Il figlio

Mangiavamo per terra, tanto per dirne una. Non avevamo un tavolo. So che sembra incredibile, tutti hanno un tavolo, ma noi eravamo così poveri da non avere nemmeno quello. A me andava bene così. Quanti anni avevo? Quattro, cinque? Non mi importava, per me era tutto una festa. Di fatto, credevo l’unica cosa che si può credere a quell’età, e cioè che il mondo era stato progettato senza un tavolo in sala da pranzo, che il mondo era sprovvisto di certe cose, ridotto all’osso, e che in tutte le case del paese si mangiava come mangiavamo noi, con una tovaglia stesa a terra, la nostra era verde limone e piena di macchie di liquidi rovesciati, e quattro cuscini al posto delle sedie.

Più tardi un tavolo lo rimediammo, credo dalla vecchia casa di nonna, un tavolo che con gli anni ha cominciato a traballare ma che all’epoca era in buone condizioni. Quello che non capisco è perché, se a casa di nonna c’era un tavolo, per mesi, forse per anni, abbiamo mangiato per terra, e dev’essere stato per volontà di Armando, per la sua visione ascetica, frugale, da uomo nuovo.

Ci sono mancate molte altre cose. Non ho mai avuto dei pattini. Non ho mai avuto una bicicletta. Non mi hanno mai organizzato una festa di compleanno. Non ho mai avuto il Nintendo. Non è grave, in generale, ma lo era nel mio quartiere, dove agli altri ragazzini – anche loro figli di genitori che lavoravano nel settore del turismo, ma i cui genitori, loro sì, rubavano con dovuta cautela – non mancava nulla. Io ero la pecora nera del quartiere. Eppure, riconosco che né la bicicletta né i pattini né i compleanni sono cose essenziali. Lo riconosco, lo ammetto. Ma il televisore. Non abbiamo mai avuto un televisore. Come spiegarlo? Come spiegare cosa significava a otto, nove, dieci anni, tornare da scuola e non avere niente da accendere, quando tutte le altre famiglie ce l’avevano? Come affrontare quel buco nella libreria che avrebbe dovuto trasmettere i programmi per bambini?

È lì che ha origine la mia personalità, e difendo chi sono diventato, uno che guardava i cartoni nel salotto dei vicini, uno che doveva affacciarsi tra le sbarre delle finestre altrui, in piedi sulle scale o negli androni. Ero il più bravo della classe, i miei genitori lo sapevano, lo sapevano tutti. E non mi hanno mai premiato, non si sono preoccupati di farlo. D’accordo, in quel momento non ne ero consapevole. Pensavo che i miei genitori mi dessero tutto ciò che potevano darmi, ma adesso capisco che non era così, che avrebbero potuto fare di più, soprattutto Armando, anche se mi chiedo perché mia madre non abbia chiesto il divorzio, che senso aveva sopportare quello sgorbio antiquato di marito e, allo stesso tempo, sacrificare l’infanzia dei suoi due figli.

Quando ero in prima elementare i maestri mi venivano a prendere in aula, mi portavano davanti a una classe di bambini di due o tre anni più grandi di me e mi facevano ripetere le tabelline, o i postulati della geometria euclidea, una retta è la distanza più breve tra due punti, dicevo, o dato un punto e una lunghezza è possibile descrivere una circonferenza, si può prolungare un segmento oltre i due punti indefinitamente, che è un postulato che oggi mi interessa in modo particolare, o due rette parallele non si incontrano mai, dicevo, anche se ora so che non è vero, perché tutto in un determinato momento e in un dato punto dello spazio si incontra, sia retto, curvo o nullo, e le maestre mi guardavano orgogliose, e gli alunni più grandi no, ovviamente, anzi mi odiavano, mentre le maestre mi elogiavano e mi applaudivano, ero il loro trofeo, il loro cocco, e devono averlo detto ai miei genitori. Naturalmente i miei genitori non mi hanno mai aiutato con i compiti, non ce ne era bisogno, ci riuscivo da solo, la mia abilità con i numeri era dimostrata e nota, e i miei genitori non fecero nulla, lo sapevano e non fecero nulla, forse credevano di meritarselo un figlio come me, però a pensarci adesso è evidente che non mi meritavano affatto.

Cosa gli avrei chiesto? Un minimo di riconoscimento. L’unica risposta che ricevetti da quell’ateo di mio padre fu la seguente: i re magi non portano nessun regalo, anzi non esistono, sono creature maligne, un’invenzione che serve a confondere, fuorviare i bambini e abbrutirli. Aveva ragione. Ha fatto bene a istruirmi contro le pagliacciate che la gentaglia tende a prendere per vere. Ma vorrei concentrarmi su due questioni.

La prima è che la funzione di un padre, se intende privarti dei re magi, è quella di sostituirli, non di lasciarti a sei o sette anni nel più completo abbandono, come invece fece Armando con me. Spense la luce e io rimasi solo nella stanza buia della mia intelligenza, a digiuno, come una retta sparata nello spazio che, per quanto avanzasse, non incrociava mai nessuno, anche quando le leggi oscure dell’universo indicavano che poteva e doveva succedere, la compagnia e la solitudine non sono che un punto.

Con questo non voglio dire nulla, ma ero un bambino capace di piazzarsi davanti allo specchio del bagno, perché per fortuna avevamo uno specchio in bagno, e restare a guardare sé stesso per diversi minuti, sorpreso – il bambino che ero – di fronte a quel riflesso che era proprio lui, completamente straniato da sé stesso, nel tentativo di capire o assimilare cosa fosse ciò che si rifletteva nello specchio e in che modo quel riflesso fosse più suo di qualsiasi altra cosa, o fosse tutto ciò che era, tutto l’infinito delle sue fantasticherie, illusioni e pensieri teneri, tutto il vertiginoso insieme di vere e proprie questioni immanenti che l’uomo è già da bambino, riassunto in quella sagoma facciale in cui, a ragione, non riuscivo a riconoscermi completamente.

E la seconda questione è che in seguito, quando ormai avevo dieci o undici anni, Armando volle invece supplire ai re magi con la sua ideologia, e fu peggio. Perché raggiunse il suo obiettivo. Feci il mio ingresso in quel tritacarne che è pensare come tuo padre, farsi carico delle passioni e degli ardori di tuo padre. E tutto senza televisore. Del televisore nessuna traccia. Cominciai a leggere con maggiore disciplina, ma non per vero piacere. Leggevo di notte e leggevo i libri che mi dava Armando, la raccolta degli aneddoti su Che Guevara in cui si racconta come Che Guevara rifiutò una bicicletta in regalo per sua figlia, perché le biciclette appartenevano allo Stato, al popolo in generale, e nessuno doveva farne uso personale.

Chiesi ad Armando perché, se le biciclette erano per tutti, e per nessuno in particolare, si fabbricassero delle biciclette fatte per essere guidate da una sola persona, e non delle biciclette giganti sulle quali montare e pedalare tutti vicini, milioni di pedali che girano nella stessa direzione allo stesso tempo. È quello che stiamo già facendo, disse Armando, siamo tutti su una bicicletta gigante, figlio mio, stiamo pedalando sulla bicicletta della giustizia. A quel punto ricordo la voce di mia madre, che sembrava non badare a noi e invece sì, come fanno sempre le madri, che badano a tutto, dire che era vero, stavamo pedalando tutti, ma con la catena caduta.

Rise alla sua stessa battuta. Armando no, non era affatto divertito. In seguito Armando, infaticabile, continuò a inocularmi la sua energia positiva, il suo codice morale, il suo inesauribile ottimismo, iniettandomi tutto il materiale radioattivo che, ovviamente, appena entrò in contatto con la realtà non fece altro che fuoriuscire come il liquido di una batteria rotta trasformandosi in frustrazione. Ho diciotto anni e sono un vecchio. Era questo che Armando mi stava iniettando, in verità. E così ti trovi a vivere gli stessi conflitti e le stesse convinzioni dei tuoi genitori. È proprio quella frattura ad averti generato, finché non ti scrolli tutto di dosso con furia.

La malattia di mia madre, alla fin fine, non è che un’esca che mia madre ha lanciato per farmi tornare. L’ho saputo fin dal primo momento. Alle elementari la aspettavo disperato all’uscita di scuola. La sua figura longilinea e rassicurante girava l’angolo, mi recuperava e mi portava a casa. È un ricordo che cerca di tornare nelle notti di guardia, ma io lo allontano. Il bacio di mia madre all’entrata di scuola. Il suo abbraccio delle quattro del pomeriggio. Le domande sui compiti, la conversazione delicata, tiepida e affettuosa come un guanto, i rimproveri inoffensivi. Volevo che alle medie mi iscrivessero alla scuola dove insegnava, lo voleva anche lei, ma Armando era contrario.

È iniziato così il mio esodo tra scuole e convitti, a casa ci tornavo molto poco, ero un bambino, al massimo un adolescente. Poi mi hanno reclutato nell’Esercito. Erano mesi che vivevo in caserma ormai, dormivo in camerata anche nei giorni di licenza, quando è venuta a trovarmi mia sorella e mi ha detto: Nostra madre è malata. Io ho detto di no, ma sono tornato. E mi sono seduto a tavola. All’inizio la tensione era evidente. Il rumore della televisione in sottofondo. Mia madre si mostrava più accondiscendente che mai, nonostante il suo aspetto deperito e penoso. Armando cercava di avviare qualche conversazione che non sapeva come proseguire. Mi sono sforzato comunque di essere loquace. Mia sorella parlava appena, però manteneva quell’espressione silenziosa di armonia e gioia che almeno bastava a comunicarci quanto era felice che fossimo di nuovo tutti insieme.

Dopo cena ho provato a distendere gli animi, a dissipare un po’ l’imbarazzo, perché in fondo quella era la mia famiglia, così ho raccontato a mia sorella la storia che mi aveva raccontato un soldato in caserma, dopodiché tutto è stato molto patetico, ridicolo, soprattutto molto ridicolo ma reale, insopportabilmente reale e io, che non riuscivo a credere all’accaduto, me ne sono andato a dormire, presentandomi il giorno dopo di buonora in caserma, pronto ad attaccare il turno delle otto di mattina alla postazione numero due, durante il quale, aggirandomi nei pressi di un folto groviglio di piante di avocado, mi sono visto ancora ragazzino, sulla prima Lada di mio padre, quella che avevamo prima della Nissan e prima di tutto il resto, mentre andavamo in spiaggia, una delle poche volte che Armando accettò di portarci al mare con la sua macchina, forse l’unica.

Era domenica, la spiaggia e gli alberghi erano a una ventina di chilometri dal centro abitato, non di più, io e mia sorella giocavamo sui sedili posteriori, ci dimenavamo e cantavamo canzoni che, nonostante la differenza d’età, piacevano a entrambi, forse perché mia sorella è sempre stata un po’ più piccola di quello che è e io un po’ più grande di quello che sono, e a un certo punto mia sorella si addormentò, allora io mi girai a osservare la strada, come si allontanava dal sedile posteriore della macchina, e come io la stavo a guardare con il mento appoggiato sulle mani e come l’aria mi scompigliava i capelli.

In un certo senso, sono ancora a bordo di quell’auto, ho pensato lì, alla postazione numero due. In un certo senso, i miei genitori hanno già parcheggiato, sono scesi, si sono messi i costumi da bagno, si sono buttati in acqua o hanno preso il sole, e io sono ancora in macchina, in viaggio con mia sorella, un’auto d’epoca, però mia sorella dorme, non perché abbia sonno, ma perché non vuole e forse non riesce a vedere quello che vedo io. Ho cercato la bontà fuori, ma trovo solo la dissoluzione.