La macchina si è spenta e io sono rimasto seduto, con la cintura stretta sulla pancia. Ho guardato dallo specchietto retrovisore. Da dietro arrivavano molte altre macchine, un rimorchio grande, senza sponda, che caricava container, e in lontananza un signore in bicicletta con una bambina. Era un padre che portava la figlia a scuola, ma non so se l’ho visto alla prima occhiata, sicuramente no.
Alla prima occhiata, dopo il rimorchio, credo di aver visto solo la strada vuota, quella striscia d’asfalto, la cicatrice di cemento che sono le strade. Credo che il padre e la bambina siano apparsi parecchio tempo dopo. In ogni caso sono rimasto seduto al mio posto il tempo necessario, con la cintura stretta sulla pancia, finché il padre e la bambina sono apparsi lì in fondo allo specchietto retrovisore, come un punto intuibile a malapena, qualcosa che a quella distanza non si capiva bene cosa fosse, ma mano a mano che si avvicinavano erano un padre e la sua bambina. Mi sono passati accanto, lei col grembiule delle elementari, il fazzoletto rosso, il sacchetto della merenda legato al manubrio. Non chiacchieravano, ma sembravano comunque avere un’ottima relazione padre-figlia.
Mi sono ricordato di un giorno preciso, tanto tempo prima. Erano gli anni duri, io non ero andato al lavoro. Avevo una specie di febbriciattola, un leggero malessere. Mi dondolavo sulla poltrona in salotto e Mariana si avvicinò e mi si sedette in braccio con il suo afrore. Puzzavamo tutti in quel periodo. Era quasi mezzogiorno. Mariana arrivò dalla cucina, con i vapori e il burro che le inacidivano il sudore e la pelle. Non era andata a scuola per stare con me. Una lucentezza spessa le copriva le braccia e il collo, aveva le ciocche di capelli appiccicate alle tempie.
Mi baciò, mi guardò e tornò alle sue faccende. Già allora avrei potuto girare per casa a tentoni e riconoscere ogni cosa dal rumore che faceva, era il funzionamento interno del motore del focolare. Le guarnizioni del frigo che si staccavano, la valvola del gas aperta, quel sibilo. Mariana che accendeva un fiammifero, usciva in balcone e frugava nel carrello delle vivande. Poi se ne stava con le mani in mano in attesa che la padella si riscaldasse, di sicuro con lo sguardo fisso sui residui bruciati che per l’ennesima volta nuotavano nell’olio riciclato. Poi friggeva qualcosa, prendeva un piatto tra quelli ad asciugare, apriva un recipiente e poi, sulla soglia tra la sala da pranzo e il salotto, con il recipiente in mano, Mariana si fermò.
Mi guardò di nuovo, pronunciò il mio nome. Io ripiegai il giornale che avevo preso dalla valigetta che portavo al lavoro. Dissi: Faccio quello che posso. Mariana disse: Pensaci. Dissi: Non è una cosa a cui debba pensare, non parliamone più per favore. Disse: Non mi pare giusto da parte tua. Dissi: Dammelo, glielo porto io il pranzo.
Mariana non rispose, le presi il contenitore dalle mani, cercai una busta e ce lo infilai. Per strada camminai veloce e la febbriciattola piano piano scomparve. Non mi accorsi di essere arrivato alla scuola finché il chiasso non mi strappò ai miei pensieri. Un ragazzino mi venne addosso correndo, inciampò e per poco non cadde. Tre passi più in là il suo compagno di giochi riuscì ad acchiapparlo. Ridevano e ansimavano. Le camicie di fuori, lerce come i pantaloni. Li richiamai con la voce grossa. Sistematevi la camicia, dissi. Uno di loro mi chiese scusa. L’altro brontolò, ma poi obbedì. Si slacciò la cinta e si infilò la camicia nei pantaloni, ma era corta e presto gli sarebbe uscita fuori di nuovo.
Mia figlia aveva undici anni. Superai il primo corridoio, attraversai il cortile centrale e arrivai nella sua classe. Era seduta a uno degli ultimi banchi, in fondo all’aula. Stava scrivendo su un quaderno, con i libri sparsi tutto intorno. La baciai sulla fronte e, com’era prevedibile, si sorprese di vedermi lì. Non le avevo mai portato io il pranzo. Cercai di sistemarle i capelli e mi scansò la mano, come se la infastidissi. Tirai fuori il contenitore e feci spazio tra i libri.
Mescolò l’uovo con il riso. Ruppe il tuorlo, lo vidi mentre si espandeva. Mia figlia rimestava quell’intruglio con il cucchiaio, agile e soddisfatta. Tagliò a fette la banana. Osservai attentamente il recipiente e mi meravigliai. Sapevo che il suo pranzo non sarebbe potuto essere diverso, però non mi aspettavo di vederla mangiare il riso, l’uovo e la banana fritta, come se nutrissi la speranza che nel tragitto qualche prestigiatore avesse scambiato il cibo nel contenitore.
La banana appena spezzettata, mangiata poco alla volta, per non sprecarla. Mia figlia stava imparando a dominare l’arte della scarsezza. Un chicco di riso le pendeva dall’angolo della bocca, ingoiava in silenzio. Riempiva il cucchiaio e se lo portava alla bocca, felice. Poi alzò la testa e la guardai, la sua faccia mi sarebbe rimasta impressa e più di dieci anni dopo l’avrei ricordata seduto sul sedile di una Nissan, mentre si portava il cucchiaio alla bocca, un boccone abbondante, ma attenta a lasciare qualcosa per dopo, nel tentativo di soddisfare la fame prolungando però il pranzo il più possibile. Mia figlia masticava, quando si accorse che la stavo guardando mi posò la mano sulla spalla e aspettò prima di mandare giù. Solo a quel punto, la sua vocina leggera disse, spandendo un forte odore di uovo fritto: È successo qualcosa, papà?
Poi ho continuato a ricordare, un ripasso estenuante, quasi giorno per giorno, sfogliando il libro della mia vita, i lavori fatti, la crescita dei miei figli, il rinforzarsi delle mie convinzioni, le persone con cui ho dovuto litigare, l’evoluzione familiare, la resistenza collettiva, il giorno in cui sono arrivato all’hotel, il tradimento dell’autista, insomma, tutto. Fino a quella mattina in cui la Nissan mi lasciava di nuovo a metà strada. Volevo tornare a casa e così ho fatto. Ho attraversato la strada e dal marciapiede opposto ho chiesto un passaggio. Per una volta mi sono concesso il lusso di comprarmi qualche birra in un negozio vicino casa e ho proseguito.
Quando sono entrato, Mariana era sotto il tavolo della sala da pranzo, c’era sangue ovunque. A prima vista non sono riuscito a capire cosa si fosse rotta. L’ho fissata per un secondo, le tremava un piede. Subito dopo l’ho tirata su, l’ho pulita come ho potuto e l’ho portata a letto. Ho preso il telefono per chiamare l’hotel. Ho detto: Non vengo. Ho comunicato la posizione della Nissan. Ho stappato una birra in balcone. Un professore impartiva lezioni di chimica in televisione. Ho pensato a cilindri graduati, densimetri, provette. Il professore parlava inglese. Statura normale, razza caucasica, baffi e capelli rossicci. Portava gli occhiali, dei pantaloni marroni sintetici e una camicia a righe gialle e verdi, ma su toni chiari.
Dissertava sulla chiralità, che non è altro, diceva, che la capacità che un oggetto possiede di sovrapporsi a ciò che gli esperti chiamano la sua immagine speculare. Vale a dire il suo doppio, la sua anima gemella. La sinistra, diceva il professore parlando delle mani, è uguale alla destra. Identiche, ma opposte. Il professore voleva spiegare ai suoi alunni che determinati composti organici possono funzionare come le mani. Gli alunni sembravano comprendere l’analogia, qualcuno prendeva appunti. Solo che, sebbene sembrino uguali, ha detto il professore indicando una rappresentazione del composto sulla lavagna, non sempre si comportano nello stesso modo. Ha nominato la talidomide, e il suo isomero destro, così utile ad alleviare la nausea delle donne incinte.
Ho finito la prima birra, ho aperto la seconda e me la sono scolata in un attimo. Non resisto molto a sentire queste cose. Se per errore, ha detto, una donna incinta assumesse l’isomero sinistro della talidomide, il bambino nascerebbe con delle malformazioni fisiche orribili. E ha aggiunto: ed è esattamente quello che è successo negli anni Cinquanta. Bambini nati con gli occhi sulla fronte e il cervello secco come uva passa.
Ho riempito un secchio d’acqua e, con un bicchiere di alluminio che affiorava in superficie, mi sono messo ad annaffiare le piante del balcone. Avevo tutto il tempo per me. Dopo la quarta birra, hanno cominciato ad apparirmi dei flash, come in una radiografia difettosa, e in quell’intermittenza non vedevo più l’immagine fissa del mio appartamento, dei mobili e delle pareti, e ho scoperto allora ciò che nascondeva quell’immagine.
Di cosa c’era bisogno per un’esperienza del genere? Non solo alcol, probabilmente, ma anche molte altre attenuanti e aggravanti, ma ognuno aveva le sue, io non mi azzardavo a raccomandarle. Era il mio giorno libero e coltivavo il mio giardino.