Fu brutto per tutti, e per gli insegnanti fu terribile, anche se ai più meritevoli, quelli che avevano maggiore esperienza, come me, andò un po’ meglio. Appena un centimetro meglio, ma negli anni duri un centimetro significava un’immensità. Lo sappiamo bene, noi che l’abbiamo vissuto. Alcuni genitori regalavano a me e a Migdalia ciò che potevano. Si avvicinavano come si avvicina la gente che naviga nella povertà e non accetterà un no come risposta e ci dicevano: Senta, vorremmo lasciarle questo, prof, vogliamo ringraziarla per quello che fa per nostro figlio. I professori disertarono in massa e cominciarono a lavorare nel turismo. Rimanemmo solo noi due e pochi altri. I genitori, che nonostante tutto volevano ancora che i propri figli ricevessero un’istruzione, seppero apprezzare la nostra capacità di resistenza.
A volte tornavamo a casa con un litro d’olio, con delle crocchette o delle salsicce. Altre volte con delle uova, qualche chilo di zucchero o di riso. Addirittura, quando eravamo proprio fortunate, con mezzo chilo di pomodori o cetrioli o con il miracolo di un avocado maturo. Non so dove la gente trovasse quel cibo. Non lo sa nessuno, in realtà. Adesso, a ripensarci, ricordiamo solo un flusso di fame, uno stato d’assedio in cui non c’era nulla, un buco nei piatti, un buco nei negozi, un buco nei congelatori, un buco nei solchi e nelle fabbriche e un buco, il buco più grande di tutti, nel cuore e nello stomaco.
Ma è evidente che quel buco non dev’essere stato alla fine così grande e assoluto come ce lo ricordiamo, perché a dar retta ai nostri ricordi non avremmo potuto sopravvivere. L’esito inevitabile della penuria che ricordiamo sarebbe dovuto essere un malconcio falò di cadaveri, carne decomposta, ronzio di mosche. Eppure è andata diversamente. Certo, stiamo messi così, è vero; zoppicanti, sì; mutilati, sì; disastrati, sì; ma vivi. Non importa cosa ci suggerisca la memoria, cibo ce n’era. Energia iniettata da qualche parte. Credo dall’interno, dalla nostra stessa miseria.
Le cellule hanno delle vescicole che in situazioni limite demoliscono parte dei loro stessi componenti cellulari al fine di mantenere l’equilibrio interiore. Esiste una sorta di freno molecolare che impedisce alle cellule di perdere il controllo dell’autofagia e a tutto quel processo di autodistruzione rigenerativa di deragliare, in modo che il bilancio tra l’energia che la cellula consuma a digiuno e l’energia che crea a partire da quel consumo non cali a picco, degenerando nell’apparizione di malattie e, al contempo, nel fallimento del piano di emergenza cellulare, un sofisticato ingranaggio ottimizzato nel corso di milioni di anni di evoluzione.
Dev’essere successa una cosa del genere.
Noi, io e Migdalia e molti altri, racimolavamo il possibile. A volte, tornando a casa, ci chiedevamo cosa spingesse la gente a farci quei doni, quando non avevano più niente da donare. Andava di moda una canzone. Parlava di una vecchia gallina che all’inizio nessuno voleva mangiarsi ma che poi tutti finivano per contendersi. «Que le den candela»,1 si chiamava la canzone, e probabilmente non facevamo altro che ballarla perché, sebbene molte famiglie allevassero polli in gabbia al calore di una lampadina a incandescenza, la canzone era diventata l’unico posto in cui potevamo non solo trovare una gallina ma, addirittura, mangiarcela. Prima disprezzata, e poi contesa da tutti, la gallina finiva in brodo.
Un pomeriggio, contro ogni previsione, in preda ad allucinazioni popolate da galline immaginarie, una madre mi consegnò, avvolti in una busta di plastica, dei petti di pollo. Suo figlio era tra gli alunni meno brillanti della classe, io di solito lo trattavo con particolare sdegno, e tuttavia, quando sua madre mi consegnò la carne, lui sembrò sorridere. Credevo che mi odiasse, i bambini asini odiano sempre le maestre, ma quell’allievo non mi odiava, almeno non in quel momento, anzi sembrava contento. Grazie a lui e alla sua famiglia, in casa della professoressa, quella sera, ci sarebbe stato da mangiare.
Erano le quattro e venti del pomeriggio, la scuola stava chiudendo, e la madre dell’alunno mi mise con premura la busta tra le mani. Si rubava in continuazione, in continuazione ci si spartiva ciò che si rubava, una routine che è rimasta intatta fino ad oggi, eppure quei petti, sfilettati da un pollo che la madre dell’alunno doveva aver messo all’ingrasso nel cortile di casa per mesi e con molta fatica, erano stati messi da parte proprio per me.
Queste ipotesi fiorirono in un secondo momento. Quel pomeriggio semplicemente la madre dell’alunno mi consegnò la busta di plastica, io semplicemente la presi, la ringraziai per educazione, e l’unica cosa che risvegliò in me un certo interesse fu l’umidità, lo stato di scongelamento in cui la carne già si trovava. Non aspettai nemmeno Migdalia. Dovevo cucinarli prima che accadesse qualche disgrazia. Pativamo continui blackout e non avrei saputo dove conservare il pacchetto.
María giocava in salotto con qualche cianfrusaglia, rimasugli di stoffe, pezzi di plastica, braccia e teste di bambole cenciose. Diego colorava su un libro, però con la matita, non con i pastelli a cera, così tutti gli animali e le piante erano grigi e identici, come in un inverno atroce. Mia suocera, che era ancora viva, veniva a casa e mi teneva i bambini durante il giorno.
Mi cambiai subito, mi infilai un paio di ciabatte e corsi in cucina. Le pareti erano nere di fuliggine e la casa cadeva a pezzi. Dovevo approfittare della luce del sole. Condii i filetti con sale e limone, una cosa semplice. Dai limoni riuscii a spremere giusto qualche goccia. Presi al volo del riso. I filetti erano di un colore tenero, quasi dispiaceva mangiarseli, usare una cosa così bella una volta sola.
Dissi ai miei figli che per cena c’erano i petti di pollo. Avevano fatto colazione con mezzo bicchiere di latte e una fetta di pane tostato con olio e sale, a pranzo un piatto di polenta dolce, ma non avevano fame. I loro organismi, ancora nel pieno della crescita, imparavano ad autoregolarsi. Nessuno dei due sembrava interessato. A pensarci bene, non ricordavo che avessero mai mangiato filetti di pollo in età cosciente. E se invece gli era già capitato di mangiarli per sbaglio, non avevano motivo di ricordarlo come un piatto speciale.
Arrivò Armando e, senza neanche cambiarsi, si precipitò anche lui in cucina. Capivamo entrambi la portata dell’evento. Suggerì di mangiare in quell’occasione l’insalata che avevamo conservato per il fine settimana. Mangiare bene per un giorno piuttosto che male per una settimana. Certo, amore, gli dissi, mangiamola adesso l’insalata. Cosa abbiamo? Un po’ di fagiolini e un avocado, disse. Va bene, risposi, facciamolo. Preparammo i fagiolini, tagliammo a pezzi l’avocado con una spruzzatina d’olio, poi cucinammo i filetti, conditi con delle rondelle di una cipolla trovata rovistando in un cestino tra gli avanzi. Era il nostro giorno fortunato.
Stendemmo la tovaglia, ci sedemmo sui cuscini e servimmo i piatti. Di più per i bambini, come sempre. Alcune famiglie, e non le giudico, anzi, credo facessero bene, si comportavano diversamente. I genitori, che avevano il compito di procacciare il cibo, mangiavano di più altrimenti non avrebbero avuto le forze, e se qualche malattia li avesse costretti a letto, chi avrebbe poi nutrito i figli? Io volevo adottare quel metodo, ma Armando si rifiutò. I bambini prima di tutto, diceva sempre.
Cominciammo a mangiare. I piatti erano più colorati del solito. Armando mi guardava e io lo guardavo con gli occhi spalancati e si sentiva una risata pazza che proveniva dalle nostre teste. Combinavamo il verde e il giallo intensi dell’avocado, il colore dorato del pollo, il bianco del riso, i fagiolini verde scuro, la cipolla traslucida, tutto quel festival di sfumature e sapori uniti in una sola cucchiaiata. Il mio piatto durò undici irripetibili cucchiaiate. Armando finì prima.
Quando alzammo la testa, vedemmo i bambini che giocavano con il cibo. Indugiavano con il cucchiaio in mano, rimestavano il riso, schiacciavano l’avocado. Non era divertente. Per una volta avevamo a disposizione tutto quel cibo, cucinato, servito, e loro lo stavano sprecando. Ritirai i piatti sporchi, li impilai nel lavandino. Bevvi un bicchiere d’acqua, mi fumai una sigaretta, guardai dalla finestra. Il quartiere sembrava disegnato dalla matita di mio figlio. Andai su e giù per l’appartamento, presi tempo. Poi dissi: Allora? Non avete intenzione di mangiare? Rimasero in silenzio. Rispondete senza paura, dissi, non mangiate? Erano abituati al fatto che noi li costringessimo a mangiare. Io voglio la polenta dolce, disse Diego. María annuì. La voleva anche lei.
Non vi piace il pollo?, dissi. Non risposero. È cosi?, dissi. Non vi piace il pollo? Rispondete, dissi. Non tanto, disse María. Va bene, dissi. Alla mia risposta i loro volti si illuminarono. Non mangiatelo allora. Non vi obbligheremo, se non volete. Vero, Armando? Non li obbligheremo, disse Armando. Se non vogliono mangiare, che non mangino, disse. Ecco, dissi, non vi obbligheremo. Volete la polenta adesso?, chiesi. Dopo, disse Diego, più sicuro di sé. Non c’è problema, tesoro, gli dissi, la polenta c’è. Quando la vuoi me la chiedi, dissi.
Erano ancora seduti sui cuscini, con le gambe incrociate. In realtà non volevano niente, forse solo un bicchiere di latte prima di andare a dormire, ma il latte quel giorno era finito. La polenta dolce non la sopportavano, ma il pollo ancora di meno. Avevano detto di volere la polenta perché gli sembrava il modo più facile di farla franca. Va bene, dissi, portate i vostri piatti in cucina.
Raccolsi la tovaglia. I bambini tornarono ai loro giochi. María riprese a giocare con le sue cianfrusaglie e Diego riaprì il suo libro da colorare. Io presi un piatto, e Armando l’altro. Non ricordo di aver detto una parola. Ce ne andammo in balcone. In silenzio. Fuori calava la sera. Il sapore del petto di pollo. Non ci sembrava di fare niente di male.
1. Canzone tra le più in voga del repertorio della salsa cubana negli anni Novanta. «Que le den candela, a esa gallina vieja» significa «Che la brucino pure, quella gallina vecchia». [n.d.t.]