Il padre

Il sogno è questo. Una sagoma scura si avvicina nella notte, più scura della notte stessa. L’uomo ha un soprabito e non riesco a vedergli la faccia nemmeno quando si gira verso di me. L’uomo si avvicina al cuore della scena, infila la mano nella tasca nera, sfumature del buio, tira fuori una chiave nera, la inserisce nella portiera nera della macchina, occupa il sedile del guidatore e si sistema la fascia nera della cintura di sicurezza. Afferra il volante e per qualche secondo fa scaldare il motore, che immagino ronzi, e dico immagino perché non si sente nulla. Poi la macchina parte. Non riesco a riconoscere il conducente, guardo da tutti gli specchietti ma niente. Il conducente è un’incognita, la sua immagine mi è vietata. Nero su nero e velocità.

Comincia il viaggio su una statale liscia e dura, il viaggio interminabile lungo la strada solitaria del sonno, prima a sessanta, poi a ottanta, ancora entro i limiti consentiti, ma poi a cento e a centoventi, a centoquaranta e anche a centottanta, e a un certo punto del tragitto io stesso divento il conducente, che sono e non sono io, perché è come se fossimo ancora due cose, ma entrambe al volante, io e il conducente sovrapposti.

Sento i battiti accelerare, un tuffo al cuore. Alberi, stalle e tralicci ci sfilano davanti, fino a che la strada si chiude e si trasforma in un minuscolo punto. I lati si comprimono, l’orizzonte si annoda e le schegge di paesaggio mi fischiano accanto. Uno dei finestrini scricchiola, la macchina è come un coltello tagliente. Nonostante la velocità, ai bordi della strada riconosco facce conosciute, volti familiari. Che strada è quella che sto percorrendo? Quali luoghi unisce? Su che suolo è tracciata? Alcuni viaggiano a dorso d’asino, altri a piedi. Vedo Marx ed Engels sotto una pensilina, vedo Rosa Luxemburg con un fiore d’ibisco tra i capelli che allunga la mano e chiede un passaggio. Lenin avanza con una carriola strapiena di cemento indurito, sembra che voglia costruire qualcosa ma non ne ha più il tempo e il cemento gli si secca tra le mani. Vedo Che Guevara, con passo taciturno e barba rada, che trascina la sua bicicletta con le ruote sgonfie.

Vorrei dare un passaggio a tutti, ma la velocità della macchina e del sogno non me lo consentono. Nemmeno il conducente. C’è una colluttazione, voglio dare un passaggio ai miei, ma l’auto tira dritto, e dallo specchietto retrovisore li vedo che mi guardano, tutti stoici, imperterriti, mi dicono con lo sguardo: Salvaci, compagno. Portaci con te, fratello. A quel punto l’incubo diventa davvero inquietante.

Non voglio, ma nell’avvenire ci arrivo da solo. L’auto si ferma, scendo, quella prende una curva e sparisce. La sagoma nera del conducente non me lo ha detto, ma capisco che adesso lui ha cose più importanti da fare. Nell’avvenire non c’è nulla. È il momento più piacevole dell’incubo. Non è male che non ci sia nulla. Lo apprendo lì per lì, all’ultimo, e resto a vedere cosa succede. E questa è la storia che mi racconta l’avvenire, un signore loquace e rispettabile.

Nel mio hotel è arrivato un turista europeo, è il suo primo giorno. Seduto nella hall, si fuma una sigaretta e segue le volute di fumo con lo sguardo. Sulla testa, una bombetta nera. Un golf dello stesso colore, con un punto interrogativo bianco all’altezza del petto e un completo, giacca e pantaloni, a righe marroni e grigie. È molto elegante, questo turista. Sulla faccia, disegnato a matita, un lieve sorriso sul punto di spezzarsi. Il turista sta leggendo un giornale che si è portato dall’Europa, con uno speciale sul nostro paese dove, non senza stereotipi, è chiaro, si illustrano i nostri usi e costumi. Su un paginone c’è la storia di una prostituta. Il turista si sofferma sulla foto. Gli pare bellissima, un po’ bistrattata dalla sorte, certo, ma senz’altro aggraziata.

È un giorno qualsiasi, di un anno qualsiasi, di un decennio qualsiasi. Il turista esce dall’hotel, imbocca il primo viale e si ferma alla terza traversa, all’altezza di un cinema senza programmazione, in un angolo molto frequentato. Tra tutte quelle persone, come se fosse stata messa lì dalla mano di Dio, gli si avvicina una figura esile, estremamente sensuale. Capelli castani, longilinea, occhi sereni, zigomi pronunciati. Fianchi notevoli, fondoschiena notevole.

La donna gli chiede una sigaretta. Il turista gliela dà. La donna gli chiede cosa abbia da ridere, e lui le risponde niente, le dice che quella è la sua faccia. Lei dice una cosa tipo che faccia strana. Il turista si tocca le labbra, accenna una smorfia che sembra stupore ma che si trasforma immediatamente in un’espressione di piacere. Sei la donna del giornale, dice il turista. La donna, che ha già iniziato a fumare, non sa di cosa stia parlando il turista e lo guarda sorpresa. Un po’ crucciato il turista tira fuori il giornale dalla tasca, ripete quanto ha detto, la donna prende il giornale e lo legge, si riconosce, e conferma, sì, è lei. Dopodiché la donna continua a leggere l’articolo, non per curiosità, la sua vita la conosce a memoria, ma per il piacere di riconoscersi, un po’ estranea a sé stessa. Il turista la invita a bere qualcosa, si incamminano e finiscono in un bar irriconoscibile e appartato. Si siedono su due sedie di plastica, a un piccolo tavolo.

La donna si dilunga nel raccontargli la sua storia, il turista la sta a sentire, è molto interessato. La donna dice che qualche mese prima, una sera, era su un treno. Dalla città tornava in campagna, nel posto dove era nata e dove era rimasto a vivere il figlio, affidato alle cure di alcuni vicini. Non lo vedeva da mesi, molti mesi, e aveva dei regali per lui. Vestiti, giocattoli, dice la donna, e un po’ di soldi, sai. La donna pronuncia frasi brevi, ma non senza fiducia in sé stessa. Prende aria, rimane in silenzio e respira con forza. Sembra non avere voglia di proseguire. Il turista è attento. La donna ha già consumato una birra. Il turista le chiede se ne vuole un’altra, la donna dice di sì. Un altro giro, chiede il turista. Si guarda intorno e si accorge di non sapere dove si trova. La donna va avanti con la sua storia. Su quel treno le si è avvicinato un uomo, dall’accento straniero, ma lei non sospettava minimamente che fosse un giornalista né che volesse rendere pubblica la sua storia. Ad ogni modo, siamo nell’avvenire, e alla donna importa poco che qualcuno abbia rivelato i dettagli della sua vita privata sul giornale di un paese che non è nemmeno il suo.

Il turista è inibito dalla certezza che la donna sia molto bella, nonché dalla certezza che lui non glielo dirà. Un presagio lo assale: sarà incapace di toccarla. Se la toccasse avrebbe la sensazione di deturparla o corromperla, anche se è da un pezzo che il turista non crede più a certe cose né bada a mezze misure e smancerie. D’altra parte, è ridicolo pensare che una prostituta conservi ancora della purezza, qualcosa che meriti di essere salvato, qualcosa che gli altri non abbiano già calpestato, vessato e consumato senza alcuna ombra di rimorso o almeno di passeggera amarezza.

L’uomo del treno era seduto in uno di quei vagoni bui dei treni e la donna pensava che le stesse per fare una proposta. E invece no. Ha scattato solamente qualche foto e le ha fatto un po’ di domande. A volte in penombra e a volte alla luce. Quasi sempre in penombra, ma quando passavano per qualche paesino o villaggio perso tra le piantagioni di canna da zucchero, la luce svelava il suo volto, il volto di chi si accontenta di stare ad ascoltare. Mi sono fatta anch’io delle domande, dice la donna, tra me e me. Cosa ci fa questo straniero su un treno di provincia? E ancora: cosa ci fa su un treno di provincia all’alba? E ancora: cosa ci fa su un treno di provincia, all’alba, a parlare con me, invece di chiedermi di scopare e basta? La donna poi continua a raccontare di aver rivelato al giornalista del treno le peripezie, gli ostacoli e le cause che l’hanno portata a seguire certe strade. La prostituta ha fatto l’università. Ha studiato ingegneria chimica, ma poi sono arrivati gli anni duri, che le hanno stravolto la vita.

Il turista cerca di rendere l’atmosfera più distesa, anche se la donna non usa mai un tono affettato o solenne. È quel che ho raccontato ai miei amici, dice il turista. Qui le prostitute hanno studiato all’università, sono belle e curate. La donna non sorride, non fa nulla. Lo guarda nello stesso modo in cui lo avrebbe guardato se avesse tenuto la bocca chiusa. L’atmosfera si fa tesa e una, due, tre, moltissime nuvole si addensano nel cielo dell’avvenire. Come si risolve il tuo problema?, chiede il turista alla donna, e la donna risponde, dopo aver preso fiato, cento dollari, tesoro, risolvono qualsiasi problema. Mi piacerebbe regalarteli, dice il turista. Non puoi regalarmeli, dice la donna, sono una professionista.

Battibeccano per qualche minuto, e poi decidono di comune accordo di andare alla discoteca dell’hotel del turista, che è il mio hotel. Chiacchierano a voce bassa e gesticolano. Il turista preferisce camminare, la donna vorrebbe prendere un taxi. Alla fine sembrano abbracciarsi, comunque si riconciliano e si incamminano a piedi. Attraversano un paio di strade, costeggiano diversi edifici in rovina, ormai sono lontani dalla zona turistica, case popolari, case chiuse, palazzine decadenti con le grate arrugginite e i portoni con il batacchio di ferro. Un cane abbaia, ma loro tirano dritto, e la distanza e l’oscurità finiscono per inghiottire il latrato.

Arrivano alla discoteca dell’hotel, nel seminterrato. Evitano la pista da ballo e si siedono a un tavolo per due vicinissimo al bancone. Il turista ha insistito per tutto il tempo affinché la donna prendesse i soldi ma lei si è rifiutata, e questo ha reso l’atmosfera di nuovo rarefatta e ormai nessuno dei due ha troppa voglia di andare a letto con l’altro, sebbene il turista sappia dall’inizio di non poter andare a letto con quella donna.

Dai, dice, prendi i soldi. Silenzio. È un regalo, dai, prendili. Silenzio. A quel punto si avvicina una cameriera, che poi è mia figlia María, ancor più bella della prostituta, e chiede che cosa vogliono bere. Ordinano un margarita e un gin tonic. Il rumore, la musica assordante, mia figlia che si avvicina con i cocktail. È chiaro che sta per succedere qualcosa. Mia figlia poggia i bicchieri sul tavolo. Il turista tira fuori la banconota da cento dollari, la mostra alla prostituta, fa in modo che la guardi bene, e la dà a mia figlia come mancia.

La musica comincia a prendere forma. Una canzone che, se male ascoltata, non dice niente di ciò che si vuole sentire e che, se bene ascoltata, non dice niente comunque. Una canzone che dice molto poco, utile a malapena per ballare. Ma comunque la donna e il turista non ballano. Fanno attenzione a non proferire parola o suono alcuno. A un certo punto mia figlia torna indietro, intermittente tra i flash della discoteca, e dice di non potere accettare quella mancia, sono troppi soldi e non deve prenderli. Mia figlia nota subito come il turista cambia espressione, gli occhi preoccupati, la fronte aggrottata. La donna, invece, percepisce tutto il contrario: un sorriso leggero, disegnato a matita ma, è evidente, impossibile da spezzare, cancellare o far sparire.

Di colpo la macchina nera e l’autista, già di ritorno, passano a prendermi. Io salgo in macchina e percorro il tragitto inverso, dirigendomi verso la mattina e il mondo reale. Vedo Che Guevara con la sua bicicletta con le ruote sgonfie, vedo Lenin con la carriola carica di cemento, vedo Rosa Luxemburg con l’ibisco tra i capelli, vedo Marx ed Engels sotto una pensilina. Che dolore! Tutti i maestri che se ne vanno via proprio quando arrivo io. È questo l’incubo, è questo l’avvenire.