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Sei arrivata in punta di piedi
Il suono del timer mi fece sussultare. Ero così immersa nella lettura del mio libro che mi ero dimenticata di aver messo in forno il ciambellone. Per fortuna che qualcuno aveva pensato di inventare i comodissimi timer. Chiunque fosse stato doveva avere probabilmente una moglie che si dimenticava la cena in forno facendola bruciare. Gliene fui grata. Appoggiai il libro sulla sedia e andai in cucina a togliere il ciambellone. Lo posai sul tavolo e notai che era davvero perfetto, soffice, dorato al punto giusto e meravigliosamente profumato. Mi chinai per annusarlo e inspirai a pieni polmoni il buon odore di cannella che sprigionava. Da quando ero stata licenziata, dieci giorni prima, avevo cercato di ritrovare alcune mie passioni che avevo trascurato in quegli ultimi anni a causa degli intensi impegni di lavoro. Iniziai a dedicarmi un po’ di più a me stessa. Ad esempio, leggevo spesso e avevo anche ripreso a cucinare. Inoltre avevo scoperto che Viola era una buona forchetta e che, a dispetto del suo aspetto così esile e delicato, amava molto mangiare, soprattutto i dolci che ultimamente le preparavo. Intanto ogni mattina trascorrevo diverse ore al computer per cercare annunci di lavoro, inviando il mio curriculum appena se ne presentava l’occasione. Avevo dei soldi da parte, quello sì, ma certamente avrei dovuto trovare un altro lavoro al più presto perché le spese erano sempre tante, anche se i miei genitori mi passavano tutto quello che mi occorreva per Viola. Tolsi il ciambellone dallo stampo e lo misi su un piatto, lo cosparsi di zucchero a velo e lo decorai con piccole gocce di cioccolato e fiorellini di zucchero. A Viola sarebbe piaciuto tantissimo, ne ero sicura. Decisi di andarla a prendere prima a scuola. Ultimamente lo facevo spesso; visto che ero a casa e non lavoravo non aveva senso che lei rimanesse fino al pomeriggio in classe. E poi era sempre contenta di vedermi arrivare prima di tutte le altre mamme. Appena aprivo la porta dell’aula e la maestra la chiamava, lei subito mi faceva un gran sorriso, metteva a posto velocemente la roba che aveva sul banco e correva da me stringendomi la mano. Mi sembrava ogni giorno più rilassata, ogni giorno più serena e avevo anche l’impressione che io e lei fossimo sempre più in sintonia. Ultimamente mi piaceva renderla felice, fare piccoli gesti che la potessero far sentire amata. Stavo lentamente riscoprendo un lato di me stessa che avevo sepolto sotto un cumulo di macerie molti anni prima. Il mio lato dolce e delicato, l’aspetto più allegro e innocente di me che avevo dimenticato per troppo tempo. L’obbligo gravoso di dover accudire Viola, una bambina a me sconosciuta, caratterizzata da pesanti ed enigmatici silenzi che sembravano mettermi davanti ogni giorno alla mia incapacità di comprenderla, si stava lentamente trasformando in un dono inaspettato. Iniziai a comprendere che Viola era un regalo che la vita mi aveva fatto, un’occasione per me di crescere e migliorare, riscoprendo aspetti di me che per anni avevo trascurato trasformandomi in ciò che non ero. La mia solitudine a Roma, il lavoro gravoso alla casa di moda, Ethan con i suoi lussi e i suoi ritmi di vita, avevano contribuito a creare la persona che non avrei mai pensato di diventare. Avevo indossato una maschera che si era trasformata nella mia prigione. Donare un po’ di me stessa a Viola si stava rivelando invece una meravigliosa novità e mi rendeva felice. Era una bambina splendida, che aveva sofferto molto e che adesso aveva solo bisogno di sentirsi amata. Aveva saputo conquistarmi poco a poco. Era arrivata nella mia vita in punta di piedi, lieve e silenziosa come la neve, eppure aveva saputo avvolgere il mio cuore con dolcezza. Iniziai così a fare piccoli gesti per dimostrarle il mio affetto. Una mattina trascorsi ore a gonfiare tanti palloncini colorati e sotto ad ognuno attaccai un biglietto sul quale scrissi con un pennarello « Ti voglio bene». Poi li lasciai volare nella sua stanza. Quando tornammo da scuola il pomeriggio e lei aprì la porta della sua camera rimase a bocca aperta, con gli occhi sbarrati e il naso all’insù ad osservare tutti quei palloncini colorati. Non sapeva leggere, ma subito indicò con il dito i bigliettini appesi al filo. Ne presi uno e mi inginocchiai accanto a lei circondandole la vita con un braccio. Poi mi avvicinai al suo orecchio e le sussurrai «Su ogni foglietto ho scritto Ti voglio bene . E te ne voglio davvero Viola». Lei non rispose niente ma la sua bocca scivolò in un sorriso e fissò i suoi occhi nei miei incatenando i nostri sguardi. E anche se rimase in silenzio, l’amore e la gioia che lessi dentro i suoi occhi, nelle sue iridi di smeraldo, mi scaldarono il cuore più di mille inutili parole. In quel momento compresi che nulla al mondo valeva più di quell’affetto che iniziava a legarmi a lei, nulla era più prezioso che quel suo sguardo riconoscente.
Una domenica mattina, poi, la portai a Villa Borghese e trascorremmo ore solo noi due, a dare da mangiare il pane alle papere, a raccogliere le margherite, a tirare i sassolini bianchi dentro l'acqua divertendoci ad osservare i cerchi concentrici che disegnavano. Un pomeriggio le regalai delle bolle di sapone e, anche se mia madre mi aveva sempre vietato da piccola di farle dentro casa per non sporcare i pavimenti, io lasciai invece che Viola si divertisse a farle in ogni stanza mentre saltellava felice rincorrendole. A poco a poco scoprii che ciò che rendeva felice Viola dava gioia anche a me e sentirla ridere mi riempiva l'animo di speranza e di amore.
Così, anche quel pomeriggio, fu molto contenta di vedermi arrivare prima a scuola e fu ancora più felice quando, tornate a casa, trovò il ciambellone, profumato e decorato, in cucina.
«Hai visto? L’ho fatto proprio per te. Ne vuoi una fetta?» le dissi strizzandole l’occhio.
Lei batté le mani e mi mostrò due dita. La guardai con aria interrogativa.
«Due? Ne vuoi due fette?».
Viola annuì ridendo. Ci divertivamo molto ultimamente io e lei, anche se non parlava ancora come io speravo ma il fatto che stessimo bene insieme per adesso mi bastava. Sentivo che si fidava di me e anche io, a mia volta, stavo imparando a capirla e a conoscerla sempre meglio, sempre più a fondo.
«Stasera potremmo portarne una fetta ad Andrea, che ne dici?» le proposi mentre lei aveva la bocca tutta sporca di zucchero a velo perché aveva appena addentato, con un gran morso, la sua fetta di ciambellone. Nel frattempo suonò il campanello. Non aspettavo nessuno ed era escluso che fosse Andrea visto che a quell’ora stava lavorando. Sussultai spaventata all’idea che potesse essere Ethan. Mi avviai silenziosamente verso la porta, col cuore in gola dalla paura, e guardai dallo spioncino prima di aprire. Per fortuna non era Ethan, bensì un corriere che mi consegnò un misterioso pacco. Viola venne subito a sbirciare ma, una volta che si fu accertata che non c’era niente di interessante per lei, tornò subito in cucina, probabilmente a divorarsi un’altra fetta di dolce. Io invece rimasi là, con quella scatola in mano, chiedendomi di chi fosse.
«Viola tesoro, la zia arriva subito, tu finisci di mangiare e poi lavati le mani» le gridai dal salotto mentre intanto, seduta sul divano, aprivo il pacco. Al suo interno ci stava un’altra scatola molto graziosa, di colore azzurro, decorata con un nastro di seta e tre piccole roselline bianche di raso, molto fini e molto delicate. Sopra la scatola c’era un bigliettino rosa ripiegato. Lo aprii e lessi.
“Tesoro mio, mentre ripulivo il minuscolo appartamento di tua sorella, giorni fa, ho trovato nascosta in fondo all’armadio questa scatola. Credo appartenga a te, senza dubbio. Immagino che tua sorella l’avrebbe donata a te se il destino non l’avesse strappata alla vita troppo presto. Ti abbraccio, con amore. Mamma”.
Rimasi pietrificata, con il biglietto in mano e gli occhi fissi su quella scatola che adesso sembrava quasi una bomba pronta ad esplodermi tra le mani. Non avevo nessuna voglia di vedere cosa mia sorella tenesse chiuso là dentro, non avevo voglia di riaprire vecchie ferite e non avevo voglia di fare un tuffo nei ricordi del passato. Così con un gesto di stizza rimisi il bigliettino di mia madre dentro la scatola e la richiusi. Poi la portai in camera mia, la nascosi dentro l’armadio e tornai in cucina da Viola, decisa a non pensare più a mia sorella e a quella maledetta scatola, almeno per il momento. Trascorremmo il resto del pomeriggio sedute in terra a fare un puzzle di Biancaneve che le avevo regalato il giorno prima. Volevo onorare la mia promessa di comprarle qualche giocattolo nuovo e trovavo l’idea del puzzle molto educativa, soprattutto per una bambina riflessiva, silenziosa e intelligente come era lei. Quando finalmente finimmo il puzzle era ormai ora di cena.
«Andiamo a portare il ciambellone ad Andrea adesso?» chiesi a Viola mentre mi alzavo da terra con le gambe intorpidite per averle tenute troppo a lungo piegate. «Si vede che non ho più l’età ormai per stare ore in terra come un bambino» mi lamentai con una smorfia di dolore, stiracchiandomi.
Viola rise e subito dopo si alzò anche lei precedendomi in cucina. Io tagliai un pezzo di dolce, lo incartai premurosamente in un tovagliolo di carta e lo portammo ad Andrea. Era diventata ormai quasi un’abitudine farci un piccolo saluto veloce, la sera, dopo il suo lavoro. Era una sorta di buonanotte che ci davamo io, Viola ed Andrea. E, dovevo ammetterlo, era un’abitudine davvero piacevole per me.
«Buonasera signorina» disse allegramente Andrea, dopo aver aperto la porta, rivolto a Viola che era già sulla soglia e gli porgeva il tovagliolo. «È per me questo pacchetto?»
Lei annuì felice ridendo e sussurrò «Ciambellone».
Lui fu sorpreso di sentirla parlare per la prima volta e inarcò le sopracciglia sgranando gli occhi. Anche io in effetti rimasi sbalordita perché Viola, quelle poche volte che aveva pronunciato qualche rara parola, l’aveva fatto solo con me, nel silenzio e nell’intimità del nostro piccolo appartamento. Evidentemente considerava ormai Andrea parte del suo mondo, si fidava anche di lui. Speravo che quei piccoli passi fossero un segnale che Viola presto si sarebbe sbloccata del tutto, tornando a parlare come qualsiasi bambina della sua età e mi sembrava di riuscire a vedere un piccolo spiraglio di luce all’uscita del tunnel. Rimanemmo entrambi immobili per qualche istante, sorpresi e felici, guardandoci in silenzio negli occhi. Quella piccola leggera parola sussurrata da Viola aveva avuto su di noi l’effetto dirompente di una bomba. Poi Andrea si riprese dallo stupore e la ringraziò.
«Ciambellone? Ma è il mio preferito, lo adoro. Grazie di avermelo portato. Volete entrare a mangiarlo da me?» propose poi rivolgendo la sua attenzione a me, guardandomi sorridente. «Queste fette sono un regalo per te, così le potrai mangiare domani a colazione» risposi, indicando con un gesto il pacchetto avvolto nei tovaglioli che lui teneva in mano. «Però se ti va puoi venire adesso tu da noi e te ne offriamo un’altra fetta».
Mi piaceva passare qualche ora la sera assieme a lui, rilassata sul divano a chiacchierare oppure facendo qualche gioco insieme a Viola. Era una piacevole abitudine che avevamo preso da qualche sera e mi resi conto che forse non avrei più saputo farne a meno. Mi spaventava l’idea di quando Andrea si sarebbe magari fidanzato o semplicemente si sarebbe stancato di trascorrere il suo tempo con noi. Avrebbe potuto avere ben presto altri impegni ed altri interessi e non avrei certo potuto pretendere assolutamente nulla da lui. Pensando a quell’evenienza sentivo una fitta al cuore e avevo paura che Viola potesse affezionarsi troppo a lui per poi, magari, restarne delusa in seguito, sentendosi abbandonata. O forse quella era solo una scusa che raccontavo a me stessa per non ammettere che, in fondo, quella che sarebbe rimasta male e con il cuore a pezzi, sarei stata proprio io. Mi stavo affezionando ad Andrea più di quanto io avessi mai potuto immaginare. Non lo avrei mai detto, non avrei mai potuto pensare che il mio vicino così riservato e schivo, che preferiva leggere un libro da solo a casa il sabato sera piuttosto che uscire a divertirsi, potesse farmi un giorno battere così forte il cuore. Eppure iniziava a piacermi quel suo modo dolce ma deciso di dire le cose, quel suo tono di voce caldo e profondo che mi faceva vibrare l’anima. Mi piacevano i suoi capelli castani sempre un po’ spettinati e ribelli che gli davano un’aria tenera ma allo stesso tempo molto sensuale. Avevo iniziato a conoscere a fondo anche i suoi occhi grigi, profondi e penetranti, che quando mi fissavano sembravano leggermi dentro al cuore e che sotto la luce del sole brillavano di mille riflessi color ambra e oro. E non potevo negare che mi piacevano anche le sue gambe muscolose, i suoi glutei perfetti e le sue spalle toniche. Alcune volte, quando avevo quei pensieri, arrossivo da sola, nel silenzio del mio animo, magari nel buio della mia camera se per caso mi ritrovavo a pensare a lui prima di addormentami. Anche adesso che ero là, sul pianerottolo con Viola e lo guardavo, sentivo una sensazione di calore e un leggero batticuore.
«Vengo volentieri, però permettetemi di offrirvi una pizza per cena. Le ordiniamo e ce le facciamo portare a casa, che ne dite?» propose Andrea.
Viola batté le manine felice e anche io non potei che accettare con gioia visto che adoravo la pizza. Con Viola la mangiavamo spesso perché ne eravamo ghiotte entrambe. Detto fatto, Andrea ordinò tre belle pizze calde che divorammo con gusto in pochi minuti, mentre chiacchieravamo rilassati intorno al tavolo della mia cucina. E ridemmo, ridemmo tanto, cosa che ultimamente per me era diventata una rarità. E riscoprii il valore terapeutico di una risata. Ridere non è solo un piacere ma, qualche volta, dovrebbe essere anche un dovere. Ed io in quel momento lo dovevo a me stessa e alla mia anima.