, Doristella racconta ai compagni la sua storia. È figlia di Dolistone e proviene da Laleze. Una sua sorella, promessa in sposa a Teodoro, figlio del re di Armenia, era stata rapita in tenera età e non era mai stata ritrovata. In seguito Teodoro e Doristella si erano innamorati, ma lei era già promessa all’odioso Osbego (il cavaliere ucciso da Brandimarte vicino alla tomba) e aveva dovuto sposarlo trasferendosi poi a Bursa in Anatolia, dove il marito gelosissimo la teneva sotto ferrea sorveglianza (21-32). Un giorno Osbego era dovuto partire con la spedizione militare turca contro Vatarone e aveva lasciato la moglie in consegna al servo Gambone. Allora Teodoro era venuto a Bursa e aveva corrotto Gambone, riuscendo così a raggiungere l’amata e a trascorrere molte notti con lei. Però Osbego era tornato all’improvviso, proprio mentre i due amanti erano insieme. Teodoro era fuggito senza farsi vedere ma aveva lasciato il mantello nella camera di Doristella. Osbego, trovato l’indumento, era montato su tutte le furie e, pur non riuscendo a indurre la moglie a confessare il tradimento, aveva deciso la condanna a morte di Gambone. Mentre il servo era condotto al patibolo, Teodoro l’aveva aggredito a pugni, accusandolo falsamente di avergli sottratto il mantello all’osteria e allontanando così i sospetti di Osbego da Doristella e dallo stesso Gambone. Il marito si era infatti lasciato convincere e aveva risparmiato il servo infedele, senza tuttavia liberarsi della propria divorante gelosia. Per meglio custodire Doristella aveva infine trovato il palazzo incantato dove si era svolta l’avventura di Brandimarte e vi aveva fatto porre da un mago il gigante e il serpente (32-52). Il racconto della dama è interrotto dall’assalto improvviso di una banda di ladroni, che Brandimarte fa a pezzi, catturandone però uno vivo: si chiama Fugiforca, e il cavaliere lo farà giustiziare nella prima città che troverà lungo il cammino. Fugiforca si rassegna, ma supplica di non essere condotto a Laleze (53-61).

1.
Il vago amor che a sue dame soprane
Portarno al tempo antiquo e cavaleri,
E le bataglie e le venture istrane
E l’armegiar per giostre e per tornieri
Fa che ’l suo nome al mondo ancor rimane
E ciascadun l’ascolta voluntieri;
E chi più l’un e chi più l’altro onora
Come vivi tra noi fossero ancora.

2.
E qual fia quel che odendo de Tristano
E de sua dama ciò che se ne dice,
Che non mova ad amarli il cor umano
Reputando il suo fin dolce e felice?
Ché viso a viso essendo, e man a mano
E cor con cor più streti ala radice,
Nele braza l’un l’altro, a tal conforto
Ciascun di lor rimase a un ponto morto.

3.
E Lanciloto e sua regina bela
Mostrarno l’un per l’altro un tal valore
Che dove de soi gesti si favela
Par che d’intorno el ciel arda d’amore.
Tragasse avanti adonque ogni dongella,
Ogni baron chi vòl portar onore,
E oda nel mio canto quel ch’io dico
De dame e cavalier del tempo antiquo.

4.
Ma dove ïo lassai, voglio seguire
Di Brandimarte e sua forte aventura,
Qual quela dama (di cui v’ebe a dire)
Avea conduto a quela sepultura,
Dicendo: «Questa converai aprire,
Ma poi non ti bisogna aver paura!
Convienti esser ardito in questo caso:
A ciò che indi ussirà darai un baso».

5.
«Come, un baso?» rispose il cavaliero
«È questo il tutto? Or èvi altro che fare?
Non ha l’Inferno un demonio sì fiero
Ch’io non gli ardisca il viso acostare!
Di queste cose non aver pensiero,
Che dece volte io l’averò a basare,
Non ch’una sola! E sia quel che voglia!
Orsù, che quela pietra indi se toglia!»

6.
Cossì dicendo, prende un anel d’oro
Ch’avea il coperchio dela sepultura,
E, riguardando quel gentil lavoro,
Vide intagliata al marmo una scritura,
La qual dicea: «Forteza, né tesoro,
Né la beltade, che sì poco dura,
Né senno, né l’ardir può far ripparo
Ch’io non sia gionta a questo caso amaro!».

7.
Poi ch’ebe Brandimarte questo letto,
La sepultura a forza diserava
E ussine una serpe infin al peto,
La qual forte stridendo zuffelava;
Negli ochi accesa e d’oribil aspeto,
Aprendo ’l muso gran denti mostrava:
Il cavalier a tal cosa mirando,
Se trasse adetro, e pose man al brando.

8.
Ma quela dama cridava: «Non fare!
Non facesti, per Dio, baron iocondo,
Che tuti ce farai pericolare
E caderemo a un trato in quel profondo!
Or quela serpe ti convien basare,
O far pensier de non esser al mondo:
Accostar la tua boca a quela un poco,
O morir ti convien in questo loco».

9.
«Come? Non vide che e denti digrigna!»
Disse il baron «E tu vòi ch’io la basi?
E ha una guardatura sì maligna
Che dela vista io mi spavento quasi!»
«Anci,» disse la damma «ela te insegna
Come dèi far: e molt’altri rimasi
Son per viltate in quela sepoltura.
Or via, t’acosta, e non aver paura!»

10.
Il cavalier s’accosta, e pur di passo,
Che molto non gli andava voluntiera.
Chinandossi ala serpe tutto basso,
Gli parbe tanto terribil e fiera
Che vien in viso morto comm’un sasso
E disse: «Se Fortuna vòl ch’io piera,
Tanto fia un’altra fiata come adesso:
Ma dar cagion non voglio per me stesso!

11.
Cossì certo foss’io del Paradiso
Com’io son certo, chinandomi un poco,
Che quela serpe me trarà nel viso
O pigliarami a’ denti in altro loco;
Egli è proprio cossì comm’io diviso:
Altri che me fia gionto a questo gioco!
E dammi quela falsa tal conforto
Per vendicar il suo baron ch’è morto».

12.
Dicendo questo, indetro se retira
E destinato è più non s’accostare.
Or ben forte la dama se martira,
E dice: «Ahi vil baron, che credi fare?
Tanta tristeza entro il tuo cor s’agira,
Che in grave stento te farà mancare.
Del suo scampo l’aviso: e’ non mi crede!
Cossì fa ciascadun ch’ha poca fede!».

13.
Or Brandimarte per queste parole
Pur tornò ancora a quela sepoltura:
Bench’è palido in faza come suole,
E’ vergognosse dela sua paura.
L’un pensier gli disdice e l’altro vòle,
Quel il spaventa e questo l’asicura;
Infin, tra l’animoso e ’l disperato,
A lei s’acosta e un baso gli ebe dato.

14.
Sì come l’ebe ala boca basata
(Proprio gli parbe de tocar un giazo!),
La serpe a poco a poco tramutata
Divien una dongela in breve spacio.
Questa era Febosilla, quela fata
Che edificato avìa l’alto palazo
E ’l bel giardin e quela sepoltura
Ove un gran tempo è stata in pena dura,

15.
Perché una fata non può morir mai
Sinché non gionge il giorno del iudicio,
Ma ben nela sua forma dura assai,
Mile anni o più, sì com’ïo hagio indicio.
Poi (sì come di questa io vi contai,
Qual fabricata avìa il bel edifficio)
In serpe se tramuta, e stava tanto
Che di basarla alcun se doni il vanto.

16.
Questa, tornata in forma de dongela,
Tuta di bianco se mostrò vestita,
Coi capei d’or, a maraviglia bela,
Gli ochi avea neri e faza colorita.
Con Brandimarte più cose favela
E, proferendo, a dimandar l’invita
Quel ch’ela possa d’incantatïone,
De affatar l’arme over il suo ronzone.

17.
E molto il prega che quel’altra damma
Che quivi era presente tutavia,
Qual per nome Doristela se chiama,
Voglia condur sul mar dela Sorìa,
Perchè ’l suo vechio patre altro non brama:
Che più figliol né figlia non avìa.
Re de Laleze è quel gran barbasoro,
Rico di stato e d’arme e de tesoro.

18.
Brandimarte acetò la prima offerta
D’aver l’arme e ’l destrier con fatasone;
Poi Doristela, sì come ela merta,
Condur al patre con salvacïone.
La porta del palagio or era aperta,
Batoldo avanti a quela era, il ronzone:
Quando del drago il gigante il percosse,
Càde ala tera e più non se mosse.

19.
E morto là sarìa veracemente
Se Febosilla, quela bela fata,
Soccorso non l’avesse incontinente
Con succi d’erbe e aqua lavorata.
Poscia l’usbergo e la maglia lucente
E ogni piastra ancor ebe incantata.
Dapoi ch’ebe fornita ogni dimanda,
Da lei se parte e a Dio l’aricomanda.

20.
In megio ale due dame, il cavaliero
Via tacito cavalca e non favela,
Però che forsi avëa altro pensiero.
Onde, ridendo alquanto, Doristela
Disse: «Io me avedo ben ch’egli è mistiero
Ch’io sia colei che con qualche novela
Facia trovar l’albergo più vicino,
Perché parlando s’ascorta il camino.

21.
E più ancor tanto volontier il facio
Ch’io vi dimostrarò per qual manera
Fosse conduta dentro a quel palacio
Ove son stata un tempo pregionera;
E a voi credo che sarà solacio
E odireti molto volontiera
Come a un geloso mai scrimir non vale,
E ben gli sta, che degno è d’ogni male.

22.
Due figlie ebe mio patre Dolistone:
La prima essendo ancora fanciulina
Fo rapita per forza da un ladrone
Nel lito de Laleze ala marina.
Per sposa era promessa ad un barone,
Figliol del re d’Armenia, la tapina:
Né novela di lei si seppe mai,
Benché cercata sia nel mondo assai».

23.
Or Fiordalisa, interrompendo il dire,
Il nome dela matre adimandava;
Ma Brandimarte, ch’ha voglia d’odire,
Un poco sorridendo se voltava,
«Per Dio!» dicendo «Lassala seguire,
Che voglia ho d’ascoltar, se non ti grava!».
E Fiordalisa, che l’amava assai,
Queta si stete e non parlò più mai.

24.
E Doristela siegue: «Il damigelo
Nel qual era promessa mia germana,
Dapoi crescète e, fato molto belo,
Né sendo una sua tera assai lontana
Ove stava il mio patre ad un castelo,
Spesso venïa, la persona umana,
A visitarlo sicome parente,
Benché non sia, per quel’inconveniente.

25.
Andando e ritornando a tute l’ore
Di quanto dimoràmo in quel paese,
Me piacque sì ch’io foi presa d’amore,
Vegendol sì ligiadro e sì cortese.
Lui d’altra parte ancor m’avìa nel core:
Forsi perch’io l’amava se racese,
Ché quel è ben di fero e ostinato
Il qual non ama essendo aponto amato.

26.
Lui pur spesso ritorna a quel girone
E sempre il patre mio molto l’onora;
Infin gli aperse la sua intencïone,
Credendo ch’io non sia promessa ancora.
Ma quel malvagio perfido briccone
Che occidisti al palagio, in sua malora,
M’avea richiesta proprio il giorno istéso
E ’l vechio patre mi gli avea promesso.

27.
Quando ciò sepi, tu debi pensare
S’io biastemava il Ciel e la Natura!
E diceva: “Macon non porìa fare
Che mai siegua sua lege e sua misura,
Poi che mi volse femina creare!
Ché nascemo al mondo a tal sciagura
Che occeli e fier e ogni altro animale
Vive più franco e ha di noi men male!

28.
E ben ne vedo l’exempio verace:
La cerva e la columba tutavia
Ama a dileto, e siegue che gli piace,
E io son data a non sciò che se sia!
Crudiel Fortuna, perfida e falace,
Goderà adonque la persona mia
Questo barbuto, e tirammi sugeta?
Né vedrò mai colui che mi dileta?

29.
Ma non sarà così! Sazo di certo
Che ben vi saprò io prender riparo.
Se ogni proverbio è veramente esperto:
L’un pensa il gioto e l’altro il tavernaro.
Se l’amor mio potrò tenir coperto
Che non l’intenda alcun, io l’avrò caro;
E, non potendo, io lo farò palese:
Per un bon giorno, io non stimo un mal mese!”.

30.
Io faceva tra me questo pensiero
Ch’io te ragiono: ma il termine ariva
Ch’andarne sposa mi facea mistiero.
Io non rimase né morta né viva:
Ché Teodor, il mio bel cavaliero,
Se resta a casa, e io de lui son priva.
A Bursa andar convengo in Natolìa,
Ove mi mena la Fortuna ria.

31.
Sobasso era di Bursa il mio marito,
E Turcomano fo de natïone;
Gagliardo era tenuto e molto ardito,
Ma certo che nel leto era un poltrone:
Abenché a questo avrìa preso partito,
Purch’io gli avesse avuto occasïone.
Ma tanto sospetoso era quel fello
Che me guardava a guisa d’un castello,

32.
E giorno e note mai non m’abandona,
Ma sol de basi me tenea pasciuta.
Né ’l matino o la sera, né da nona
Concede che dal sol io sia veduta,
Perché non se fidava di persona.
Ma sempre a’ bisognosi il Ciel aiuta:
Ch’al mio marito fo forza d’andare
Con l’altri Turchi ch’han passato il mare.

33.
Passarno e Turchi contra a Vatarone
Ch’avea de’ Greci el domìno e l’imperio,
E mio marito con molte persone
Convien andar, non già per desiderio.
Aveva un schiavo chiamato Gambone
Che a riguardar è proprio un vituperio:
L’un ochio ha guerzo e l’altro lacrimoso,
Troncato ha il naso ed è tuto rognoso.

34.
A questo schiavo me aricomandava
Che dela mia persona avesse cura,
E con aspre parole il menaciava
D’ogni tormento e d’ogni pena dura
Se dal mio lato mai se discostava,
Né tuto ’l giorno né la note scura.
Or pensa, cavalier, comm’io rimase:
Dela padela io càde nele brase!

35.
Venne d’Armenia in Bursa Teodoro
(Qual io te disse che cotanto amava)
Per dar al’amor nostro alcun ristoro
E ala via più presta s’attacava,
Ché portato avìa sieco assai tesoro;
Onde Gambon in tal modo aquetava
Che ciascaduna note a suo dileto
L’uscio gli aperse e mieco il pose in leto.

36.
Or intervenne, fuor di nostra stima,
Che ’l mio marito gionse avanti il giorno
E ala nostra porta pichiò prima
Che in Bursa se sapesse il suo ritorno.
Or per te stesso, cavalier, estima
Se ciascadun de noi n’ebe gran scorno:
Io dico Teodor, il caro amante,
Qual era gionto forsi un’ora avante.

37.
Incontinente il cognobe Gambone
Ala sua voce, ché l’aveva in uso,
E disse: “Noi siam morti, ecco il patrone!”.
E Teodor anco esso era confuso,
Ma io mostrai del scampo la ragione
E pianamente lo condusse giuso,
Dicendo a lui: “Come entra il mio marito,
Cossì di botto for sarrai ussito!

38.
Come sei for, e ch’èn calati e panni,
Che avrà giamai di questo fato prova?
Se mio marito ben crida mile anni,
A confessar non creder ch’io mi mova!
Lui dirà brontolando: ‘Tu me inganni!’.
Trista la musa che scusa non trova!
Se giuramento ce pò dar aiuto,
Alla barba l’avrai, becco cornuto!”.

39.
Or mio marito ala porta cridava,
Di tanta indugia avendo già sospeto;
E Gambon adirato biastimava
E diceva: “Macon sia maledeto!
Che dela chiave in mal ponto cercava,
Qual ho smarito ala paglia del leto!
Ecco, pur l’ho trovata, in sua malora!
A voi ne vengo senza altra dimora”.

40.
Cossì dicendo, ala porta calava
E quela con romor in freta apriva;
E come Osbego, il mio marito, entrava,
Ale sue spale Teodor ussiva.
Or mentre che la porta si serava,
Il mio marito in camera saliva
E io queta mi stava come sposa,
Mostrandomi adormita e sonochiosa.

41.
E mio marito prese un lume in mano,
Cercando soto al leto in ogni canto;
E io tra me dicea: “Tu cerchi invano,
Che pur le corne a mio piacer ti pianto!”.
Di qua, di là cercando, quel vilano
Ebe veduto ai piè del leto un manto:
Da Teodor il manto era portato,
Per freta poi l’avea dismenticato.

42.
Ma come Osbego il manto ebe veduto,
Grandi oltragi me disse e diverse onte:
Per ciò non ebe io l’animo perduto,
Ma sempre li negai con bona fronte.
Or a Gambone bisognava aiuto,
Il qual mercé chiedea con le man gionte!
E credo che la cosa volea dire,
Ma lui, turbato, mai nol volse odire.

43.
E già per tuto essendo chiar il giorno,
Al’altri schiavi lo fece legare
E a lor comesse che, sonando il corno
Sì come ala iusticia se vòl fare,
Poi ch’è cossì conduto alquanto intorno,
Sopra ale forche il debban impicare.
E tuti quei sargenti, a man a mano,
Per far ciò ch’è comesso se ne vano.

44.
Ma quel geloso accolta avìa tanta ira
Che desïava de vederlo impeso:
Tanto l’orgoglio e ’l sdegno lo martira
Che, nol vedendo, mai l’averìa creso.
E rato a quei sargenti dreto tira,
Ma prima indosso un tabaron ha preso
E un capelazo d’un feltro crenuto,
Perché dal’altri non sia cognosciuto.

45.
Or Teodor essendo già scappato,
E per questo cessata la paura,
Del manto se amentó ch’avìa lassato,
E comenciò di questo ad aver cura.
Cercando di Gambon in ogni lato,
Lo ritrovò con tal disaventura
Che pegio non pò star se non è morto.
Ma poi d’Osbego ancor fu presto acorto,

46.
Qual detro gli venïa a passo lento
Nascoso e invilupato al tabarone.
Il gioveneto fo de ciò contento
E con gran furia va verso Gambone:
Un pugno dete al naso e un altro al mento,
Mena del’altri e diceva: “Giotone!
Ladro! Ribaldo! Or ve’ ch’a questo ponto,
Come tu merti, ala forca sei gionto!

47.
Ov’è il mio manto, di’, falso stripone,
Qual me imbolasti iersera al’ostaria?
Or fosse qui vicino il tuo patrone,
Che ben del’altre cose gli dirìa!
E pur vorrìa saper se di ragione
Tu debbe satisfar la roba mia;
E, quando io non ne possa aver più merto,
Di pugni vuò pagarmi, io te fo certo!”.

48.
Né avea compite le parole apena
Che un altro pugno gli pose sul viso,
Sempre dicendo: “Ladro da catena!
Ben te smacarò gli ochi, io te ne aviso!”.
E tutafiata pugni e calci mena
Sì che la cosa non andò da riso,
Per questa fiata, al tristo de Gambone:
Benché ciò fosse sua salvacïone,

49.
Perché Osbego, mirando al’aparenza
Del gioveneto che si mostra fiero,
Ale parole sue dete credenza,
Comme avrìan fato molti de ligero:
Però che non avìa sua cognoscienza,
Né avrìa estimato mai ch’un forestiero
Fosse venuto tanto di lontano
Per quel’amor che lui estimava vano.

50.
Sanza altramente palesarsi ad esso,
Fece Gambone adetro ritornare
E poi secreto il dimandò lui stesso
Ciò che con quel garzon avese a fare.
Il schiavo, ch’era un gioto molto spresso,
Sepe la cosa in tal modo narare
Che per un dito fo creduto un brazo,
E campò luï, e me trasse d’impazo.

51.
Non creder già che per questa paura
Ch’era incontrata, io me fosse smarita,
Ma più volte me posi ala ventura,
Dicendo: “Al’animosi il ciel aita!”.
E benché sempre usise ala sicura,
Non fo la gelosia giamai partita
Dal mio marito, e creber sempre e sdigni,
E pur comprese al fin de’ bruti segni.

52.
E’ di guardarmi quasi disperato
Si consumava misero e dolente,
Sempre cercando un loco sì serato
Che non s’apresse ad anima vivente;
E trovò al fin il palazo incantato,
Ma non vi era il gigante né ’l serpente
Qual ritrovasti ala porta davante:
Questo a sua posta fece un negromante».

53.
Ragionava in tal modo Doristela
E altre cose asai volea seguire,
Ché non era compita sua novella,
Quando vide d’un bosco gente usire,
Che, parte a piedi e parte in sula sela,
Tuti erano ladroni, a non mentire.
Ciascaduno di lor crida più forte:
«Colui s’afermi che non vòl la morte!».

54.
«Stative adonque fermi in su quel prato!»
Rispose a quei ladron il cavaliero
«Che s’alcun passa qua dal nostro lato,
D’aver bone arme gli farà mistiero!».
Un che tra lor Barbota è nominato,
Sanza ragione, e dispietato e fiero,
Gli vien cridando adosso con orgoglio:
«Se Dio te vòl campar, e io non voglio!».

55.
Quel vien correndo, e ponto non s’aresta;
Ma verso lui s’affronta Brandimarte
E toca de Tranchera in sula testa
E sin al peto tuto quanto il parte;
Ma l’altri a lui ferirno con tempesta:
E se quel’arme non fosser per arte
Tute affatate, quanto n’avea intorno,
Campato non sarìa giamai quel giorno,

56.
Ché tutti quei ladron aveva adosso.
Non fo mai gente tanto maledeta!
Chi l’ha davante e chi detro percosso,
E più de colpegiar ciascun s’affreta,
Ma sopra a tuti gli altri, un grande e grosso:
Questo era Fogiforca dal’aceta,
Qual da che nacque è degno di capestro;
Ma’ non se può tocar, tanto era adestro.

57.
Costui girando intorno al cavaliero
Con quel’acetta spesso lo molesta,
E poi se volta: via va sì legero
Che cosa non fo mai cotanto presta.
Salta più volte in groppa del destriero
E prese Brandimarte nela testa:
Ma come vede che gli volta il brando
Salta ala terra e via fuge cridando.

58.
Già il cavalier a lui più non attende,
E sopra al’altri fa la sua vendeta,
E chi per longo e chi per largo fende:
Ormai non vi è di lor pezo né fieta.
Poi detro a Fugiforca se distende,
Ma quel ribaldo ponto non aspeta.
E de quel corso ben sarìa scampato,
Ma Fortuna il gionse e ’l suo peccato,

59.
Perché saltando sopra ad una machia,
Lo prese ad ambi e piedi una barbena
Come se prende al lazo la cornachia,
E lei batendo l’ale se dimena
E trà del beco e se dispera e grachia.
Ma Fugiforca non fo preso apena
Che Brandimarte, qual corendo il caza,
Gli gionse adosso e ben streto l’abraza.

60.
E’ non lo volse de brando ferire,
Parendo a lui che fosse una viltate,
Ma ben dicea: «Io te farò morire
Sì come tu sei degno, in veritate!
Mieco legato convirai venire
Tanto ch’io trovi castelo o citate,
E là, per la iusticia del signore,
Sarai posto ale forche a grande onore!».

61.
E Fugiforca piangendo dicìa:
«Quel che ti piace ormai pòi de mi fare.
Ma ben ti prego, per tua cortesia,
Che non mi meni a Laleze in sul mare!».
Ora, signor e bela compagnia,
Fenito è nel presente il mio cantare.
Al’altro raccontar non sarò lento:
Dio facia ciascadun lieto e contento.

1. Le prime ottave del canto dichiarano nuovamente la passione di Boiardo e del suo pubblico per le storie del ciclo bretone, insistendo sulla loro notorietà e dunque sul gradimento che i lettori continuano a dimostrare per quei testi. Il fatto va messo in relazione con altri esordi nel romanzo: p. es. con quello di II, xviii, in cui la corte di Artù è esaltata sopra quella carolingia. È pure interessante notare che la fama, altrove attribuita a figure classiche come gli «imperatori» (II, xxii, 1-2) e applicata ai romanzi con qualche umanistico disagio, qui è associata con molta serenità ai «cavalieri» (TISSONI BENVENUTI 1999). 1. vago: ‘appassionato’ (TROLLI 2003, p. 302). a sue dame soprane: ‘alle loro dame eccezionali’. 2. e: ‘i’. 3. istrane: ‘straordinarie’; forma prostetica. 4. l’armegiar: ‘il provarsi con le armi’. tornieri: ‘tornei’.

2. 1. qual fia: ‘chi sarà’. 2. sua dama: Isotta la Bionda. 3. umano: ‘pietoso’. 4. il suo fin: ‘la loro morte’. 5-8. Tristano e Isotta la Bionda si erano follemente innamorati bevendo un filtro magico, ma non si erano potuti sposare perché Isotta era già promessa a re Marco di Cornovaglia. Erano comunque rimasti amanti per molto tempo, nonostante Tristano avesse a sua volta sposato un’altra donna: Isotta dalle Bianche Mani. Dopo molte vicissitudini, Tristano, ferito e ormai morente, aveva inviato un messaggero a Isotta la Bionda, in Cornovaglia, per chiederle di raggiungerlo in Bretagna. Se la dama avesse accettato, si sarebbe fatta portare da una nave spinta da vele bianche; se avesse invece rifiutato, le vele sarebbero state nere. Isotta la Bionda era salpata per la Bretagna, ma Isotta dalle Bianche Mani, a conoscenza dell’amore tra i due, aveva detto al marito che le vele in arrivo erano nere. Tristano si era lasciato morire per la disperazione e la sua amata lo aveva seguito poco dopo abbandonandosi al suo fianco. 6. ala radice: ‘nella parte più profonda’. 7. a: ‘con’. 8. a un ponto: ‘nello stesso momento’.

3. 1. sua regina bela: Ginevra. 2. un tal valore: ‘una tale passione’ (TROLLI 2003, pp. 302-303). 3. de soi gesti si favela: ‘si parla delle loro gesta’. 5. Tragasse avanti adonque: ‘si facciano avanti dunque’. 6. baron chi vòl: ‘cavaliere che vuole’. 7-8. Ripresa di 1, 1-2. La grafia latineggiante antiquo va pronunciata antico e non inficia la rima.

4. 1. ‘Ma voglio proseguire da dove interruppi’. 2. forte: ‘difficile, rischiosa’ (cfr. II, xxv, 22, 7). 3. Qual: ‘il quale’. v’ebe a dire: ‘vi raccontai’. 4. sepultura: ‘tomba’. 5. converai: ‘dovrai’; il verbo è costruito personalmente qui e impersonalmente al v. 7. 8. ‘darai un bacio a ciò che uscirà da lì’.

5. 2. èvi: ‘vi è’. 3. fiero: ‘feroce’. 4. acostare: ‘avvicinare’. 5. non aver pensiero: ‘non preoccuparti’. 6. dece: ‘dieci’. l’averò a basare: ‘lo bacerò’. 7. sia quel che voglia: ‘qualunque creatura sia’. 8. indi se toglia: ‘si tolga da lì’.

6. La prova che Brandimarte deve superare è ispirata a un topos diffuso in diverse letterature medievali: una giovane bellissima e di nobili natali è stata trasformata per magia in un serpente (o in un drago) e solo il bacio di un cavaliere coraggioso può restituirle il suo aspetto orginario (ROSSEBASTIANO BART 1982). 3. ‘e, guardando quel bel manufatto’. 4. al: ‘nel’. scritura: ‘scritta’. 5. Forteza, né tesoro: ‘né forza, né ricchezza’. 6. beltade: ‘bellezza’. 7. senno: ‘sapienza’. far ripparo: ‘evitare’. 8. ‘che io mi sia ridotta in questa triste condizione’.

7. 2. diserava: ‘disserrava, apriva’. 3. ussine: ‘ne uscì’. 4. zuffelava: ‘sibilava’. 5. Negli ochi accesa: ‘con gli occhi iniettati di sangue’ (TROLLI 2003, p. 74). 6. ’l muso: ‘la bocca’. 7. mirando: ‘guardando’. 8. Se trasse adetro: ‘arretrò’. brando: ‘spada’.

8. 2. ‘Non farlo, in nome di Dio, cavaliere valoroso’. Facesti è var. sett. di facessi, cong. imperfetto con valore esortativo. 3. ce farai pericolare: ‘ci metterai in pericolo’. 4. ‘e cadremo tutti insieme in quella voragine’. 6. ‘o pensare di essere già morto’.

9. L’edizione Tissoni Benvenuti-Montagnani segue la lezione di P e R, che presenta una rima imperfetta al v. 5; T e Z hanno insigna, forma attestata altrove nel romanzo (cfr. II, iv, 33, 5). 1. TISSONI BENVENUTI 1999 osserva che Boiardo contamina qui due luoghi danteschi: «non vedi tu ch’e’ digrignan li denti» (Inf. XXI, 131) e «Omè, vedete l’altro che digrigna» (Inf. XXII, 91). 2. vòi: ‘vuoi’. 3. una guardatura: ‘uno sguardo’. 5. Anci: ‘anzi’. te insegna: ‘ti mostra’. 6. dèi: ‘devi’. 6-7. rimasi Son: ‘sono rimasti’. 7. viltate: ‘viltà’. 8. t’acosta: ‘avvicinati’.

10. 1. e pur di passo: ‘ma lentamente’ (cfr. I, xi, 44, 4). 2. voluntiera: ‘volentieri’. 4. parbe: ‘parve’. 5. vien: ‘diventa’. 6. piera: cioè pèra ‘perisca, muoia’, con iperdittongazione. 7-8. ‘questa volta vale quanto un’altra, ma non voglio darne motivo io stesso’.

11. 2. chinandomi un poco: ‘se mi chino un poco’. 3. trarà: ‘colpirà’. 4. O pigliarami a’ denti: ‘o mi prenderà con i denti’. 5-7. ‘è proprio così come dico: qualcun altro cadrà in questa trappola! E quella traditrice mi dà questo consiglio’. 8. Brandimarte pensa che la dama voglia farlo morire per vendicare l’uccisione del cavaliere nel canto precedente (cfr. II, xxv, 39).

12. 2. E destinato è: ‘ed è deciso a’. 3. se martira: ‘si dispera’. 5-6. ‘Sei così vigliacco che morirai tra atroci sofferenze’. 7-8. La dama si rivolge al pubblico, come in un “a parte” teatrale (TISSONI BENVENUTI 1999). 7. Del suo scampo l’aviso: ‘lo consiglio per salvargli la vita’. 8. fede: ‘fiducia’.

13. 3. come suole: ‘come era solito’, cioè ‘come era prima’. 4. vergognosse: ‘si vergognò’. 5. ‘un pensiero rifiuta e l’altro vuole’. 6. l’asicura: ‘lo rassicura’. 7. tra l’animoso e ’l disperato: ‘conteso tra il coraggio e la disperazione’.

14. 2. un giazo: ‘un pezzo di ghiaccio’. 4. in breve spacio: ‘in breve tempo’. 8. Ottava aperta.

15. 2. iudicio: il Giudizio universale. 4. sì com’ïo hagio indicio: ‘a quanto so’. 5. contai: ‘raccontai’. 6. fabricata avìa: concordanza con il sogg. 7-8. Cioè restava serpe finché qualcuno la baciasse. Al v. 7. stava è lezione di P accettata dall’edizione Tissoni Benvenuti-Montagnani, ma forse è più corretto stavi (‘vi sta, vi resta’, vale a dire ‘mantiene la forma di serpe’) di R2.

16. 2. Il bianco è il colore tipico delle fate (TISSONI BENVENUTI 1999). 4. faza: ‘la faccia’. 5. più cose favela: ‘parla di molte cose’. 6-8. ‘e, offrendosi, lo invita a chiederle quello che lei può fare con la magia, di fatargli le armi o il cavallo’.

17. 1. il: ‘lo’. 2. tutavia: ‘ancora’. 4. Sorìa: Siria. 5. brama: ‘desidera’. 6. P, seguito dall’edizione Tissoni Benvenuti-Montagnani, ha Più figliol; si preferisce la lezione metricamente più regolare degli altri testimoni. 7. Laleze: Laodicea, oggi Latakia. Sulla forma c’è una possibile ambiguità (cfr. II, xxvii, 25, 1), quasi che la prima sillaba sia intesa come articolo. barbasoro: ‘signore’ (cfr. I, xx, 20, 4).

18. 2. con fatasone: ‘fatati’. 3. merta: ‘merita’. 4. con salvacïone: ‘sana e salva’. 6. avanti: ‘davanti’. 7. del: ‘con il’. 8. Dialefe tra tera ed e. Càde: ‘cadde’.

19. 1. veracemente: ‘sarebbe veramente’. 3. incontinente: ‘subito’. 4. succi: ‘succhi’; verosimilmente da pronunciare succhi. 4. lavorata: ‘mescolata con altre sostanze’ e dunque ‘curativa’; l’accezione è piuttosto rara (TROLLI 2003, p. 75). 5-6. ‘poi fatò la corazza e la maglia metallica lucente e anche ogni piastra (dell’armatura)’ (per maglia e piastra cfr. I, ii, 1, 5). 7-8. ‘Dopo che ebbe esaudito ogni richiesta, si allontana da lei e la raccomanda a Dio’ (per aricomanda cfr. I, ii, 4, 7).

20. 1. In megio: ‘in mezzo’. 3. Però che: ‘perché’. 4. ridendo: ‘sorridendo’. 5-8. Il racconto di una novella allevia la noia del viaggio, secondo un topos già incontrato (cfr. I, xii, 4). La narrazione che ha qui inizio deriva principalmente dalla Metamorfosi di Apuleio, in particolare dalla vicenda di Arete e Filesitero (IX, 16-21; cfr. REICHENBACH 1936, pp. 75-82 e ZAMPESE 1994, p. 159). 5. ch’egli è mistiero: ‘che è necessario’. 8. s’ascorta: ‘si accorcia’.

21. La rima A funziona per l’occhio ma la sua realizzazione fonetica è dubbia. Probabilmente l’incertezza tra affricata dentale e affricata palatale, tratto tipicamente padano, permette questa oscillazione anche alle scritture letterarie. 4. un tempo: ‘per qualche tempo’. 5. ‘e credo che sarà piacevole per voi’. 6. odireti: ‘udrete’. 7. scrimir: letteralmente ‘tirare di scherma’, qui metaforicamente ‘contendere, opporsi’ (TROLLI 2003, p. 261).

22. 2. P, seguito dall’edizione Tissoni Benvenuti-Montagnani, ha ancor; si preferisce la lezione metricamente più regolare degli altri testimoni. 4. Nel lito: ‘sulla spiaggia’. ala marina: ‘vicino al mare’. 5. barone: con il solito significato generico di ‘cavaliere, signore’. 6. la tapina: ‘l’infelice’. 7. novela: ‘notizia’. mai: ‘mai più’.

23. 1. il dire: ‘il racconto’. 2. adimandava: ‘domandava’ (per la forma cfr. I, ii, 4, 7). 5. Lassala seguire: ‘lasciala proseguire’. 6. se non ti grava: ‘se non ti spiace’.

24. 1. damigelo: ‘ragazzo’. 2. ‘cui era promessa in sposa mia sorella’. 3. Dapoi crescète: ‘poi crebbe’. fato: ‘fattosi’. 4. ‘e poiché una sua città non era molto lontana da’. 6. umana: ‘cortese’. 7. sicome: ‘come’. 8. ‘benché non lo sia diventato a causa del rapimento della promessa sposa’ (TISSONI BENVENUTI 1999).

25. 1. a tute l’ore: ‘in continuazione’. 2. ‘per tutto il tempo in cui ci fermammo in quel paese’. 3. foi: ‘fui’. 4. Vegendol: ‘vedendolo’. 6. se racese: ‘si accese, si innamorò’. 8. Var. sul dantesco «Amor, ch’a nullo amato amar perdona» (Inf. V, 103).

26. 1. a quel girone: letteralmente ‘a quella cerchia di mura fortificate’, ma vale ‘a quella città’. 3. ‘infine gli rivelò le sue intenzioni’. 6. in sua malora: imprecazione che vale ‘accidenti a lui’. 7. istéso: ‘stesso’; forma prostetica.

27. 1. debi: ‘devi’. 2. biastemava: ‘maledicevo’. 3. Macon: Maometto (cfr. I, ii, 4, 7). porìa: ‘potrebbe’. 4. sua lege e sua misura: sinonimi per ‘i suoi precetti’ (TROLLI 2003, pp. 183, 196). 5. Poi che mi volse: ‘dopo che mi volle’. 6. a tal sciagura: ‘con tale disgrazia, sfortuna’. 7. fier: ‘bestie selvatiche’. 8. franco: ‘libero’.

28. 2. tutavia: ‘sempre’. 3. a dileto: ‘a loro piacere, liberamente’. 4. a non sciò che se sia: ‘a non so chi’. 5. falace: ‘traditrice’. 7. tirammi sugeta: ‘mi terrà sottomessa’. 8. mi dileta: ‘mi piace’.

29. MATARRESE 2004, p. 182 osserva che nella novella di Doristella trovano posto diversi proverbi, come si conviene alla materia narrata: due amanti che riescono a gabbare con astuzia un marito geloso. In questa ottava si trovano già due massime di tono popolare (vv. 4 e 8). 1. Sazo: ‘so’. 2. prender riparo: ‘porre rimedio’. 3. esperto: ‘provato dall’esperienza’ (TROLLI 2003, p. 144). 4. ‘il ghiottone la pensa diversamente dall’oste’. 6. l’avrò caro: ‘ne sarò lieta’. 7. lo farò palese: ‘lo rivelerò’. 8. ‘per avere un giorno allegro non mi importa un mese di infelicità!’.

30. 2. ragiono: ‘racconto’. il termine: ‘il giorno’. 3. mi facea mistiero: ‘dovevo’. 4. Forse memoria di Inf. XXXIV, 25: «Io non mori’ e non rimasi vivo» (cfr. I, xxiii, 24, 8). Teodor: trisillabo. 7. Natolìa: Anatolia. 8. mena: ‘conduce’. ria: ‘malvagia’.

31. 1. Sobasso: ‘governatore’ (TROLLI 2001, pp. 125-134). 2. ‘e fu turkmeno di nascita’. 3. era tenuto: ‘era ritenuto’. 4. Il sobasso non mostrava a letto lo stesso vigore che aveva in battaglia. 5. avrìa preso partito: ‘avrei posto rimedio’. 7. fello: ‘malvagio’. 8. guardava a guisa d’un: ‘custodiva come un’. Ottava aperta.

32. 2. me tenea pasciuta: ‘mi pasceva solo di baci’, cioè non concedeva effusioni più impegnative. 3. da nona: ‘a metà giornata’ (cfr. I, v, 33, 7). 5. di persona: ‘di nessuno’. 6. Punta ironica: di solito la Provvidenza soddisfa necessità di altro genere. 7. fo forza: ‘fu necessario’. 8. passato: ‘attraversato’, con una spedizione militare (cfr. I, i, 6, 7).

33. 1. e: ‘i’. 2. el domìno e l’imperio: ‘la signoria e il comando’. 6. un vituperio: ‘un essere dall’aspetto ripugnante’ (TROLLI 2003, p. 309). 8. Troncato: ‘mozzato’.

34. 1. me aricomandava: ‘mi affidava’. 5. ‘se mai si fosse allontanato dal mio fianco’. 8. io càde nele brase: ‘io caddi nelle braci’; forma idiomatica ancora viva.

35. 3. ristoro: ‘sollievo’. 4. ‘e scelse il modo più rapido’; cioè corrompere il custode dell’amata con il denaro. 8. mieco: ‘con me’.

36. 1. ‘Ora accadde, contro le nostre previsioni’. 2. avanti il giorno: ‘prima del giorno fissato’ (TROLLI 2003, p. 162). 3. pichiò: ‘bussò’. 5. per te stesso… estima: ‘pensa da te’. 6. scorno: ‘delusione’. 8. avante: ‘prima’.

37. 1. il cognobe: ‘lo riconobbe’. 2. ‘dalla voce, perché vi era abituato’. 5. la ragione: ‘il modo’. 6. pianamente: ‘furtivamente’. giuso: ‘giù’. 7. Come: ‘appena’. 8. ‘così subito uscirai fuori’.

38. 1. e ch’èn calati e panni: ‘e quando saranno calati i panni (dalla finestra)’. 2. Che: ‘chi’. 4. mi mova: ‘mi induca, mi lasci convincere’. 6. Letteralmente ‘povera quella bocca che non sa trovare una scusa’. Il proverbio ha molte attestazioni (TROLLI 2003, p. 200); MATARRESE 2004, p. 182 ne segnala un’occorrenza nella Moschetta di Ruzante (I, 1, 9: ulteriore documentazione nel commento di D’Onghia). 7. : ‘può’. 8. Alla barba l’avrai: ‘l’avrai in barba, a tuo dispetto’. becco cornuto: sinonimi.

39. 2. indugia: femm. anche altrove (cfr. I, ii, 17, 7). 3. biastimava: ‘malediceva’. 5. ‘che cercavo la chiave senza trovarla’. 6. ala: ‘nella’. 7. in sua malora: cfr. 26, 6. 8. dimora: ‘indugio’.

40. Le rime A e B sono tutte costituite da desinenze di verbi all’indicativo imperfetto, a suggerire un’incalzante serie di azioni con ritmo teatrale. 1. calava: ‘scendevo’; I pers. sing. come il successivo apriva. 8. adormita e sonochiosa: ‘addormentata e sonnolenta’.

41. 2. in ogni canto: ‘in tutti gli angoli’. 5. Di qua, di là: cfr. I, i, 50, 1. vilano: ‘uomo ignobile’. 6. manto: ‘mantello’. 8. dismenticato: ‘dimenticato’.

42. 2. oltragi… onte: sinonimi per ‘insulti’. 3. ‘io non mi smarrii per questo’. 4. con bona fronte: ‘risolutamente’ (TROLLI 2003, p. 156). 6. mercé: ‘pietà’. 7. che la cosa volea dire: ‘che volesse dire la verità’. 8. lui: Osbego. turbato: ‘adirato’.

43. 1. per tuto: ‘dappertutto’. 2. Al’altri: ‘dagli altri’. 3-6. e ordinò loro che, al suono del corno come è necessario quando si fa giustizia, dopo che è stato portato in giro così per un poco, lo impicchino sulle forche’. 7. sargenti: ‘servi’. a man a mano: ‘subito’.

44. 1. accolta avìa: ‘aveva raccolto in sé’ (cfr. II, xv, 2, 1). 2. desïava: ‘desiderava’. impeso: ‘impiccato’. 3. lo martira: ‘lo tormentano’. 4. mai l’averìa creso: ‘non l’avrei mai creduto’. 5. ‘E subito tiene dietro a quei servi’. 6. tabaron: il tabarrone è un grande mantello (TRENTI 2008, p. 567). 7. d’un feltro crenuto: ‘di feltro peloso’ (questa accezione di crenuto non pare attestata altrove; TROLLI 2003, p. 123).

45. 3. se amentó: ‘si ricordò’. 4. ad aver cura: ‘a preoccuparsi’. 5. in ogni lato: ‘dappertutto’. 6. con tal disaventura: ‘in guai tali’. 8. ancor fu… acorto: ‘si accorse anche’. Ottava aperta.

46. 2. invilupato al: ‘avvolto nel’. 3. gioveneto: ‘giovane’. 5. dete: ‘diede’. 6. Mena del’altri: ‘ne sferra degli altri’. 6-7. Giotone… Ribaldo: sinonimi per ‘farabutto’. 7. ve’: ‘vedi’.

47. 1. falso stripone: ‘traditore bastardo’ (cfr. stirpone a I, xx, 26, 3). 2. imbolasti: ‘rubasti’. 5. di ragione: ‘secondo giustizia’. 6-8. ‘tu devi rispondere della mia roba, e, se io non posso essere risarcito, voglio rivalermi con i pugni, io te lo assicuro!’.

48. 1. ‘E aveva appena finito di parlare’. 3. da catena: cioè degno di stare legato alla catena. 4. smacarò: ‘ammaccherò’. 5. tutafiata: ‘continuamente’. 6. da riso: ‘da scherzare’. 7. fiata: ‘volta’. al tristo de Gambone: ‘a quello sciagurato di Gambone’. 8. sua salvacïone: ‘la sua salvezza’. Ottava aperta.

49. 1. mirando al’aparenza: ‘guardando l’aspetto’. 2. fiero: ‘risoluto’. 3. dete credenza: ‘credette’. 4. de ligero: ‘facilmente’. 5. ‘perché non lo conosceva’. 6. estimato: ‘pensato’. 8. estimava vano: ‘riteneva inutile’.

50. 1. ‘Senza farsi riconoscere in altro modo da Teodoro’. 3. secreto il dimandò: ‘segretamente gli chiese’. 4. ‘che cosa avesse che fare con quel ragazzo’. 5. gioto molto spresso: ‘un lestofante matricolato’ (TROLLI 2003, p. 144). 7. Modo di dire che significa ‘fu creduta una cosa per tutt’altra’ (TROLLI 2003, p. 137). 8. ‘e salvò se stesso e mi tirò fuori dai guai’.

51. 2. incontrata: ‘capitata’. 3. me posi ala ventura: ‘tentai la sorte’. 4. Traduzione puntuale del virgiliano «Audentis Fortuna iuvat» (Aen. X, 284), cioè ‘la Fortuna aiuta gli audaci’ (TISSONI BENVENUTI 1999). 5. usise ala sicura: ‘riuscissi a farla franca’ (TISSONI BENVENUTI 1999). 7. e sdigni: ‘gli sdegni, i litigi’. 8. ‘e alla fine vidi dei brutti presagi’ (TISSONI BENVENUTI 1999).

52. 1. guardarmi: cfr. 31, 8. 2. misero e dolente: coppia sinonimica. 3. sì serato: ‘così chiuso, impenetrabile’. 4. s’apresse: ‘si aprisse’.

52. 8. a sua posta: ‘dietro sua richiesta’. negromante: ‘mago’.

53. 2. seguire: ‘aggiungere’. 3. compita: ‘finita’. 7. ‘gridano uno più forte dell’altro’. 8. s’afermi: ‘si fermi’.

54. 1. Stative: ‘state’; pseudoriflessivo. 5. Barbota è nominato: ‘è chiamato Barbota’. Il nome è forse parlante: barbotar ‘borbottare’ o ‘balbettare’ è di diversi dialetti dell’area sett. (LEI VII, coll. 251-253; 259-260). La barbotta poteva inoltre essere una ‘nave catafratta e fornita di sprone, impiegata per l’assalto a fortezze nemiche’ oppure una ‘barca per la navigazione fluviale usata specialmente per la caccia e la pesca’ (LEI IV, coll. 1225-1226). 6. Sanza ragione: ‘dissennato’. dispietato e fiero: coppia sinonimica. 8. Costrutto paraipotattico.

55. 1. ponto: ‘affatto’. 2. verso lui s’affronta: ‘lo affronta’. 3. toca de: ‘colpisce con’. 4. il parte: ‘lo taglia’. 5. ‘ma gli altri lo colpirono con violenza’. 6. per arte: ‘per magia’. 7. quanto n’avea intorno: ‘tutte quelle che aveva addosso’. 8. Campato: ‘sopravvissuto’. Ottava aperta.

56. 4. ‘e ciascuno si affretta a colpirlo con più frequenza’. 5. sopra a: ‘più di’. 6. Fogiforca: nome parlante, da mettere in relazione con il sostantivo scampaforca ‘furfante’ attestato almeno dal sec. XVI (GDLI s. v. scampaforche). dal’aceta: ‘con l’accetta’. 7. da che: ‘da quando’. 8. P, seguito dall’edizione Tissoni Benvenuti-Montagnani, ha tanto è destro; si preferisce la lezione metricamente più regolare degli altri testimoni. ‘ma non si riesce mai a colpirlo, tanto è agile’.

57. 2. lo molesta: ‘lo infastidisce’. 4. presta: ‘veloce’. 5. Fugiforca salta sulla sella di Brandimarte. 6. prese: ‘colpì’. 7. gli volta il brando: ‘volge la spada contro di lui’. 8. ala: ‘a’.

58. 1. a lui più non attende: ‘non si occupa di lui’. 2. sopra al’altri: ‘sugli altri’. 3. fende: ‘taglia’. 4. pezo né fieta: coppia formulare (cfr. II, xxiii, 28, 6); fieta è forma iperdittongata. Iperbole: dei ladroni non rimangono neppure i pezzi. 5. se distende: ‘si lancia’. 7. de quel corso: ‘con quella corsa’. 8. il gionse: ‘lo raggiunsero, lo punirono’. Ottava aperta.

59. I commentatori hanno notato le analogie tra le parole in rima di questa ottava e quelle di Morgante XXIV, 95 e XIV, 54 (PRALORAN 1995, p. 45; TISSONI BENVENUTI 1999). 1. sopra ad una machia: ‘su un cespuglio’. 2. barbena: ‘vermena’ (TROLLI 2003, p. 98), cioè un ramo. 5. trà del beco: ‘colpisce con il becco’. 6. ‘Ma Fugiforca era appena rimasto impigliato’. 7. il caza: ‘lo insegue’.

60. 2. una viltate: ‘un atto vile’. 5. Mieco: ‘con me’. convirai: ‘dovrai’. 6. citate: ‘città’. 7. per la iusticia del signore: ‘con un processo secondo le leggi del signore di quel luogo’ (TISSONI BENVENUTI 1999), ma TROLLI 2003, p. 179 preferisce ‘dagli esecutori della sentenza di morte (agli ordini) del signore di quel luogo’, secondo un’accezione rara ma attestata p. es. nel Morgante (XVIII, 42, 6 e 44, 2). 8. a grande onore: emistichio formulare; qui ironico.

61. 1. dicìa: ‘diceva’. 2. pòi: ‘puoi’. 4. mi meni: ‘mi conduci’.