Il figlio

La base della felicità sta nel dormire le ore necessarie, nell’orario indicato. Non è detto che dopo aver dormito a sufficienza sarai felice, ma se non lo fai, o lo fai fuori orario, non lo sarai di certo. Al centro del malessere mondiale, nel cuore della mediocrità, sta il fatto che tutta quella massa informe di uomini e donne, bambini e bambine, si svegliano ogni giorno all’alba, tra le cinque e mezza, le sei e le sei e mezza di mattina, e si recano malvolentieri, a testa bassa, come bestiame al macello, sonnolenti e intorpiditi, al lavoro o a scuola, istituzioni che odiano e che continuano a riverire.

La giornata parte col piede sbagliato. E da questo momento in poi sarà sempre peggio, per forza, come può andare bene qualcosa a uno che si è svegliato all’alba? C’è forse una routine più terribile di sentire la sveglia, allungare il braccio e spegnerla, alzarsi al buio, sganciare una tristissima serie di sbadigli, levarsi le cispe dagli occhi, fare colazione con del pane vecchio e un po’ di latte, lavarsi i denti, indossare l’uniforme da recluso sociale, e tutto questo senza essersi completamente svegliati, con il cielo ancora buio e il freddo della mattina a lavarci la pelle?

La routine dei soldati in servizio nell’esercito è, se possibile, ancora peggio. A botte di quattro ore, un giorno sì e uno no. Il giorno in cui non abbiamo il turno di guardia svolgiamo altre mansioni, sempre lavori pesanti come, per esempio, spostare due silos di mine anticarro, o un lotto di casse di AKM, o passare il grasso sui caricatori di decine di fucili, o imbiancare con la calce una buona parte della recinzione laterale dell’unità, un muro scrostato alto due metri e mezzo, o ripulire per sei ore il cortile sul retro dalle erbacce, o grattare via la crosta di fuliggine dalle pareti della cucina.

Questo è il presidio militare del paese. Siamo nei sobborghi, le strade intorno non sono asfaltate e solo sul tratto di marciapiede di fronte al cancello c’è una linea discontinua di alloggi, occupati da casalinghe, qualche vetturino, fabbri, venditori di fieno, e cavalli e giumente malnutrite che, quando non sono sellate, riposano in stalle coi pavimenti di terra. Per il resto, di fianco e in fondo, oltre le recinzioni, c’è solo una boscaglia fitta nella quale noi soldati non mettiamo mai piede e dove regna il silenzio, cosa che alle tre di mattina la rende ancora più sinistra, più terribile.

Siamo dotati di casse di fucili, maschere antigas, mine terrestri, pale corte per scavare trincee, munizioni di diverso calibro e un deposito di uniformi. Tutto il necessario per rifornire la gente in caso di guerra, anche se credo che la maggior parte delle scorte si siano guastate. In ogni caso, la nostra missione è preservarle, custodirle. Ci sono due turni di guardia: il primo consiste, di giorno, nel coprire il punto di controllo all’ingresso, aprire alle macchine in entrata, salutando i militari sull’attenti, e, di notte, nel perlustrare il cortile centrale, sorvegliare il magazzino del vestiario e il parcheggio delle macchine; e il secondo turno invece consiste, di giorno come di notte, nell’ispezionare il cortile in fondo, tra gli alberi di mango e di avocado, e nel vigilare l’armeria e la cucina.

Ci sono soldati che devono fare due anni di servizio militare e ci sono soldati, quelli iscritti all’università, come me, che devono farne uno solo. Ultimamente gli altri mi guardano male. È perché mi manca poco. Oggi in camerata spettegolavano su di me. Lo so perché sono entrato all’improvviso e si sono zittiti tutti. Ho riposato mezz’ora dopo pranzo e poi ho montato la guardia. I turni vanno dalle otto di mattina a mezzogiorno, da mezzogiorno alle quattro di pomeriggio, e così via. In servizio, le ore ti schiacciano come una morsa.

In questo momento ho addosso i grossi stivali Coloso con la punta d’acciaio e i lacci stretti fino al polpaccio, l’uniforme verde oliva, la cintura stretta in vita, la baionetta appesa alla cintura, il berretto appena calzato, come se mi si fosse posato sulla testa, così pesa di meno, e sto coprendo il turno che va da mezzogiorno alle quattro di pomeriggio e che noi soldati chiamiamo il grande sbadiglio. Siamo in grado di addormentarci in piedi, mentre in piena digestione simuliamo il tragitto stabilito, e così addormentati possiamo continuare a camminare, e tutto quello che facciamo lo facciamo addormentati, come se ci trovassimo ancora nello stesso contenitore, ma fossimo temporaneamente un’altra sostanza più appiccicosa.

Arriva un ufficiale su una jeep. Vado verso il cancello. Lo apro il più velocemente possibile, voglio che l’ufficiale si accorga di quanto sono efficiente nell’aprire il cancello d’ingresso, anche se non esiste un metodo reale e certo con cui un soldato possa provare di essere più efficiente di un altro nell’arte di aprire il cancello, tranne, naturalmente, sbrigarsi il più possibile, cosa che agli ufficiali alla lunga interessa ben poco o, a essere sinceri, niente.

Il sudore mi bagna le cosce e la testa. Mi sto cuocendo. Non è sempre così. Il mio orologio interno in genere non tradisce. La mattina, la luce plana sulle cose e a volte soffia qualche refolo d’aria. Il caldo è minimo, il giorno esiste appena. Poi la luce sale e ogni traccia di umidità sparisce. A mezzogiorno la nitidezza rende tutto un po’ più scuro, la luce fa il contrario di quello che dovrebbe fare e le sagome perdono i contorni. Dopodiché il sole raggiunge lo zenit per qualche secondo e la luminosità acquisisce proprietà liquide. Infanga, inonda, fluisce, crea onde, straripa, affoga. A quest’ora il sole è finalmente un sole di ferro, duro, viaggia come una stoccata, e su quel letto riposiamo.

Ma il giorno per il soldato esperto è una passeggiata. È la notte che misura lo stato della nostra salute mentale. A notte fonda, contrariamente a quanto si crede, gli oggetti sono svegli e ti guardano. Un soldato può ascoltare ciò che le pareti e le colonne hanno da dirgli, ma non deve mai rispondere. La principale risorsa è la masturbazione. Io sono a quota tre seghe per turno. In genere mi faccio la prima sega almeno dopo le prime due ore di guardia, per arrivare a metà strada senza steroidi. Pensare che hai ancora tre ore di guardia e tre seghe a disposizione non è uguale a pensare di avere ancora tre ore di guardia ed essersi già sparati la prima sega. Nel secondo caso rischi di avere troppo tempo per te.

Abbiamo anche altre armi: smettere di aver paura della notte o del buio, smettere di aver paura dei rumori, sapere che i rumori sono amici, il vero rivale è il silenzio, premiare i ricordi piacevoli, bandire quelli dannosi e, se non si hanno molti ricordi piacevoli, come nel mio caso, allora non ricordare affatto, svuotare la mente e lavorare in tempo reale, guardia dopo guardia, fino all’arrivo della guerra.

Esiste, poi, un’arma segreta che ogni soldato ricava a partire dalle sue esperienze concrete, dalla persona specifica che è, ma che nessuno svela, quell’atto sinistro che ognuno di noi perpetra nella più rigida solitudine. Se ingrani, diventa tutto più tollerabile. Così, per esempio, in mezzo a tanto trambusto, non ho tempo di pensare a mia madre. Occupato come sono a non fare niente, non ho la testa per molto altro.