Viola
Ethan non prese affatto bene la notizia che dovessi partire quel fine settimana. Aveva pianificato ogni nostro minimo spostamento per quel sabato e quella domenica, un itinerario completo che ci avrebbe visti partecipare a una mostra d’arte, poi a un backstage fotografico in un’agenzia di moda, infine ad un aperitivo con alcuni suoi colleghi e ovviamente tanto sesso tra un impegno e l’altro. Ma come biasimarlo? In fondo non sapeva nemmeno che io avessi una sorella. Quindi apprese della sua morte nell’attimo esatto in cui venne anche a conoscenza della sua esistenza nella mia vita. Lo accusai di essere freddo, egoista e cinico. Per tutta risposta lui scrollò le spalle.
«Buffo che tu dia a me del cinico e dell’insensibile quando proprio tu hai tenuta nascosta l’esistenza di tua sorella e adesso non versi nemmeno una lacrima per la sua morte» rispose con tono ironico e pungente.
Le sue parole mi colpirono dritte allo stomaco.
E fu così che partii. Il viaggio in aereo fu breve ma intenso, mille pensieri affollarono la mia mente e facevano una tale confusione che mi sembrava che, perfino la gente seduta intorno a me, potesse sentirli gridare. Atterrai in perfetto orario e mi diressi con le gambe molli e lo sguardo assente verso l’uscita per cercare un taxi. Mi ero portata solamente un piccolo bagaglio a mano per fare prima ed essere più rapida negli spostamenti, anche perché non volevo rimanere troppo a Parigi, giusto il tempo del funerale e poi la domenica sarei subito tornata a casa mia lasciandomi alle spalle tutta quella storia.
«Avenue Trudaine, s’il vous plait» dissi al tassista con gentilezza.
La città era esattamente come la ricordavo, nonostante fossero passati ormai molti anni dall’ultima volta in cui c’ero stata. La giornata era fredda, il cielo grigio e una leggera pioggia bagnava le strade e rendeva il paesaggio plumbeo e opprimente. Da quel che riuscivo a ricordare nella mia memoria i giorni di sole e di cielo azzurro si potevano trovare raramente a Parigi, soprattutto d’inverno. Quando il taxi si arrestò sotto al portone di casa dei miei genitori mi fermai ancora qualche minuto giù in strada, incapace di citofonare, incapace di salire in casa, incapace di affrontare tutto quello che stava succedendo. Le mie gambe si rifiutavano di muoversi, come se avessi le suole delle scarpe incollate al marciapiede. Pensai che la vita spesso non è giusta. Ti svegli una mattina convinta che non potresti essere più felice di così e poi basta una semplice telefonata all’improvviso per farti precipitare nella disperazione e nello smarrimento più profondo. Mancavano solo quattro ore al funerale. Tirai un profondo respiro, mi morsi il labbro nervosamente, poi mi obbligai a salire a casa dei miei genitori. Da quando avevano lasciato Roma e si erano trasferiti nuovamente a Parigi, quattro anni prima, ero andata a trovarli soltanto poche volte, si sarebbero potute contare sul palmo di una mano. Il fatto è che avevo dedicato molto tempo al lavoro, avevo fatto molti sacrifici anche per poter pagare l’affitto del mio grazioso piccolo appartamento e per molto tempo non mi ero nemmeno potuta concedere ferie né malattie. Inoltre tornare a Parigi faceva spesso riaffiorare in me antichi ricordi passati che erano un misto di dolcezza e malinconia e facevano male al mio cuore. Suonai alla porta.
«Ciao Camilla, sono felice che tu sia qui» mi salutò calorosamente mia madre abbracciandomi. Restammo così strette per un po’, incapaci di staccarci. Mi era mancata molto in quegli ultimi anni da quando non viveva più a Roma con me. «Vieni tesoro, tuo padre è seduto in salotto. Ormai fa fatica anche ad alzarsi dalla sedia, lo sai».
Andai nell’altra stanza e lo trovai sprofondato nella sua comoda poltrona verde, con lo sguardo stanco e i capelli ancora più bianchi di come li ricordavo. Lo baciai sulla fronte e poi mi sedetti accanto a lui in silenzio. Il ticchettio dell’orologio a cucù appeso al muro scandiva il tempo, i minuti, i secondi. Mia sorella era morta eppure il mio cuore era chiuso in una strana corazza di freddezza, ero incapace di provare qualcosa, forse non riuscivo nemmeno a rendermi conto che stesse succedendo davvero. Poi mia madre ci raggiunse.
Mi voltai e in quel momento, per la prima volta, la vidi.
Vidi lei. Piccola, timida, con i codini biondi e gli occhi bassi, con la sua piccola manina chiusa nella mano di mia madre. Guardai entrambe con aria interrogativa perché non riuscivo a immaginare cosa ci facesse una bambina in casa dei miei anziani genitori. Mia madre lanciò a mio padre una rapida, malinconica, occhiata d’intesa e io cominciai vagamente a preoccuparmi.
«Viola, tesoro, ti presento tua zia Camilla» disse amorevolmente, quasi in un sussurro, mia madre alla bambina. Io trasalii, sbarrai gli occhi e mi alzai di scatto dalla sedia.
«Tua zia? Io sarei sua zia? Cosa vuol dire?» dissi con un tono di voce più acuto e stridulo di quanto non volessi.
«Vuol dire semplicemente che lei è la figlia di tua sorella» continuò imperturbabile mia madre, senza scomporsi, come se stesse dicendo una cosa piuttosto ovvia e scontata.
«Mia sorella ha una figlia? Ma da quando? Ma come? Ma possibile che nessuno mi dica mai niente?» gridai spazientita gesticolando convulsamente.
La bimba alzò il viso e il suo sguardo incrociò il mio. Aveva due grandi occhi verdi, proprio come quelli di mia sorella Alessia, il suo sguardo era profondo e molto triste, affranto, spento. Mia madre disse a Viola sorridendole per rassicurarla:
«Resta qui col nonno a giocare, io torno subito».
Poi mi fece cenno di seguirla. Mi portò in cucina e chiuse la porta dietro le nostre spalle, spostò una sedia, si sedette e mi fissò con caparbietà e fermezza.
«Prima in salotto ci hai accusato di averti tenuto all’oscuro su Viola. Non mi sembra però che tu avessi molti rapporti con tua sorella negli ultimi… diciamo… otto anni? O forse sono dieci?» il suo tono era freddo e volutamente polemico.
Abbassai lo sguardo, vagamente colpevole.
Lei seguitò. «Ad ogni modo nemmeno io e tuo padre sapevamo dell’esistenza di Viola fino a qualche mese fa. Un giorno, sette o forse otto mesi fa, non ricordo, tua sorella si presentò a casa nostra e ci presentò la sua bambina, nostra nipote. Restammo attoniti e stupiti anche noi, come te, e il primo pensiero fu di colpevolizzare Alessia per non averci detto niente della bambina fino ad allora. Ma anche tu sai com’era fatta…»
Mia madre si interruppe e sospirò torturandosi le mani nervosamente. Deglutì a fatica e sospirò. Io le porsi un bicchiere d’acqua, lei mi ringraziò e riprese a parlare.
«Ad ogni modo sono davvero felice che Alessia abbia deciso alla fine di tornare a Parigi e portarci la nostra nipotina perché in questo momento, così difficile e triste per tutti noi, almeno Viola non sarà da sola ad affrontare il terribile lutto che l’ha colpita». Una lacrima, leggera e delicata, scese dagli occhi di mia madre percorrendo lentamente le rughe e i solchi del suo volto stanco. «E il padre di Viola?» chiesi alzando un sopracciglio sorpresa. Mia madre mi guardò scuotendo la testa.
«Non ha nessun padre, Alessia è stata molto dura e categorica su questo punto. Ci ha solo detto che Viola era figlia sua e di nessun altro e che non c’era nessun uomo nella loro vita. Non abbiamo mai saputo cosa fosse successo. In verità pensavo di poter affrontare nuovamente l’argomento più avanti nel tempo, con calma, con le dovute maniere, ma Dio non me ne ha dato il tempo portandosi via la mia Alessia così presto e in modo così inaspettato» concluse affranta, con la voce che le tremava, nascondendo il volto tra le mani rugose.
«Tipico di mia sorella» borbottai a bassa voce. Ma subito mi pentii di aver detto una simile malignità e mi morsi il labbro dispiaciuta. «E adesso cosa intendete fare con Viola?»
Mia madre sollevò la testa e fece un lungo, profondo sospiro. «Ecco tesoro mio, è proprio di questo che vorrei parlarti. Forse è meglio se ti siedi» mi disse pacatamente indicandomi la sedia di fronte a lei. Nella mia testa suonarono mille campanelli d’allarme, non mi piaceva affatto la piega che stava prendendo la conversazione.
«Adesso che Alessia è morta, Viola deve essere affidata ad un parente, ovviamente. Non ha il padre, non sappiamo nemmeno come rintracciarlo e onestamente non credo che fosse nemmeno la volontà di tua sorella. Quindi dovremmo occuparcene noi» concluse mia madre guardandomi dritta negli occhi con fermezza. Fece una lunga pausa, forse aspettando una mia risposta ma io non ero certa di dove volesse arrivare e soprattutto, non ero sicura di voler sapere davvero cosa lei intendesse con quel noi.
Così rimasi in silenzio, con il cuore in tumulto e lo stomaco chiuso in una morsa, timorosa di ascoltare il resto della conversazione. Mia madre sostenne il mio sguardo e seguitò a parlare. «Ovviamente sai bene che la salute di tuo padre è molto precaria. Soffre di cuore, deve essere sottoposto a controlli costanti e anche il suo Alzheimer peggiora rapidamente. Io mi occupo di lui ogni giorno, il che non è facile perché anche io inizio ad avere una certa età, mi affatico subito e la mia artrosi ultimamente non mi dà tregua. In questo momento non potremmo occuparci anche di Viola».
In quel preciso istante capii tutto quello che fino ad ora avevo cercato di fingere di non capire. Mia madre mi stava chiedendo l’impossibile. Mi sentivo messa con le spalle al muro, presa a tradimento. Anzi, ad essere sincera, sentivo l'impulso irrefrenabile di scappare via. Balzai sulla sedia e scattai in piedi come se fossi stata morsa da un serpente.
«Fammi capire bene mamma, perché forse ho frainteso. Tu mi stai implicitamente chiedendo di occuparmi io di Viola?» la mia voce tremava dalla rabbia e dallo stupore.
Ma mia madre non si scompose affatto, mantenne la sua consueta calma ed eleganza francese.
«Camilla, tesoro, è proprio quello che io e tuo padre vogliamo chiederti in effetti. Non sarà una sistemazione definitiva ma solo provvisoria. Devi darmi il tempo di organizzarmi, di riflettere su cosa sia meglio per Viola, cercare magari qualcuno che possa aiutare me e tuo padre qui a casa con la bambina. Tu sei giovane, sei la sua unica zia e lei adesso ha bisogno di una figura femminile che si prenda cura di lei e le possa ricordare la sua mamma».
Non potevo credere a ciò che mia madre mi stava chiedendo. Ero scioccata. Spalancai gli occhi incredula e arrabbiata e sbattei un pugno sul tavolo.
«Mamma non puoi davvero chiedermi questo! Sai bene i rapporti che c’erano tra me e Alessia, non ci vedevamo da otto anni, non sapevo nemmeno che avesse avuto una figlia… È assurdo quello che mi stai chiedendo!». Deglutii a fatica, serrai i pugni e seguitai: «E poi ho un lavoro che mi assorbe a tempo pieno e lo sai. Non ho orari, non ho ferie, non ho quasi nemmeno una vita e di certo non sarebbe comunque una vita adatta ad una bambina di… quanti anni ha Viola?».
«Ne ha cinque» rispose pacatamente mia madre.
Ero fuori di me. Mi sentivo incastrata, in trappola. Non potevo occuparmi di una bambina, non potevo e basta. Provavo una tale rabbia sia verso i miei genitori che mi stavano chiedendo l’impossibile sia verso mia sorella che, ancora una volta, aveva deciso per me e per la mia vita. Le lacrime mi appannarono gli occhi e sentii le gambe farsi molli. Mi appoggiai al mobile della cucina per non cadere in terra. Poi per non scoppiare a piangere davanti a mia madre scappai via, aprii la porta di corsa e uscii fuori, nell’aria gelida e pungente di un freddo inverno parigino.