La prima volta è stato cinque mesi fa, un colpo sordo. Un corpo umano non fa lo stesso rumore di un vaso. Non fa lo stesso rumore di un bicchiere di cristallo. Fa il rumore di un sacco di cemento, o di quei dizionari grossi e duri. C’era del sangue sullo spigolo dell’armadio, l’ho visto subito. Mamma era per terra, incosciente. Aveva un buco sullo zigomo che faceva da sfiatatoio. Ho fatto tutto quello che non si deve fare. L’ho spostata, ho cercato di farle cambiare posizione. È che sembrava un fagotto. Non sono riuscita a metterla in piedi, è una donna alta e pesa molto. Ha ricominciato a muoversi dopo circa tre minuti e ha ripreso subito conoscenza. Abbiamo pensato fosse un episodio isolato, ma si pensano sempre tante cose.
La seconda volta è successo sul balcone davanti, stava annaffiando le piante. La terza volta sul balcone che dà sul retro. Stava lavando a mano delle camicie di Diego trovate in chissà quale cassetto. È uno dei sintomi, cominciare a fare cose senza senso. Le ho chiesto cosa stesse facendo, mi ha detto che lavava le camicie di Diego. Aveva un’espressione un po’ infantile, come una bambina monella o compiaciuta. I pugni non smettevano di sfregare contro le pieghe del lavatoio di cemento, che sono come le costole di un vecchio fumatore. Io le ho chiesto perché stava lavando quelle camicie che Diego non si sarebbe messo e mi ha detto che Diego invece le avrebbe messe, che le aveva appena telefonato, quel fine settimana gli avrebbero dato la licenza e sarebbe venuto a casa.
Non l’ho voluta contraddire, sono rimasta a guardarla. A quel punto si è girata e tutto è diventato strano. La faccia ha preso a contrarsi, diciamo, come quando chiudi un pugno, le si è concentrata tutta intorno al naso. Gli occhi le si sono rovesciati all’indietro, la fronte e la bocca si ritraevano e le guance cominciavano a seccarsi. Poi è scoppiata a piangere ed è crollata.
Il resto del corpo non so dove è andato a finire. La testa ha sfiorato il bordo del lavatoio e la fronte ha colpito in pieno lo spigolo del cubo di metallo dove c’erano altre camicie a mollo, un ammasso di stracci immersi nell’acqua insaponata. Ho cercato di mantenere la calma, in casa non c’era nessun altro. Nemmeno la prima e la seconda volta c’era qualcuno oltre a me. Pensavo fosse una cosa tra me e mia madre e che non stesse succedendo davvero. Come un segnale, no? Una specie di codice femminile. Ma non era niente del genere.
Poi mi ha colto una gran paura, e mi sono rattristata. Era come se, in qualche modo, le mani continuassero a sfregare le camicie di Diego. Le camicie sono diventate stracci rotti e mamma aveva gli occhi rivoltati. Poi mio padre è tornato dall’hotel. Ha mollato la valigetta e ha tirato su mamma. È stato un macello, il balcone è stretto e poi è sempre pieno di roba. Questa cosa mi ha sempre fatto venire il nervoso: la lavatrice automatica che ho comprato al posto della vecchia lavatrice Aurika, ormai andata, le sporte di tela infangate di terra rossa, la busta con le mollette per il bucato, il secchio della spazzatura, l’angolo con il necessario per le pulizie, la paletta, lo spazzolone per lavare a terra, una scopa nuova e due vecchie e cenciose, i fili per stendere con qualche mutanda appesa, le buste del latte vuote messe ad asciugare, il carrello con il cibo alla rinfusa nei cestini, forse delle banane, o della manioca, o patate dolci e non, mai tutto insieme, certo, e anche qualche testa d’aglio secca.
Sotto il lavandino, me ne sono accorta in quel momento, avevamo accumulato delle macerie, per così dire. Panni sporchi di grasso, stracci da pavimento tutti bucati, uno sturalavandino, un barattolo di cloro vuoto, un altro di disinfettante, imbuti di plastica improvvisati e un secchio pieno di attrezzi e chiodi arrugginiti.
Più avanti abbiamo capito che quando mamma cadeva dovevamo lasciarla lì dov’era, perché quelle manovre potevano farle male. Dolori ai muscoli, alle articolazioni. L’abbiamo portata in ospedale, elettroencefalogrammi, tomografia assiale computerizzata, risonanza magnetica nucleare, e dopo tre settimane di esami ne siamo usciti con una terapia a base di coblazam e magnesio valproato che più tardi abbiamo sostituito, perché non era efficace, con topiramato e clonazepam, ma nemmeno questa è servita a molto.
La diagnosi dice che la paziente soffre di epilessia parziale del lobo temporale e i medici lo definiscono un effetto collaterale della chemioterapia. Sei anni fa, mamma è stata operata per un cancro all’utero. Io lo sapevo, Diego no. Diego, in realtà, pensa ancora che l’epilessia di mamma sia spuntata fuori dal nulla.
L’epilessia e le crisi convulsive, mi hanno spiegato, sono alterazioni periodiche dell’attività elettrica cerebrale, e nel caso di mamma i lobi temporali sono la zona di maggior disfunzione. Controllano la memoria e le emozioni, controllano gli stati d’animo e collegano l’udito al linguaggio. Le convulsioni compaiono con maggiore frequenza quando la persona malata è sottoposta a stress fisico, stress emotivo, mancanza di sonno, sebbene ci siano anche altre cause.
La crisi epilettica o gli episodi convulsivi di mamma si annunciano attraverso la caduta a terra e l’aura epilettica, che precede la crisi. Può consistere in sensazioni olfattive, gustative o visive. Poi ci sono i movimenti tonico-clonici, le convulsioni che durano all’incirca da uno a tre minuti, e più tardi compaiono i disturbi del linguaggio e la difficoltà nel coordinare i movimenti e camminare. Mamma non ricorda quello che succede durante la crisi convulsiva, non capisce ciò che le si dice. Possono subentrare anche mal di testa, affaticamento estremo, stanchezza e sonno.
Ho imparato tutte queste nozioni a memoria, sono andata a trovare Diego in caserma e gli ho spiegato. Gli ho detto che alla prossima licenza sarebbe dovuto venire a casa. Non ha capito, ha detto che non era possibile. Mi ha chiesto cos’era mamma. Un vegetale? Era forse un vegetale? Che stupidaggine! Se i lobi temporali, come dicevo io, controllavano la memoria, le emozioni e gli stati d’animo, mamma sarebbe caduta di continuo, no? Se uno non ricorda, comunque si emoziona o è sempre esposto a un’emozione imminente, di qualunque natura sia. Dispiacere, allegria, malinconia, desiderio o qualsiasi altra cosa.
Ha continuato a parlare, ha sempre un modo complicato di vedere le cose, si ingarbuglia da solo. In questo mi sembra proprio identico a nostro padre. Mi ha detto che la questione delle emozioni e della memoria era una cosa tremenda. Io non la vedevo così. Non vedevo niente, in realtà, ma le cadute sì, quelle mi sembravano tremende. Il colpo, il sangue, la malattia, il deterioramento, e anche un po’ l’umiliazione. Un momento sei qui e il momento dopo succede qualcosa e ti ritrovi in un luogo pericoloso, come un viaggio obbligato dal paese dei sani al paese dei malati, no? Come se fossi esiliato. Era quella la cosa più pericolosa, non la memoria né le emozioni.
Ho detto a Diego che la sua ipotesi non aveva nessun fondamento scientifico. Mi ha detto che non capivo, che se a generare le crisi di mamma erano la memoria e le emozioni, per salvarsi avrebbe dovuto abbrutirsi. Smettere di emozionarsi e di ricordare. Ma se smetti di ricordare e di emozionarti, cosa sei, eh?, diceva, cosa sei? Senti, gli ho detto, che ti prende? Siamo rimasti zitti per un po’ e poi ha detto che le cose sarebbero perfino peggiorate.
E in effetti sono peggiorate. Mamma continuava a cadere, ha dovuto lasciare il lavoro. Ha proibito agli alunni delle medie e alle altre insegnanti di venirla a trovare. È arrivata ad avere anche otto crisi alla settimana e non è possibile evitarle tutte. I colpi la sfiniscono, dimentica le parole per dire le cose che vuole dire, ma a volte ha dei barlumi di memoria, come trance durante le quali ricorda qualcosa della sua infanzia o della sua adolescenza o di me o Diego da piccoli, dettagli che aveva dimenticato. Ricordare quelle cose la mette di buon umore, ma io so che non c’è niente di cui rallegrarsi. So che è meglio che non ricordi niente che non ha motivo di ricordare. Poi, a un certo punto, è stato ancora peggio. Sono iniziate le chiamate anonime e mio padre ha cacciato René dall’hotel, cosa che ha aumentato il mio carico di lavoro.
Io continuo a fare ciò che facevo. Ho detto a mamma che volevo smettere di lavorare per rimanere a casa e prendermi cura di lei. Mamma mi ha detto che non potevo farlo. Lo so che non posso, ma gliel’ho detto comunque, perché volevo che lo sapesse. Continuo a portare il cibo a casa, mi divido in tre e in quattro. Non guardo la televisione e non ho, a ventitré anni, nessun tipo di intrattenimento a disposizione. Non credo nemmeno che esista qualcosa che possa intrattenermi. L’unica novità è che negli ultimi mesi ho sviluppato un istinto per i rumori. Anche all’hotel, dove so che non può esserci mia madre. Reagisco a qualunque cosa che caschi o scricchioli.
Dopo un certo numero di cadute, il corpo a volte fa lo stesso rumore dei sacchi di cemento o dei libri spessi e duri tipo i dizionari, ma a volte fa anche lo stesso rumore dei bicchieri di cristallo o dei vasi di porcellana. Sono una gatta impaurita. La forchetta che cade mi inquieta. Però non dico niente, acqua in bocca. Credo di essere una buona figlia e di essere buona in generale.