Profumi e colori di Parigi
Seduta su una delle piccole sedie in ferro che costeggiavano il laghetto artificiale osservavo Viola che correva felice tra i fiori del giardino. Nonostante fosse maggio le temperature erano ancora piuttosto fresche e tirava un po’ di vento. Ma in fondo a Parigi il clima è sempre piuttosto rigido durante tutto l’anno e anche in estate non è così raro trovare giornate di pioggia e di freddo. Nonostante tutto, però, quella era una bella giornata di primavera, il cielo era azzurro e il sole riscaldava l'aria con i suoi raggi tiepidi. Seduta sulla sedia mi perdevo nei mille colori dei fiori che stavano sbocciando nel giardino di Lussemburgo. Era sempre stato una delle mie mete preferite quando mi recavo a Parigi, lo adoravo. Mi piaceva passeggiare lungo i suoi grandi viali alberati adornati di splendide e romantiche aiuole fiorite, perfetta mescolanza di profumi e di colori, che esplodevano in tutto il loro vigore proprio durante la primavera e l’estate.
I parchi ed i giardini di Parigi diventano splendidamente rigogliosi durante la stagione più calda. Avevo vaghi e remoti ricordi di me e mia sorella che giocavamo a rincorrerci intorno alla fontana, quando eravamo piccole. Quella stessa fontana dove adesso io stessa osservavo Viola giocare in terra con i sassi. Com’è strana la vita. Spesso si cerca di fuggire ad ogni costo da certi ricordi, evitando magari certi luoghi del nostro passato, certe situazioni. Eppure, nonostante tutti i nostri sforzi, alcune volte la vita ci porta nuovamente là, a sbatterci il naso contro. E in quel momento ci rendiamo conto che quel ricordo dal quale cercavamo di sfuggire è invece una dolce nostalgia che mitiga il dolore, piacevole frammento di un passato che non tornerà più e che improvvisamente vorremmo rivivere.
Quando io e Alessia ci eravamo separate, chiudendo il nostro cuore nell’odio, mi era diventato penoso tornare a Parigi e facevo molta fatica ad andare a trovare i miei genitori in quegli ultimi anni che si erano nuovamente trasferiti là. Eppure adesso, sotto quei tiepidi raggi del sole, circondata da mille fiori colorati, con le risate dei bambini che risuonavano nelle mie orecchie e Viola, serena e sorridente, a pochi passi da me, ero terribilmente felice e non avrei desiderato essere da nessun’altra parte, se non là. Un soffio di vento fresco mi accarezzò il viso e mi scompigliò i capelli.
«Viola tesoro, vieni qui che ti metto la felpa» gridai a mia nipote che aveva le braccia lasciate scoperte da una leggera maglietta rosa con le maniche corte. Lei corse da me.
«Non ho freddo» protestò imbronciata.
«Lo so, i bambini non hanno mai freddo. Ed è a questo che servono gli adulti e le zie come me. Per dire alle bambine come te, quando è il momento di indossare la felpa per non ammalarsi» ribattei divertita mentre le chiudevo la lampo.
Viola sbuffò contrariata, poi corse via, fermandosi vicino al laghetto a guardare le piccole barche a vela che galleggiavano sulla superficie dell’acqua. La guardai allontanarsi e pensai con gioia a quanti progressi avessimo fatto io e lei in soli cinque mesi. A gennaio, quando mia madre me l’aveva affidata forzatamente, Viola per me era una perfetta sconosciuta, un fardello pesante che ostacolava la mia libertà, un piccolo folletto antipatico che con i suoi pesanti e odiosi silenzi non mi rendeva le giornate facili. Adesso invece era la mia ragione di vita, illuminava ogni mia giornata con i suoi sorrisi, mi aveva aperto gli occhi su tanti errori che avevo commesso e mi aveva reso una donna migliore. Viola era ormai parte mio cuore, la metà mancante che per molti anni avevo perso dietro l’odio per mia sorella. Era arrivata lieve e silenziosa come la neve, in una fredda mattina invernale. Timidamente nascosta dietro la gonna di mia madre, mi fissava con i suoi grandi occhi chiari. Eppure, proprio come la neve avvolge ogni cosa intorno a sé con il suo manto bianco soffice e lieve, anche Viola aveva avvolto il mio cuore, giorno dopo giorno, entrando nella mia anima con delicatezza, senza mai voler imporre la sua presenza. Guardandola adesso, china sul bordo del laghetto, con i suoi boccoli biondi legati in due treccine, con le sue scarpette lucide e il suo immenso sorriso dipinto sul volto mentre osservava le barche ondeggiare sullo specchio d’acqua, mi sembrava un angelo sceso dal cielo, un regalo che Alessia aveva voluto farmi per chiedermi perdono di tutta la sofferenza che mi aveva causato in passato. Certo, avrei preferito mille volte che mia sorella fosse ancora viva, per poterla abbracciare, per poterla perdonare, per poterla amare, per poterle chiedere perdono io stessa per aver permesso al mio risentimento di chiudermi gli occhi e il cuore così tanto a lungo, per tanto, troppo tempo. Mi si velarono gli occhi di lacrime sulla scia di quei pensieri. Tirai su col naso e le ricacciai indietro a fatica. Presi un fazzoletto di carta dalla tasca e mi tamponai le ciglia umide. Anche Viola era profondamente cambiata in quei cinque mesi. Quando, pochi minuti prima, aveva sbuffato e messo il broncio perché non desiderava indossare la felpa, avevo provato un’incredibile sensazione di gioia perché stava tornando ad essere una bambina come tante, anche con i suoi capricci e la sua caparbietà. Adesso mi sembravano così lontani quei giorni in cui Viola restava in silenzio, da sola, seduta sul divano, imperturbabile come fosse una bambola. Per settimane aveva vissuto chiusa in sé stessa, escludendomi. Non piangeva, non urlava, non rideva, non parlava. Avevo creduto fosse una bambina detestabile, fredda e strana… ma quanto mi ero sbagliata!
In realtà si era chiusa al mondo, come un riccio, solo per difesa, per impedire al suo dolore e alla sua paura di annientarla. Se non fosse stato per Andrea forse non avrei mai davvero compreso Viola. Ancora adesso mi sembrava un miracolo sentirla ridere, vederla correre serena, ascoltarla cantare le canzoni dei cartoni animati alla televisione, dialogare con lei durante una cena o durante una passeggiata. Ricordavo ancora la prima volta che l’avevo sentita cantare in salotto. Ero in cucina a preparare la cena e udii la sua voce. Sbirciai dalla porta e la vidi mentre cantava e ballava felice saltellando per tutto il salotto. Ricordo che piansi. Lacrime di gioia e di incredulità perché in quel momento compresi che adesso lei era davvero serena, là in casa, insieme a me.
«Zia ho fame» cinguettò Viola correndo verso di me e risvegliandomi dai miei pensieri.
«Ma sai che ho fame anche io? Andiamo a cercare un bar» risposi alzandomi dalla sedia e prendendola per mano.
Ci avviammo verso l’uscita, percorrendo i lunghi viali alberati, tra bellissime fontane e incantevoli statue sparse ovunque lungo tutti i giardini. Adoravo quel posto, senza alcun dubbio.
«Zia?» mi chiese ad un certo punto Viola fermandosi e alzando il viso per guardarmi.
«Dimmi».
Sembrava pensierosa.
«Anche mamma mi portava in questi giardini? Perché mi sembra di averli già visti» mi domandò titubante, corrucciando la fronte. I suoi grandi occhi verdi scintillavano di pensieri. Sussultai a quella domanda. Non avevo idea, a dire il vero, se Alessia e Viola fossero mai state in quei giardini insieme ma il fatto che lei ricordasse quei luoghi mi faceva sospettare di sì. Inoltre il ricordo di me e mia sorella che spingevamo con un lungo bastone le barche a vela dentro al laghetto, sotto il sole estivo, era ancora vivo e nitido nella mia mente. Ma non sapevo dire quando fosse successo, né l’età che avevamo. Mia madre era di origini francesi, era nata a Parigi e spesso da piccole ci portava a trovare i nonni. Erano ricordi confusi e lontani ma alcune immagini non mi abbandonavano mai e tornavano prepotentemente nella mia testa come brevi fotogrammi di un film in bianco e nero. Mi accovacciai sui talloni accanto a lei per guardarla meglio negli occhi e risposi nell’unico modo che mi sembrava giusto.
«Sì, tesoro, venivi ai giardini di Lussemburgo anche con tua mamma. E sai una cosa? Anche io e tua madre da piccole ci venivamo e ci piaceva correre lungo questi viali, in mezzo ai fiori, sulla ghiaia bianca. Proprio come hai fatto tu oggi».
Lei sembrò rilassarsi e il suo viso si distese, sereno. Poi allargò la bocca in un sorriso mostrando tutti i suoi piccoli denti bianchi. Sembrava soddisfatta della mia risposta. Afferrò la mia mano e ricominciammo a camminare in silenzio, mentre la ghiaia sfrigolava sotto le nostre scarpe. Era bello poter parlare liberamente con lei di Alessia. Ed ero felice ogni volta che potevo donare a Viola dei ricordi di sua madre raccontandole piccoli aneddoti del passato. Un giorno, da grande, avrebbe potuto comunque ricordare Alessia con amore e dolcezza attraverso le mie parole e i miei racconti. Ero onorata di avere quel ruolo, felice di poter essere io la memoria vivente di Alessia. Ora non era più un peso mia sorella, ma anzi, era colonna portante della mia esistenza, un punto fermo, un faro nella notte. E potevo farla rivivere tramite le mie parole, ogni volta che parlavo di lei a sua figlia.