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Su tutte le furie
Il giorno dopo andai in ufficio con una inconsueta calma e serenità, non uscii di casa come sempre di corsa e impiegai stranamente anche meno cura nel vestirmi. Ero presa da ben altri pensieri. Nella mia mente giravano vorticosamente tante immagini del giorno precedente come fossero scene di un film. Ero stata molto bene allo zoo, ero stata felice di vedere Viola così eccitata e allegra e avevamo trascorso una giornata fantastica. Ma c’era anche qualcos’altro che si agitava nel mio cuore ed era il pensiero di Andrea. Non capivo per quale motivo seguitasse a venirmi sempre in mente e più cercavo di cacciarlo più tornava. Ad ogni modo quel lunedì mattina ero insolitamente rilassata e me la presi molto comoda, gustandomi ogni minuto di quegli ultimi minuti prima di entrare in ufficio. Lasciai Viola a scuola, poi mi diressi pacatamente verso il lavoro. Mi piaceva passeggiare a piedi per le vie di Roma quando avevo un po' di tempo, cosa che purtroppo accadeva raramente col lavoro frenetico che facevo. Ma quella mattina potevo permettermelo, volevo concedermi qualche minuto in più per me stessa. Mi ero sempre considerata molto fortunata a poter lavorare al centro di Roma. Le strade erano sempre piene di turisti che scattavano qualche foto ricordo, di ragazzi che si davano appuntamento a Via del Corso per guardare i negozi, di artisti di strada pronti a sfoggiare la loro arte lungo i marciapiedi affollati. D'inverno mi piaceva moltissimo passeggiare per quelle strade piene di luci calde e festose, amavo sentire l'odore delle caldarroste vendute ad ogni angolo, vedere le vetrine di Via Condotti addobbate come vere e proprie opere d'arte, fermarmi ad ammirare il grande albero di Natale a Piazza Venezia. Mentre in estate, quando le giornate si allungavano e io uscivo dall'ufficio più tardi del solito, avevo spesso l'abitudine di salire sulla terrazza del Pincio per ammirare il tramonto. Avevo iniziato a farlo quando i miei genitori si erano nuovamente trasferiti a Parigi. Quando mi sentivo sola e la malinconia di non avere nessuno ad aspettarmi a casa si faceva sentire, allora salivo fin lassù, mi affacciavo alla terrazza che dominava Piazza del Popolo e dalla quale si vedeva tutta Roma e aspettavo che il sole tramontasse. Mi mescolavo in mezzo ai tanti turisti che popolavano il Pincio e così mi sentivo meno sola. Guardavo il cielo colorarsi di mille sfumature di rosa e di arancio mentre il sole lentamente scompariva all'orizzonte, avvolgendo di rosso la cupola di San Pietro e tutti i tetti delle case di Roma. Le piroette delle rondini in cielo e il volo silenzioso dei gabbiani mi tenevano compagnia fino al calare della sera e soltanto allora mi decidevo a tornare a casa. Era una piacevole abitudine che negli ultimi tempi avevo perso, anche a causa di Ethan e dei suoi mille impegni, ma quella mattina, andando al lavoro, mi ripromisi di riprendere a godermi nuovamente Roma con l'arrivo della primavera ormai alle porte. Ero assorta in quei miei pensieri, ferma al semaforo, aspettando che scattasse il verde per attraversare la strada ed entrare nel portone, quando al bar di fianco al palazzo, dove tante volte io e Ethan ci eravamo fermati in pausa pranzo, vidi proprio lui, Ethan. Pensai di raggiungerlo prima di salire su in ufficio e fare colazione con lui. Così appena scattò il verde attraversai a passo veloce la strada e mi avviai verso il bar, ma, una volta arrivata, mi bloccai pietrificata dietro la vetrina. Dentro vidi Ethan, ma non era da solo. Stava seduto a un tavolino, un po’ in disparte, insieme ad un’appariscente ragazza con grandi orecchini a cerchio, un trucco piuttosto pesante e una cascata di riccioli rossi che le ricadevano sulle spalle. Cercai di guardare meglio attraverso la vetrina avvicinandomi maggiormente e per poco non sbattei la fronte contro il vetro. Ethan fortunatamente mi dava le spalle, quindi non poteva vedermi. Teneva le mani della ragazza tra le sue e lei rideva ammiccante mentre giocava con un boccolo dei capelli attorcigliandolo tra le dita. Sentivo già una fitta di gelosia contorcermi lo stomaco e stavo quasi per entrare nel bar quando ad un tratto la ragazza si alzò e spostò la sedia vicino a quella di Ethan. Lui si avvicinò al suo orecchio bisbigliando qualcosa che, evidentemente, fu piuttosto convincente visto che una manciata di secondi dopo le loro bocche si unirono in un bacio molto passionale. Sembravano non doversi staccare più, le mani di Ethan le accarezzavano la nuca sotto quella cascata di riccioli mentre lei gli avvolgeva le spalle. Fui accecata dalla rabbia ed entrai come un uragano dentro al bar. Urtai la gente senza un minimo di educazione, ma non me ne importava niente, in quel momento ero furiosa, come un toro che vede rosso. Mi piazzai a pochi centimetri da loro due che seguitavano a baciarsi senza nemmeno accorgersi della mia presenza.
«Vuoi forse metterla incinta qui nel bar?» gridai con rabbia mettendomi le mani sui fianchi.
Ethan sussultò non appena mi vide e subito si staccò dalla ragazza. Ma uno come lui forse era abituato a simili situazioni e a simili inconvenienti perché si riprese piuttosto velocemente, ritrovando la sua abituale calma e sicurezza. Si passò una mano tra i capelli con gesto teatrale da attore consumato e sfoderò il suo miglior sorriso, mentre rispondeva pacatamente «Camilla, che sorpresa vederti. Non mi sembra il caso di gridare in questo modo, stai dando spettacolo. Abbassa la voce».
Questo suo modo di fare ebbe l’effetto di farmi infuriare ancora di più perché non volevo più sottostare ai suoi giochetti da Don Giovanni e non volevo più essere la sua bambolina. Anzi, provai quasi una sorta di divertimento a metterlo in imbarazzo in quel bar dove ormai da anni lo conoscevano quasi tutti. Così seguitai alzando ancora di più il tono della voce. «Non sono io quella che sta dando spettacolo mi sembra. Piuttosto tu con la tua amica. Forse sarebbe più appropriato se voleste appartarvi in una stanza d’albergo».
Ethan sbiancò in volto e si alzò con decisione. Mi afferrò per un braccio e ostentando una calma apparente che, in realtà, non corrispondeva affatto allo sguardo carico d’odio che leggevo nei suoi occhi, mi sibilò a bassa voce «Ma sei impazzita? Sai che qua dentro ci conoscono tutti. Datti un contegno, avremo modo di parlare più tardi, nel mio ufficio».
Seguitava a stringermi il braccio così tanto che riuscivo a sentire il dolore anche attraverso gli strati degli indumenti che indossavo. Con uno strattone mi liberai e lui mi lasciò andare, probabilmente per non dare ulteriore spettacolo davanti agli avventori del bar. Avrei voluto dirgli milioni di cose, forse anche prenderlo a parolacce, ma su una cosa Ethan aveva ragione, dovevo ritrovare un contegno. Non certo per lui, ma per la mia dignità. Non meritava niente, nemmeno la mia rabbia. Quanto mi ero sbagliata sul suo conto! Mi accorsi forse per la prima volta di chi fosse davvero Ethan. Così mi calmai, ma non lo feci affatto per lui, bensì per me, perché non ero mai stata una maleducata e non volevo cominciare proprio adesso a causa sua. «Non c’è nulla da dire e non verrò nel tuo ufficio, dove, peraltro tu in genere fai ben altre cose con le tue dipendenti, non certo parlare» risposi ironica, con una calma e una serenità che stupirono anche me. Subito dopo girai i tacchi e, senza aspettare una sua risposta, uscii a passo svelto dal bar, sotto lo sguardo curioso e divertito della gente che aveva appena assistito a quel siparietto fuori programma. Non appena fui all’aria aperta tirai un profondo respiro e chiusi per un attimo gli occhi, aspettando che il mio cuore smettesse di battere così forte. Sperai solo che Ethan non mi seguisse fuori per litigare, ma, per mia fortuna, non solo non mi seguì affatto ma non si fece nemmeno vedere in ufficio per tutta la giornata. Non che la cosa mi dispiacesse, anzi. Non avevo davvero nessuna voglia di mettermi a fare un’altra scenata anche là, in ufficio, davanti a tutti gli impiegati e le segretarie, dando loro materiale di cui poter sparlare per i successivi sei o sette mesi. Evidentemente Ethan non era solo un maleducato pallone gonfiato, come aveva detto il giorno prima Andrea, ma era anche piuttosto vigliacco e codardo per affrontarmi con sincerità. O, forse, semplicemente non mi amava come io credevo. Magari non mi aveva nemmeno mai amato. Trascorsi la giornata nel terrore di vedermelo apparire sulla soglia della mia stanza ma per fortuna questo non avvenne ed io riuscii ad arrivare incolume alla fine del mio orario di lavoro. Passai a prendere Viola all’asilo e, mentre aspettavo che lei mettesse a posto i suoi colori e si infilasse il cappottino, la maestra mi si avvicinò tirandomi in disparte.
«Signora, volevo parlarle di Viola» mi disse a bassa voce.
La guardai temendo il peggio.
«A scuola è molto taciturna e non socializza con nessuno. So che sta vivendo una situazione molto difficile, ne abbiamo parlato insieme quando è venuta a fare l’iscrizione per la bambina, lo ricordo bene. Ma ormai frequenta l’asilo già da diverso tempo e, se le cose non migliorano, temo che dovremo richiedere l’intervento della psicologa della scuola» concluse sorridendomi ma con un tono così perentorio e sgradevole che contrastava nettamente con quel finto sorriso che ostentava. Ecco, ci mancava solo questa, come se non avessi già abbastanza problemi, pensai infastidita.
«Lei è molto gentile a preoccuparsi per Viola e immagino stia parlando solo nell’interesse della bambina ma, se posso permettermi di contraddirla, non credo che occorra chiamare in causa addirittura una psicologa.».
Cercai di mantenere la calma e l’educazione ma il mio tono di voce freddo e irritante tradì il fastidio che provavo. «Le ho già spiegato la situazione traumatica che Viola ha dovuto subire in quest’ultimo mese, dobbiamo solo darle un altro po’ di tempo e vedrà che tutto si aggiusterà».
In quel momento mi domandai se stessi cercando di convincere la maestra oppure me stessa. L’arrivo di Viola interruppe la nostra conversazione. Si era infilata da sola il suo cappottino, aveva preso lo zainetto della scuola e si era messa zitta e buona accanto a me tenendo con la sua mano un lembo del mio cappotto. Le sorrisi e le feci una carezza sulla testa per far vedere alla maestra che andava tutto bene e che avevo la situazione perfettamente sotto controllo. E mi illusi che fosse davvero così.
«Ad ogni modo Viola è una bambina molto attenta e molto ubbidiente. Non ci dà nessun tipo di problema» aggiunse distrattamente la maestra come se stesse ripetendo a memoria un copione recitato già tante volte. Poi mi tese la mano per salutarmi, fece una carezza a Viola e subito dopo rientrò in classe chiudendosi la porta alle spalle. Tirai un sospiro di sollievo. Quella giornata sembrava non dovesse finire più. Mi sembrava di essere sommersa da un problema dopo l’altro ed ero davvero esausta. Desideravo solo buttarmi sul divano in pigiama sorseggiando una camomilla calda. Ma i miei guai non erano ancora finiti e ben presto me ne sarei accorta.