Mamma sostiene che in quelle telefonate le dicono che io sono lesbica. Le dicono: Tua figlia è lesbica. Le dicono: Tuo marito è una spia comunista. Le dicono: Tua figlia è un’invertita, è così che l’hai cresciuta. Le dicono: Tuo figlio ucciderà tuo marito. Le dicono: Questo è il tuo ultimo anno. La voce, secondo mamma, è squillante, impersonale, una voce sicura. La voce a volte scoppia a ridere e subito aggiunge: Sono nella tua testa, cacasotto, dentro la tua testa.
Mamma dice che è Migdalia a chiamare, ma non mi pare ci creda molto neanche lei. Lo dice tanto per dire, tanto per dare la colpa a qualcuno. L’idea che non ci sia un colpevole è insopportabile. Io sono sicura che non è Migdalia. Io arrivo dal lavoro, vedo Migdalia che chiacchiera per strada con qualche vicino, entro in casa e mamma mi urla che l’hanno appena chiamata. Non può essere Migdalia. Però mamma insiste.
Capisco la sua ossessione. È ingiusta, ma la capisco. Migdalia era la sua migliore amica. Anche se, insomma, per quanto mi riguarda i migliori amici non esistono, nessuno è amico di nessuno, siamo tutti soli. Anche Migdalia e mamma erano sole, ma per un periodo sembrava che non lo fossero. Un periodo lungo, in effetti. Per anni hanno finto compagnia, amore, comprensione.
Sono vicine di casa, entrambe insegnanti nella stessa scuola media. Migdalia di fisica e mamma di lingua spagnola. Di solito andavano e tornavano insieme dal lavoro. Ciascuna con la sua borsa, la gonna grigia o nera e una camicia fantasia. Condividevano pettegolezzi, voci. Si raccontavano segreti e anche stupidaggini. Mi pare che fossero sempre pronte ad ascoltarsi. L’amicizia è questo, dicono. Ascoltare o prestare attenzione all’altro, anche quando parla di cose che non ti interessano, anzi soprattutto in quel caso.
Due anni fa però sono arrivati i televisori e i telefoni per ogni comitato di vicini, un televisore e un telefono per l’intero palazzo. Bisognava disputarseli per meriti e qualità. Si diceva che era la ricompensa del bene ma fu l’esatto contrario: il seme della distruzione. Cominciò a girare una voce, e fu un disastro, perché le chiacchiere da pianerottolo sono la rovina. È evidente, basta vedere cosa succede giorno dopo giorno, il vicinato è una patata bagnata che marcisce da sola nel cesto.
Migdalia smise quasi di venirci a trovare, ridusse le sue visite al minimo indispensabile. Veniva ogni tanto per salvare le apparenze, la stessa ragione per cui qualche volta anche mamma andava da lei. Passava a chiederci un po’ di zucchero o dell’acqua fredda o del ghiaccio e mamma le chiedeva qualche cipolla, delle teste d’aglio, o chissà che altro. Le cose andavano avanti così perché non sapevano vivere in altro modo. In quel momento la loro amicizia era come una macchina che continua a camminare per qualche metro dopo essersi spenta. Come può finire un’amicizia tra due persone che rimarranno insieme nello stesso quartiere per sempre, che si vedranno e si incontreranno per strada fino alla fine dei loro giorni? Credo che abbiano avuto paura e non ne abbiano parlato. Credo che non abbiano parlato quando avrebbero dovuto, ma non lo so, davvero non lo so. Quello che so è che il momento di chiarirsi è passato e loro erano girate dall’altra parte.
Il giorno arrivò e io sentii che, se anche il televisore fosse toccato a noi, ormai era troppo tardi, il danno era fatto. Io avevo vent’anni. Diego, quindici. Cosa poteva importarci ormai del televisore? Alle otto e mezza di sera, dopo il telegiornale, ci riunimmo per strada con tutti gli altri vicini. Ci accalcammo intorno all’ingresso. A un balcone fu appesa una bandiera. Il delegato incaricato di spiegarci come funzionava ci chiese di avvicinarci. Lui era al centro, con dei fogli in mano. Eravamo un condominio, tutto sommato, pacifico. Mi chiesi perché ci avessero voluto accontentare. Tutte le famiglie che non possedevano né televisore né telefono desideravano il televisore e il telefono. Io no, Diego no, mamma invece sì. Il delegato parlava ed erano tutti così spaventati che avevano volti impietriti, come di gesso. Il sollievo rappresentato da un televisore e da un telefono, non so, quel privilegio, avrebbe cancellato la complicità che tanta penuria aveva contribuito a creare, l’attaccamento tipico della scarsità.
Il televisore e il telefono sarebbero stati assegnati al nucleo familiare che aveva accumulato più meriti nelle diverse valutazioni quinquennali. Avrebbero considerato qual era la famiglia meno introversa, il nucleo con il maggior numero di componenti disposti alla conversazione, chi erano quelli che salutavano più spesso o che più strillavano da balcone a balcone per parlare con i vicini. Per una ragione qualunque: il serbatoio dell’acqua era a secco o ti serviva un condimento o del sapone per il bagno. Un altro aspetto importante: quali erano le famiglie a cui mancavano più cose? Chi si trovava a chiedere più spesso aiuto ai vicini? Bisognava sempre assicurarsi che ci mancasse qualcosa perché l’altruismo fosse garantito.
Avrebbero anche verificato quale famiglia aveva gli antenati più poveri. Chi aveva sofferto di più nel corso della storia? Non erano sufficienti i meriti che i vivi erano stati in grado di accumulare. Se riuscivi a dimostrare di avere un bisnonno morto di fame in qualche riconcentramento ottocentesco, o qualcosa del genere, accumulavi punti in vista del ricco premio.
Avevamo sentito i racconti di altri. Un vicino ne candidava un altro. Un altro vicino ne candidava un altro ancora. Poi la gente cercava di mantenere le buone maniere, ma le liti tra i simpatizzanti dell’uno e dell’altro salivano di intensità. I prescelti cercavano di restare in disparte, ma senz’altro, è ovvio, ognuno di loro stilava la lista degli amici e dei nemici. Poi qualcuno diceva una parola di troppo, poi un altro lo offendeva, e piano piano venivano fuori gli scheletri negli armadi, come se per tutta la vita i vicini si fossero studiati a vicenda per poi pareggiare i conti il giorno in cui sarebbero arrivati il televisore e il telefono.
In qualche riunione non mancarono risse, tirate di capelli tra donne, spintoni tra uomini. Alla lunga però i litigi con tanto di spargimento di sangue furono in fondo i meno gravi. In molti casi i vicini tornarono in buoni rapporti e ci fu chi mise il televisore a disposizione del quartiere. Il telefono, invece, era destinato da subito a quella funzione. Veniva concesso a una famiglia, a patto che si stabilisse un orario in cui destinare l’apparecchio all’uso pubblico, preferibilmente in serata. Anche se nel nostro palazzo nessuno volle usarlo, ed è così tuttora, non lo usa nessuno. Perché? Proprio perché non ci fu nessuno spargimento di sangue. È rimasto tutto dentro, come un ematoma che ci ha infestato e tarlato in silenzio.
Il delegato concluse il suo intervento. Ci guardammo e qualcuno si schiarì la gola, per conto suo e degli altri. Bene, adesso una nomina, disse il delegato. Niente lasciava presagire che il nostro palazzo dovesse essere diverso dagli altri, eravamo passati tutti per le stesse cose, eppure fu proprio così. Nessuno aprì bocca, nessuno disse nulla, cinque minuti di silenzio di gruppo. Gente che non era mai stata zitta un attimo di colpo ammutolì. Una nomina, insisté il delegato. Mariana e Armando, disse Migdalia.
In quanti altri quartieri il rivale in corsa propose il suo avversario? Migdalia lo fece. Esisteva una legge non scritta, che tutti i candidati con effettivi meriti rispettavano, secondo la quale loro non nominavano nessuno, aspettavano che lo facessero gli altri. Ci sono sempre vicini con più meriti degli altri e tutti sanno chi deve fare un nome e chi deve aspettare di essere nominato. Migdalia non doveva proporre nessuno, doveva aspettare di essere nominata, e invece lo fece.
Mio padre disse a Diego di levare la bandiera. Tutti tornarono nei rispettivi appartamenti. Negli ultimi tre anni mamma e Migdalia non si sono mai più parlate. Non si sono rivolte una sola parola. A mamma sembrava non importare granché, fino a quando non si è ammalata, ma io so che non è Migdalia a fare le telefonate. In realtà lo sappiamo tutti a casa. Credo che mamma sappia chi è ma non lo voglia dire.
Me lo chiedo, e in effetti mi chiedo tante altre cose. Da dove è saltata fuori la malattia di mamma, per esempio? Mi piace il mio lavoro? Mi piace essermi caricata l’intera casa sulle spalle? Oppure, com’erano i miei genitori quando non erano i miei genitori? Ma, soprattutto, il grande quesito, la domanda da un milione, la domanda che mi faccio da sempre e che può sembrare ridicola ma non lo è: perché nessuno dei due mangia pollo, in nessuna forma, e perché non ne parlano?
Mai vuol dire mai, eh. Non mangiano pollo, e non ne parlano. Mai.