La madre

Armando beve un po’ d’acqua ed evita il mio sguardo. Non gli piace che lo rimproveri, ma io non lo rimprovero, faccio luce su ciò che lui non riesce a vedere. A tavola, tra un boccone e l’altro, mi ha detto che il funzionario del Partito gli ha chiesto di sostituire un barman e un dipendente dell’hotel con due nuove risorse. Mi ha detto che si è rifiutato. Gli ho detto che non poteva rifiutarsi. Mi ha chiesto perché. Gli ho detto che il funzionario del Partito senz’altro voleva far lavorare quei due uomini con cui era in combutta per rubare. Mi ha detto che è proprio quello il motivo per cui si è rifiutato. Gli ho detto che penseranno che si è rifiutato perché lui stesso è già in combutta con i due dipendenti che non ha voluto sostituire, e che sembrerà proprio quella la ragione per cui lui si rifiuta, poter rubare, quella e nessun’altra.

Per principio, mi ha detto. Mi rifiuto per principio. Non posso permettere che rubino, mi ha detto. María si concentra sul suo piatto. Va bene, per principio, gli ho detto, e Armando comincia a raccontarmi l’aneddoto di quando Che Guevara rifiutò la bicicletta che l’amministratore di una fabbrica voleva regalare a sua figlia. Quelle biciclette, dice Armando che disse il Che, sono di proprietà dello Stato, non sue.

Questa storia l’ho sentita molte volte. Non so se è vera o Armando se l’è inventata. Comunque sia mi fa venire il mal di testa. L’ho sentita quando lo hanno trasferito, un anno e mezzo fa. Armando lavorava alla delegazione provinciale del Ministero del Turismo quando gli hanno assegnato la direzione dell’hotel. Come prima cosa ha voluto licenziare María perché avrebbero potuto accusarlo di favoritismo, María però lavorava in quell’hotel da prima che arrivasse Armando, quindi non poteva farci molto. Di fatto erano stati dei suoi colleghi, di Armando, a trovare a María il posto da responsabile di sala. Di nascosto. Allora Armando se l’era presa. Nemmeno io avrei voluto che María lasciasse l’università, ma lei ha preferito così. A ben guardare, non c’erano quasi alternative. Per me è stato un sollievo.

Poi María ha conosciuto René e sono diventati amici. Io pensavo che si sarebbero fidanzati e l’ho desiderato con tutte le mie forze, ma non è successo. Eppure, per qualche ragione anche René ha cominciato ad aiutarci. Poi è arrivato Armando all’hotel e, siccome René veniva spesso a farci visita, lo ha nominato suo autista tra tutti gli autisti. Non è conveniente, mi ha detto René. Con tutto il rispetto, non mi conviene guidare per il direttore, mi ha detto. Ma non era al direttore che si riferiva. Era proprio ad Armando. Non gli conveniva guidare per Armando. Ti capisco, caro, gli ho detto, mentre gli porgevo una tazza di caffè. Me lo ricordo. Una tazza di caffè fumante che René ha afferrato con le mani sporche di grasso, riuscivo a vedere il nero sotto le unghie, mentre il pomeriggio piombava dal balcone e si posava nel solco della sua mano.

Finiamo di mangiare. María si chiude in camera, dice di essere stanca. Armando lava i piatti e io vado a guardare la televisione. Squilla il telefono e Armando si affretta a rispondere. È per me. Gli faccio segno di dire che non ci sono. È un ex alunno che vuole sapere come sto, è preoccupato. La verità è che non voglio parlare con nessuno. Per venticinque anni ho tirato su dei ragazzini che poi la vita avrebbe guastato. Mi sarebbe piaciuto dedicarmi solo ai miei figli. Ora però mi sono lasciata tutto alle spalle. Chi ho cresciuto e chi no.

Intorno a mezzanotte Armando chiude le finestre, mette il chiavistello alla porta e andiamo a letto. A notte fonda squilla il telefono e mi spavento. Armando mi impedisce di rispondere. Sento il cervello che mi fa scintille. Stringo le mandibole e mi avvicino a lui. Fa freddo, sono sola e albeggia. Nonostante abbia dormito, non mi sembra di aver riposato.

Armando e María vanno al lavoro. Io non ho voglia di far niente. Cerco nei cassetti, cambio le lenzuola e torno a letto. Il mio corpo è come un paese che a volte visito. Ho aspettato per mesi sulle panchine avvitate alla circonvallazione delle mie orecchie e non è venuto nessuno, nessuna macchina, nessun carretto, nessun messaggero.

Ho attraversato l’arco della mia fronte, pensando si trattasse della strada principale della città, pensando che l’avrebbero percorsa gli autobus e che ci sarebbero stati semafori e venditori di giornali agli angoli, finché una polvere rossa e vecchia mi ha inondato gli occhi. Le pietre rotolavano e cadevano rumorosamente. Ho nuotato per miglia verso l’interno, nelle acque scure. Ho fatto tante bracciate quante me ne hanno consentite i polmoni. Mi è sembrato che lì, a quella profondità, ci fosse qualcosa di minaccioso che mordeva il fondo, piccole cavallette cieche, creature penose, fragili, impaurite e deformate dal panico. Ma non riuscivo nemmeno a distinguerle.

Cosa sono esattamente, se ormai so di non essere tutta questa carne? Dov’è casa mia, la mia stanza? Che parte del mio corpo possono uccidere senza che io senta dolore? Che parte mi farebbe male come un parente lontano? Che parte mi farebbe male come un familiare e che parte mi farebbe male come se fossi io stessa? Non sono un globulo che mi percorre da cima a fondo. Me ne sto ferma, rannicchiata in un punto preciso, cercando di non farmi trovare dalla morte. Mi guardo la mano, la muovo, e riesco a sentirla indipendente da me. Capisco che non sono quella mano, che mi trovo da qualche parte al di fuori di quella mano.

Mi alzo, vado in cucina e bevo un bicchiere d’acqua. In televisione c’è qualcuno che parla, anche se non ricordo di averla accesa. Ma non la spengo. Un professore fa lezione in inglese. Guardo il soffitto. Vedo delle figure, ma non riesco a identificarne nessuna. Vedo macchie. Chiudo gli occhi. Continuo a vedere figure e macchie e non riesco a identificare nemmeno queste. Le parole del professore sono musica per le mie orecchie. Ha una voce dolce e, dentro la voce, quell’ultima serratura inevitabile delle lingue che non sono la tua. È quello che credo di essere dentro il mio corpo. Sono la lingua in cui parla. Niente di più.

Il professore, sento, chiede cosa studia la chimica. Silenzio. I prodotti chimici, sembra rispondere un alunno. Prodotti chimici?, dice il professore. E poi dice no, e poi, mi pare, dice che la chimica non studia i prodotti chimici. La chimica tecnicamente è lo studio della materia, dice, ma io preferisco considerarla lo studio dei mutamenti.

Sono così calma che non mi sento il battito. Vado in salotto, leggo i sottotitoli, il mio inglese non è abbastanza buono. Guardate qui, dice, cambiano i livelli energetici degli elettroni. Continuo a battere. Lo so, perché in caso contrario non potrei pensare che il mio cuore non batte più. Cambiano i legami fra le molecole, dice. Ha una voce grave, mi pare che al professore piaccia insegnare. Gli elementi si combinano e si trasformano in composti. È la vita stessa, non vi pare?, chiede. Io annuisco. La vita è proprio questo. È la costante, dice, il ciclo. Soluzione, dissoluzione, e così all’infinito. È crescita, decomposizione e poi trasformazione, dice. Dopo aggiunge qualcosa che non faccio in tempo a leggere.

Mi piacerebbe fare sesso con quel professore, sentire la sua voce straniera che filtra nel mio orecchio.