7
Rabbia
Quella notte riuscii a dormire solo poche ore, nonostante la grande stanchezza che avevo. Mi rigiravo nel letto nervosamente guardando le lancette dell’orologio scandire il tempo che scorreva implacabile. Alle prime luci del giorno mi alzai per andare in cucina a prendere un analgesico e un bicchiere d’acqua. Ma un rumore impercettibile nella casa, ancora avvolta nel silenzio, attirò la mia attenzione. Sembravano dei singhiozzi sommessi provenienti dal salotto. Lentamente, in silenzio, a piedi nudi, andai a vedere. Viola era ancora sotto le coperte ma il suo esile corpo era scosso da piccoli fremiti e i suoi occhi, ancora chiusi, erano bagnati di lacrime. Trattenni il fiato per non farmi sentire, non riuscivo a capire se fosse sveglia o se stesse piangendo nel sonno. Non l’avevo mai vista piangere prima, nemmeno al funerale di mia sorella. Avevo sempre pensato che fosse una bambina davvero strana, forse con qualche problema psicologico, magari neanche troppo intelligente, di sicuro piuttosto insensibile. Ma in quel momento mi sembrò solamente una piccola bambina indifesa, molto sola, profondamente triste, catapultata in una realtà forse troppo difficile da capire e da accettare per i suoi cinque anni. Forse quella insensibile e poco intelligente ero io. Non avevo nemmeno provato a conoscerla, ad amarla, l’avevo semplicemente ignorata lasciandola nel suo mondo fatto di silenzi. Mi chinai accanto a lei in ginocchio e le scostai i capelli dal viso. Aveva una miriade di boccoli biondi, color del grano, proprio come i miei. Viola aprì gli occhi all’improvviso e mi fissò. Il verde smeraldo delle sue iridi era offuscato da un velo di lacrime. Le passai la mia mano sul viso per asciugargliele e lei non si mosse, docile sotto il tocco della mia carezza. Per un attimo mi sembrò che volesse dirmi qualcosa, le sue labbra si mossero impercettibilmente come se volesse parlare, ma poi rimase in silenzio, come sempre.
Stesso carattere ostinato e caparbio di mia sorella, pensai tra me. Ma questa volta a quel pensiero non provai la solita rabbia piuttosto mi venne da sorridere con affetto.
«Ah, eccoti, sei qui» esclamò Ethan spuntando all’improvviso da dietro il divano e rompendo quel nostro delicato momento di intimità.
Sussultai spaventata al suono della sua voce e anche Viola si voltò di scatto intimorita. «Mi hai spaventato. Non ti ho sentito arrivare» dissi mentre mi alzavo in piedi.
«Scusami tanto principessa. Ultimamente sembra che non ne combino una giusta» replicò Ethan spazientito e contrariato. «Forse se fossi un po’ più educato e dolce nel tuo modo di porti le cose andrebbero meglio» risposi freddamente.
«Ti sono sempre andato bene così, non mi sembra tu ti sia mai lamentata» seguitò lui.
Poi si ritirò offeso in cucina. Sorrisi a Viola per rincuorarla e lo raggiunsi. Lo abbracciai da dietro baciandolo sulle sue spalle muscolose mentre gli sussurravo all’orecchio «Scusa, non voglio litigare con te. Solo che alle volte ti comporti come se fossi il padrone del mondo e diventi arrogante».
Lui si voltò e mi piantò addosso due occhi glaciali.
«A me sembra invece che da quando è arrivata quella ragazzina tu giochi troppo a fare la mamma sensibile».
Non seppi dire se mi ferirono di più quelle sue parole o piuttosto il tono freddo e tagliente con cui le pronunciò. Sentii una fitta al cuore.
«Non gioco a fare la mamma ma non me la sono sentita di abbandonare mia nipote in qualche istituto solo perché non potevo sacrificare qualche mese della mia libertà. A me sembra che tu stia facendo diventare un granellino di sabbia grande come una montagna».
Mi staccai da lui e mi misi a preparare la colazione cercando di ostentare una calma che non avevo.
«Ne sei proprio sicura? Fino a una settimana fa eri un’ottima segretaria, attenta, puntuale ed efficiente. Fino a una settimana fa eri un’amante fantastica e ci divertivamo insieme, tra una sfilata di moda, un servizio fotografico e un aperitivo. Adesso quella ragazzina è riuscita a cambiarti nel giro di pochi giorni. Non vieni al lavoro da giorni, usciamo ma dobbiamo tornare a casa col coprifuoco per dare il cambio al babysitter e dobbiamo fare sesso con tua nipote che dorme nella stanza accanto!» esclamò con durezza Ethan strattonandomi per un braccio per farmi girare.
Mi divincolai per liberarmi.
«Stai dicendo cose senza senso. Qualche giorno di assenza dal lavoro capita a chiunque e comunque non sono una delle tue modelle bamboline che ti porti a letto solo per poter affermare la tua virilità e per incrementare il tuo narcisismo» sbottai furiosa. Subito dopo però mi morsi il labbro, sapevo di aver esagerato e uno come Ethan difficilmente mi avrebbe perdonato quello sfogo femminista. Infatti non feci nemmeno in tempo a fare marcia indietro che lui era già uscito dalla cucina come un fulmine e poco dopo era già in camera a rivestirsi.
«Ethan mi dispiace per quello che ho detto, ero solo ferita» cercai di rimediare. Anche se in fondo, ad essere onesta con me stessa, le cose che avevo detto poco prima le pensavo davvero ma non mi sembrava adesso il momento di polemizzare. Non sapevo dire come mai lui avesse un tale ascendente su di me, riusciva a rendermi insicura e vulnerabile. Alcune volte lo detestavo. O forse odiavo me stessa per quella arrendevolezza inspiegabile che manifestavo davanti a Ethan. Mi avvicinai per fargli una carezza ma lui mi allontanò la mano con uno schiaffo. «Sei stata molto chiara, ho afferrato il concetto. Prendiamoci qualche giorno per riflettere, forse è meglio» disse con voce tagliente.
Era incredibile come Ethan riuscisse ad essere con me tanto dolce e passionale alcune volte, illudendomi di essere l’unica donna della sua vita ma allo stesso tempo sapesse poi trasformarsi nel mio peggior carnefice, facendo a pezzi il mio cuore in pochi minuti. Avrei voluto gettarmi ai suoi piedi e implorarlo di rimanere con me, di non lasciarmi, di fare l’amore in quel preciso istante ma il pensiero di Viola nell’altra stanza, unitamente alle parole di Andrea della sera prima, ebbero l’effetto di trattenermi dal fare ulteriori scenate perdendo la mia dignità. Così lasciai a malincuore che Ethan finisse di vestirsi e uscisse di casa. Rimasi sola, seduta sul letto, svuotata e confusa. Volevo piangere ma non ci riuscivo. Ultimamente sembrava che avessi un pezzo di ghiaccio al posto del cuore, mi riusciva perfino difficile versare lacrime, neanche al funerale di mia sorella avevo pianto. Non so quanto tempo rimasi così, inerte e disperata sul letto ma ad un certo punto mi raggiunse Viola e si mise in piedi davanti a me, fissandomi con quel suo sguardo profondo e indagatore che mi incuteva sempre un po’ di soggezione. Mi sentivo a disagio quando lei mi guardava in quel modo insistente, in silenzio, come se volesse trapassarmi l’anima.
«Viola, tesoro, sto bene. È tutto a posto» cercai di tranquillizzarla. Anche se in fondo, a dire il vero, non sapevo nemmeno se lei fosse agitata o spaventata, non riuscivo a comprendere cosa pensasse, cosa provasse, se davvero capisse quando io fossi triste o arrabbiata. Improvvisamente mi sentii in preda ad un accesso di rabbia. La mia vita stava andando a rotoli solamente da quando lei era arrivata a casa mia. Io le stavo facendo un favore a tenerla con me, stavo rinunciando alle cose più importanti che avevo, l’amore, la carriera, la mia libertà e per tutta risposta lei come mi ripagava? Restando in silenzio. Sentii crescere dentro di me una rabbia sorda, un risentimento acuto verso Viola e, di rimando, anche verso mia sorella. Provai un’ondata inarrestabile di collera e di rancore. Non sopportavo più nemmeno la presenza muta di Viola. Non la capivo e non la volevo nella mia vita. Avevo bisogno di uscire da quella casa, di camminare, di vedere gente, di uscire all’aria aperta perché se fossi rimasta qualche altro minuto là da sola davanti a quella bambina col suo ostinato silenzio sarei impazzita.
«Vieni, ti vesto e usciamo» dissi infastidita rivolta a Viola mentre la strattonavo per un braccio fino al salotto.
La cambiai frettolosamente, le pettinai distrattamente i suoi morbidi capelli e la aiutai ad infilare le sue scarpe.
«Adesso aspettami qui, mi cambio anche io e usciamo» le ordinai in tono severo. Ma sapevo benissimo che tanto lei non si sarebbe mossa dal divano anche senza che io glielo dicessi. Mi chiusi in bagno vestendomi di corsa, con i primi vestiti che trovai nell’armadio. Volevo solo uscire al più presto da quell’appartamento diventato ormai troppo stretto e scomodo per convivere con una bambina che non si degnava nemmeno di parlarmi, che in fondo nemmeno conoscevo e che mi stava rendendo la vita così difficile.
«Non ti è bastato rovinarmi la vita una volta? Dovevi farmi anche lo scherzo di mollarmi tua figlia, vero?» mormorai a bassa voce rivolta a mia sorella come se lei potesse sentirmi, come se lei fosse responsabile di ogni mio problema, come se potessi avere una sua risposta. Ero furiosa. Presi Viola e uscimmo nell’aria fredda e pungente di quel mattino invernale. Camminavo a passo svelto senza nemmeno preoccuparmi se magari la mia andatura fosse troppo svelta per le piccole gambe di una bambina di cinque anni. In quel momento mi sentivo terribilmente sola, senza un aiuto, senza nessuno su cui appoggiarmi. Mia sorella non sarebbe dovuta morire così, all’improvviso. Una bambina nella mia vita non era prevista. Mi sentivo come se qualcuno mi avesse all’improvviso buttato all’aria tutti i pezzi di un puzzle che avevo accuratamente terminato dopo mesi di lavoro. Allo stesso modo, la mia vita così perfetta e felice, costruita con sacrificio e dedizione in tutti quegli ultimi anni, era stata sconvolta dall’arrivo di un piccolo tornado silenzioso e ostinato, di soli cinque anni, alto poco più di un metro. Seguitavo a camminare senza una meta precisa, con lo sguardo perso nel vuoto, mentre il mio fiato si condensava in piccole nuvolette bianche a causa del freddo. Ma tutto quel girovagare alla fine mi condusse davanti al negozio di Andrea. Mi ritrovai là senza nemmeno sapere come e perché ci fossi arrivata. Viola mi lasciò la mano e andò subito ad appiccicarsi con naso e fronte contro la vetrina per poter vedere meglio i cagnolini esposti che giocavano dentro le loro gabbie. Restai un po’ là fuori, senza sapere bene cosa fare, ma dopo qualche minuto la porta del negozio si aprì e apparve Andrea. «Buongiorno signorine, cosa fate qua fuori al freddo? Venite dentro a scaldarvi» ci salutò con calore come se nulla fosse successo la sera prima.
Viola non se lo fece ripetere due volte e si diresse fiduciosa dentro al negozio afferrando la mano di Andrea.
«Ah, beh, certo! Adesso preferisce addirittura stare con te piuttosto che con me che sono sua zia e che la ospito» sbuffai arrabbiata vedendo come Viola si stringeva ad Andrea, quasi fosse più a suo agio con lui, un perfetto estraneo, che con me. «Cosa è successo ieri sera? Forse l’hai drogata? O le hai promesso una montagna di dolci e bambole per fartela amica?». Mi rendevo conto di essere scortese e piuttosto acida ma davvero mi rendeva furiosa il fatto che Viola, che era così schiva e chiusa, andasse più volentieri con un estraneo che con me.
«Hai dormito male stanotte oppure sei sempre così gentile di primo mattino?» mi stuzzicò Andrea con sarcasmo.
Poi entrò nel negozio insieme a Viola. Sbuffai e alzai gli occhi al cielo, poi anche io li seguii all’interno.
«Allora? Sei di cattivo umore?» riprese Andrea quando mi sedetti accanto a lui, dietro al bancone.
Annuii a testa bassa. «Diciamo che non sono giorni facili. Poi oggi sono ancora più nervosa per via di ieri sera» dissi a bassa voce e subito mi morsi il labbro rendendomi conto, troppo tardi, di aver detto troppo. Non avrei dovuto riaprire il discorso sull’episodio della sera precedente. Ma Andrea non disse nulla su Ethan, evitò l’argomento ed io ne fui sollevata.
«Ad ogni modo non devi prendertela per Viola. Alle volte i bambini sono imprevedibili e magari adottano certi comportamenti solo per mettere alla prova noi adulti, per vedere se siamo in grado di amarli» spiegò, pacatamente.
Non capivo cosa volesse dire e comunque non mi andava di intavolare una discussione su mia nipote in quel momento in cui mi sentivo ancora così tanto in collera con lei.
«A proposito, dov’è andata a finire?» chiesi guardandomi intorno.
«Probabilmente è sul retro. Abbiamo dei cuccioli, dei gattini. Anche ieri quando me l’hai portata qui in negozio ha trascorso tutto il tempo di là a guardarli» rispose Andrea indicandomi con un gesto della mano una piccola porta che dava sul retro.
Mi alzai e andai a vedere. Viola era accovacciata in terra, vicino ad una grande cesta dove dentro giocavano instancabili tre piccoli micini. Erano adorabili, io avevo sempre amato i gatti ma avevo troppi impegni e non mi sarei potuta occupare anche di un animale. Stavo per chiamare Viola, che mi dava le spalle e non mi aveva vista arrivare, quando un mormorio sommesso mi bloccò pietrificandomi. Prestai più attenzione e ciò che udii mi lasciò sorpresa e senza fiato.
«Siete molto belli. Siete i miei amici. Un giorno vi porto a casa con me così giochiamo insieme».
Viola stava parlando con quei piccoli gattini, la sua voce era flebile, sottile ma molto dolce. Non l’avevo mai sentita prima e provai un’infinita tenerezza.
«Guarda Pippi quanto sono belli questi gatti» seguitava a dire sottovoce.
Non avevo la più pallida idea di chi potesse essere Pippi ma il fatto che Viola parlasse era adesso più importante di qualsiasi altra cosa. Certo, non che mi facesse piacere che lei preferisse parlare con dei gatti o, peggio ancora, con Pippi, piuttosto che con me, che ero sua zia e da giorni cercavo di interagire con lei, ma era pur sempre un progresso e per adesso potevo accontentarmi. Uscii silenziosamente dalla stanza e mi richiusi la porta alle spalle, tirai un profondo sospiro e pensai che forse non tutto era perduto, forse una strada per arrivare al cuore di Viola avrei potuto trovarla. L’unica cosa che mi preoccupava era il tempo. Ci sarebbe voluto tempo e pazienza e io, purtroppo, non avevo né l’uno né l’altra.