Chiudere col passato
I giorni seguenti furono piuttosto intensi dal punto di vista psicologico ed emotivo. Ethan fu di parola e alle sue minacce seguirono i fatti. Fui licenziata, con immensa gioia di gran parte delle altre donne che lavoravano là dentro. Probabilmente se avessi puntato i piedi o contattato un avvocato avrei anche potuto fargliela pagare a caro prezzo o, per lo meno, avrei avuto un risarcimento assai maggiore, ma decisi di lasciar perdere le mie vendette personali poiché, la sola cosa che desideravo, era non rivedere mai più Ethan e lasciarmi alle spalle i brutti ricordi degli ultimi giorni. Quando ne parlai con Andrea, lui non fu d’accordo inizialmente, perché sapeva che ero dalla parte della ragione e avrei potuto dare del filo da torcere a Ethan contattando un avvocato. Ma poi capì che per me la cosa davvero importante era staccarmi definitivamente da tutto quell’ambiente malsano che avevo frequentato troppo a lungo e per troppo tempo e che aveva finito per plasmarmi ed esaurirmi. Mi ero trasformata in quella che non ero. Avevo lasciato che la mia solitudine e la mia insicurezza mi rendessero debole e bisognosa di affetto, mostrandomi Ethan diverso da come in realtà era realmente. Il problema adesso era dover tornare in ufficio un’ultima volta per ritirare i miei effetti personali che erano ancora nella mia stanza. Mi sentivo morire all’idea di dover tornare là dentro da sola, sotto lo sguardo sarcastico e malizioso delle mie colleghe e con la paura di incontrare Ethan.
«Posso accompagnarti io se vuoi» mi propose Andrea un giorno che ne stavamo parlando.
«Davvero lo faresti? Sei un angelo!» risposi grata, con gli occhi già lucidi.
Era molto importante per me in quel momento non essere sola ad affrontare tutto quello che stava accadendo.
«Potremmo andarci nella mia pausa pranzo dal lavoro, che ne dici?» mi chiese.
Acconsentii con entusiasmo sentendomi sollevata. E fu così che in un freddo e nuvoloso venerdì di fine febbraio, all’ora di pranzo, io entrai per l’ultima volta in quello che era stato non solo il mio ufficio e il mio lavoro, ma anche tutto il mio mondo negli ultimi cinque anni. Mentre ero in ascensore sentii le gambe vacillarmi e il cuore rimbalzarmi dentro al petto. Dovetti appoggiarmi al braccio di Andrea per non svenire per quanta tensione avevo accumulato. Lui pose la sua mano calda sopra il mio braccio e mi guardò sorridente.
«Puoi farcela, non sei inferiore a nessuno. Entriamo, prendiamo la tua roba e ce ne andiamo» mi disse con dolcezza.
Appena entrata in ufficio mi sentii gli occhi di tutti puntati addosso e perfino l’aria mi parve gelida. Ma forse era solo una mia impressione e magari gli altri nemmeno erano ancora stati informati del mio licenziamento. Anche se, senza dubbio, si erano chiesti dove fossi finita in quegli ultimi giorni in cui non mi ero fatta vedere al lavoro. Perfino Maria alla reception non mi accolse con le sue consuete battutine al veleno. Andai con Andrea a passo deciso e testa alta fino alla mia stanza e mi chiusi la porta alle spalle. Volevo solo fare presto ed evitare uno spiacevole incontro viso a viso con Ethan. Aprii rapidamente tutti i cassetti della scrivania e presi al volo tutto ciò che aveva per me un valore affettivo. Alcune fotografie, un portachiavi che una mia collega mi aveva regalato tempo prima, le bacchette del ristorante cinese vicino all’ufficio dove tante volte andavo a mangiare con le mie amiche i primi tempi che lavoravo là, una calcolatrice rosa piena di brillantini che un giorno mi aveva donato la mia assistente appena assunta e altre piccole cose, forse insignificanti per chiunque, ma che erano per me molto importanti perché rappresentavano dei ricordi collezionati in tutti quegli anni dentro l’azienda. Mi ricordavano da dove ero partita, quanta fatica avessi fatto tutta da sola, quante serate di straordinari sottopagati avevo trascorso i primi tempi e quanto avessi buttato via tutto innamorandomi di uno stronzo come il mio capo. Sentii un’ondata di rabbia e delusione invadermi l’anima. Mentre finivo di mettere gli ultimi oggetti in una grande scatola, Andrea notò che non avevo aperto l’ultimo cassetto e, prima che io potessi fermarlo, lo fece lui. Arrossii immediatamente perché conoscevo bene il contenuto di quel cassetto. Lui ne tirò fuori un paio di manette e le sventolò davanti ai miei occhi incredulo prima di lanciarle sulla scrivania come se scottassero. Poi tirò fuori anche una benda di seta, un paio di profumatissime candele alla fragola e un lucidalabbra. Poi si fermò evitando di tirar fuori dell’altro e chiuse il cassetto con il piede.
«Ho quasi paura di chiederti cosa ci facciano simili cose nel cassetto della tua scrivania. Non credo servano per il lavoro che svolgi…» disse sarcastico mentre continuava ad osservare quegli oggetti.
Mi sentii una perfetta idiota, una donna della peggior specie, una bambolina ad uso e consumo del suo capo. In effetti erano cose che ogni tanto avevo usato con Ethan dopo l’orario di chiusura dell’ufficio, quando tutti gli impiegati erano ormai usciti e noi ci fermavamo per terminare qualche ultimo lavoro. Erano state serate piacevoli, non potevo affermare il contrario. La passione incontrollata che aveva Ethan e che pervadeva anche tutto il mio corpo era, nonostante tutto, un ricordo ancora piacevole, la nostra sintonia in campo sessuale era sempre stata pressoché perfetta e ci bastava uno sguardo complice per capire cosa volevamo e per accendere il desiderio. A Ethan piaceva usare sempre qualcosa di innovativo e stuzzicante come, ad esempio, una benda o un paio di manette. Io prima di lui non avevo mai avuto certi istinti, avevo sempre fatto l’amore in modo piuttosto classico e forse quel suo lato malizioso e passionale mi aveva conquistata e fatta sentire donna. Ma soltanto adesso capivo quanto mi fossi soltanto illusa che lui potesse amarmi davvero. Solo in quel momento capii quanto ogni minima cosa che io avevo fatto era stata solo per accontentare e soddisfare le voglie, i desideri e lo smisurato ego di Ethan. Ed ora che ero là, imbambolata davanti ad Andrea, mi sentivo vulnerabile, imbarazzata e profondamente sciocca.
«Ovviamente sai anche tu che non sono oggetti utili al mio lavoro. Erano piuttosto richieste di Ethan» ammisi con gli occhi bassi e le guance che mi andavano a fuoco.
Andrea sospirò profondamente, poi si mise le mani nelle tasche dei jeans e deglutì.
«Scusami tu, non sono affari miei e non avevo nessun diritto di metterti in imbarazzo. È solo che non mi aspettavo che tu…» Lasciò la frase a metà, forse volutamente o magari perché aveva timore di dire qualcosa che potesse offendermi. Non avevo nessun motivo in effetti per dovermi giustificare con lui, non avevo fatto niente di male, solo qualche divertente gioco erotico con il mio fidanzato. Eppure, non so per quale motivo, ma ci tenevo davvero tanto all’opinione di Andrea. Non so perché ma desideravo che lui mantenesse un’immagine pulita di me, di ciò che ero. Mi avvicinai a lui, forse più di quanto fosse appropriato, i nostri visi erano a pochi centimetri, ma non mi importava, volevo guardarlo negli occhi.
«È vero, non sono affari tuoi e soprattutto quello che facevo con il mio uomo fuori dell’orario di lavoro non ti riguarda. E non ti riguardano nemmeno i nostri giochi sessuali» gli dissi con fermezza alzando il mento con caparbietà.
Lui sussultò e si morse il labbro imbarazzato. Probabilmente non si aspettava quella mia reazione ma, da persona intelligente quale era, sapeva che avevo ragione. Non gli dovevo nessuna spiegazione e lui lo sapeva.
«Eppure, anche se può sembrare strano, ci tengo all’opinione che tu hai di me. Volevo solo dirti che ogni cosa che io ho fatto con Ethan è stata per amore, credevo di amarlo, tutto qui. Invece adesso capisco che ciò che amavo erano solo tutte quelle sensazioni forti che lui riusciva a farmi provare, quella sua sicurezza che mi faceva sentire protetta. Quando lo conobbi ero rimasta da poco qui a Roma da sola, i miei genitori si erano appena trasferiti nuovamente a Parigi e il lavoro mi assorbiva totalmente. Non avevo nessuno su cui contare. Ero completamente da sola. Ethan mi ha corteggiata, mi ha fatto sentire una donna importante e desiderata, mi ha fatto scoprire un mondo che non conoscevo, lussi che potevo soltanto immaginare nei miei sogni di bambina. Mi sono appoggiata a lui, mi sono fidata, mi sono illusa. Credevo mi amasse… Posso solo dire in mia difesa che ci ho messo tutto il mio cuore, in ogni cosa che ho fatto, perché non voglio che tu mi possa giudicare una persona cinica o superficiale. Non voglio…» dissi senza quasi prendere respiro, con gli occhi lucidi e il cuore che batteva all’impazzata, dentro al petto, come fosse un tamburo.
Gli stavo aprendo la mia anima, raccontandogli un po’ di me, delle mie fragilità e non capivo nemmeno perché ne sentissi il bisogno. Forse Andrea stava diventando importante per me, più di quanto pensassi. Restammo qualche istante così, in silenzio, uno di fronte all’altra. Fuori la porta chiusa si sentiva qualche risata delle segretarie che erano in pausa pranzo e il rumore di tacchi nel corridoio. Poi Andrea ruppe il silenzio e disse «Non ti giudico affatto cinica o superficiale. Credo solo che tu meriti qualcosa di più che un paio di manette».
Mi sorrise e poi mi aiutò a chiudere la scatola con dentro i miei effetti personali. «Ora andiamo via da questo posto» aggiunse mentre prendeva lo scatolone. Io gli aprii la porta e lo feci uscire, poi mi voltai a guardare un’ultima volta quella stanza ormai vuota che era stata un po’ la mia seconda casa per così tanti anni. Sentii un nodo in gola e le lacrime velarmi gli occhi. Nonostante tutto, nonostante gli ultimi avvenimenti con Ethan, avevo però anche tanti bei ricordi legati a quel posto e a quel lavoro e mi bruciava dovermene andare così in sordina, quasi come una ladra. Poi tirai un profondo sospiro, mi asciugai velocemente di nascosto una lacrima che mi era scivolata giù sulla guancia e richiusi per sempre dietro di me la porta del mio ufficio.