La figlia

È come se un’onda d’urto gli avesse mangiato parte del lato destro del corpo, come se lo avesse morso un extraterrestre, una cosa del genere.

A dodici anni René vive ancora nell’Oriente dell’isola, in un paese davvero bizzarro noto come Luogo Desolato o Posto dei Morti. Qui nell’Occidente non ne abbiamo mai sentito parlare. Dice René che è un villaggio pieno di risorse, che potrebbe prosperare se gli abitanti ottenessero una parte dei profitti, una percentuale. Ma è un paesino dell’Oriente. Lì sono e devono essere più poveri che in qualsiasi altro posto, è praticamente una legge. E Luogo Desolato o Posto dei Morti non fa eccezione, con quel nome poi.

René cresce con i vicini. Sua madre è ben presto costretta ad abbandonare la casa dove vivono, gli anni duri la mettono in ginocchio e suo figlio morirà di fame o crescerà con delle malformazioni. La madre viene in Occidente a guadagnarsi da vivere. René non sa perché la madre lo abbandona ma un giorno lo scopre, prima o poi si viene a sapere tutto.

I vicini non vedono di buon occhio la madre, non approvano che si prostituisca. Quelle voci arrivano a René, ma così, sotto forma di insinuazioni, come un gergo o come un messaggio da decifrare che lui alla fine, ovviamente, decifra. E sebbene da una parte i vicini lo aiutino, in verità è quello che vogliono, che René decifri il messaggio e che la bomba esploda. I piccoli paesi si nutrono di cose come queste.

René si chiude in camera, mette la testa sotto il cuscino, ma non piange. Quando gliel’ho chiesto, il giorno in cui si è deciso a raccontare, mi ha detto che a dodici anni lui non considerava l’importanza di una madre, che a spaventarlo era il fatto di non riuscire a pensare male della sua, che lo aveva deluso o cose così, anche se era ciò che la gente in qualche modo si aspettava da lui. Dopo un po’ di tempo, non so quanto, René decide di non pensarci più e di sostenere la madre a tutti i costi, ed è questo a trasformarlo velocemente in un uomo. A tredici anni René è più forte che mai, e a quattordici è più forte che a tredici, e a quindici è più forte che a quattordici, e così via.

Lascia la scuola, si mette a rubare, sviluppa un sesto senso per i dettagli. Ha un occhio di lince che non vede benissimo, ma memorizza tutto quello che vede. Fa chiavi maestre, chiavi di rame che aprono tutte le porte del paese e nessuno lo scopre. A Luogo Desolato o Posto dei Morti c’è la maggiore concentrazione industriale del paese, il quaranta per cento delle riserve mondiali di nichel, il ventisei per cento delle riserve mondiali di cobalto, mi ha detto. Le fabbriche sono a pochi chilometri dal villaggio e il rumore dell’industria non si sente mai. Le strade di Luogo Desolato o Posto dei Morti sono strade vuote. La terra è rossa, per via dell’alta concentrazione di minerali nel terreno, e rende tutto fangoso. Le facciate, i marciapiedi, i volti della gente. Gli ho detto che facevo fatica a immaginarmelo e lui mi ha detto una cosa che mi è piaciuta, che era come se un sole nel punto massimo del calore fosse caduto sul posto ridotto in polvere.

A sedici anni, più forte che a quindici, René ha già rubato molto e comincia a chiedersi se vuole davvero continuare così. Come se si sentisse in colpa. La gente deve già combattere con vari demoni. Le condizioni di salute dei lavoratori e degli abitanti di Luogo Desolato o Posto dei Morti sono agghiaccianti. Pagano le conseguenze ambientali dello sfruttamento minerario. Non è dimostrato da nessuna statistica, mi ha detto, ma così come si era diffusa la voce che sua madre fosse una prostituta, si diffonde anche un sospetto peggiore. Alta incidenza di tumori, problemi respiratori, acque contaminate, possibili radiazioni chimiche. Nasce un bambino malato che la gente di Luogo Desolato o Posto dei Morti battezza Bambino di Due Colori, perché ha un nevo pigmentato gigante, una specie di tumore della pelle che non è ancora maligno, ma può diventarlo. Per René è sufficiente. A diciassette anni abbandona i suoi misfatti e va a lavorare nelle fabbriche.

La fabbrica uno è un impianto di estrazione gestito dal governo insieme a una società straniera. È dotata di macchinari per la lisciviazione acida a pressione, una delle migliori tecnologie per l’estrazione del nichel. L’impianto è tra i più efficienti al mondo. Ci sono montagne di spazzatura, strade arancioni che sembrano avvelenate. Camion che caricano terra ricca di minerali, cinquanta tonnellate a viaggio. A René occhio di lince non sfugge niente, mi ha detto.

Però lo spediscono alla fabbrica due, un blocco di ferro mezzo distrutto, con strade interne percorse da autobus, impianto elettrico autonomo e macchinari lubrificati molto rumorosi. Ci scorrono fiumi di liscivianti, rifiuti minerali iridescenti. René mi ha mostrato delle foto, erano ripugnanti. A causa di tutta quell’ammoniaca, dei prodotti chimici, non riesce quasi a respirare. Ogni volta che inspira gli brucia il naso e ha l’impressione di essere sul punto di svenire. Gli altri lavoratori respirano normalmente, è l’abitudine.

Dopo qualche settimana di addestramento René diventa campionatore, la persona che supervisiona i forni in cui si lavora il nichel. Comincia a vivere in corridoi stretti e molto bui, pieni di polvere nera, una polvere che brucia, e con una temperatura ambiente al limite. Passa le giornate con un sapore metallico sulla lingua e tra le labbra. Il rumore insopportabile dei macchinari, mi ha detto, alla fine diventa silenzio. I forni si trasformano in un rifugio. Non ha nostalgia dei furti, non ha nostalgia dei vicini, non ha nostalgia della madre.

A diciotto anni René indossa una tuta da lavoro molto aderente, guanti sintetici, un casco di plastica giallo, una maschera isolante, e dalla cinta gli penzolano tubi e barattoli di campioni. Non lo ha detto, ma io l’ho immaginato come uno di quegli animali che vivono in fondo all’oceano, bestie cieche che nessuno ha ancora mai scoperto. Finché un pomeriggio cade o si addormenta, non sa bene. Sbatte contro un forno e il forno gli brucia parte del lato destro del corpo, lo frigge. Perde conoscenza, ovviamente. Una donna più grande, campionatrice anche lei, inciampa sul corpo qualche minuto dopo. Strilla, dicono. Ma chi la può sentire? Non la sente nessuno. La donna trascina il corpo di René per il corridoio stretto, sale delle scale di ferro e arriva al primo piano. Lì, con un po’ più di luce, si rende conto che il forno ha praticamente sfigurato René e di certo il trauma lo ucciderà.

Il trauma non lo uccide. René passa sei mesi in ospedale e ne esce vivo anche se, insomma, gran parte della sua pelle è ridotta a una gigantesca ruga. Gli hanno dovuto tagliare un pezzo del lobo destro a causa di un’infezione. Ha il braccio destro, la spalla e la guancia ustionati. Ma non solo, anche altre zone del corpo di solito coperte dai vestiti. Il campo visivo si è ridotto, ma il suo occhio di lince è intatto, mi ha detto, e questa è l’unica cosa che importa a René.

La madre gli dice che andrà tutto bene e manda qualcuno a prenderlo. René viene in Occidente e arriva qui in città. Sua madre vive qui e ormai ha smesso di prostituirsi, ha una casa, un lavoro e un’attività illecita. René inizia come aiutante di un fabbro, poi vende fieno per cavalli, poi lo prendono per raccogliere spazzatura sulla spiaggia. René inizia a lavorare prima che faccia giorno. Non può esporsi al sole per troppo tempo. Un giorno comincia a crescergli la pelle sulle parti sfigurate e, quando è cresciuta molto, lui si rende conto che la pelle non ha più superficie da coprire, ha più pelle che altro, più di quella di cui ha bisogno, gli si è accumulata tra le dita. La mano destra di René sembra un guanto. Non gli piace, così si opera. Gli tagliano tutta quella pelle e la gettano nella spazzatura.

Torna al lavoro. Il rapporto con sua madre va bene. Lei si prende cura di lui, disposta a recuperare il tempo perduto. La madre ha il suo giro di contatti e René non si intromette né vuole intromettersi. L’occhio di lince, mi ha detto, sa dove non deve guardare. Comincia a lavorare all’hotel, è il nuovo autista, ed è così che ci conosciamo, un giorno che lui si avvicina mentre io sto andando alla fermata dell’autobus. Mi chiede se sono del posto. Gli dico di sì e mi chiede, dalla macchina, se voglio un passaggio. Esito, ma lui insiste e io accetto. Non hai alcuna possibilità, penso. Però René non è in cerca di possibilità, è in cerca di compagnia e conversazione. Dice di avermi osservato in hotel, all’ora di pranzo in mensa. Dice che secondo lui abbiamo delle cose in comune. Sì?, dico. Che cosa? Non me lo sa dire e sembra dispiaciuto. Tiene le mani salde sul volante e lo sguardo sulla strada. Tutta quella pelle morta, penso.

Non c’è problema, dico, abbiamo di sicuro qualcosa in comune. René sorride. Non ci diciamo molto altro. Mi lascia a casa e lo ringrazio. Mentre salgo le scale penso di non avere niente in comune con lui, eppure quella sera la sua immagine ripugnante, di uomo brutto, di cosa rotta, continua a tornarmi in testa. Il giorno dopo arrivo in hotel, lo cerco e lo saluto. Ci diamo appuntamento per pranzo. Diventa un’abitudine. Cominciamo a volerci bene, è il momento di passare all’azione. Ho bisogno di un braccio destro al lavoro. Spiego a René come funziona. Lavora con noi da tre mesi e non gliel’ha ancora spiegato nessuno. Ma lui sa che qualcosa bolle in pentola. Il suo occhio di lince è molto potente. Riesce a leggere la targa di una macchina a centro metri di distanza.

Non traffichiamo carne di manzo, non traffichiamo droga, non traffichiamo tabacco. Tutto ciò che rubiamo lo rubiamo per avere qualche comodità in più, non per arricchirci, perché qui chi si arricchisce finisce in disgrazia. Sì, mi dice René, capisco, viviamo in un paese così piccolo che prima o poi non ci sarà più spazio nemmeno per il suo stesso padrone. Bene, vedila come ti pare, gli dico, questo è quanto. Rubiamo prosciutti, formaggi, bottiglie di vino, rum e whisky, scatolette di tonno e sardine, barattoli di sottaceti.

L’hotel è all inclusive, quindi annotiamo su dei fogli una determinata quantità di cibo che i turisti consumeranno. Una cifra sempre esagerata. Ciò che avanza si spartisce tra i dipendenti e i custodi all’ingresso. Gli addetti alla manutenzione e gli autisti sono gli unici autorizzati a passare per le diverse zone dell’hotel. La merce viaggia da un posto all’altro all’interno delle loro borse, cassette degli attrezzi e bagagliai. A volte, all’ultimo, danno l’allarme e bisogna annullare il carico. C’è un’ispezione e non si può rischiare. È ridicolo, perché la contabilità è chiusa, la merce è stata già segnata sui fogli e non può avanzare. Quindi bisogna farla sparire. Affettiamo i prosciutti e i formaggi e con delle bende adesive ce li attacchiamo alla pancia, sulla schiena, ai polpacci, e li portiamo via così.

Nonostante tutto i nostri affari procedono. Rimediamo del cibo da portare a casa e anche un po’ da rivendere. Posso comprare la lavatrice a mamma e mi viene voglia di sistemare l’appartamento. René comincia a rubare anche la benzina assegnata all’hotel per il trasporto. Lui la ruba e io trovo a chi venderla. Ho finalmente la sensazione che riusciremo a decollare, finché non assegnano a mio padre il posto di direttore. La prima settimana licenzia cinque persone, e vuole far fuori anche me. Non perché mi abbia scoperto, ma perché sono sua figlia e la storia dei favoritismi lo manda al manicomio. Ci prova e non ci riesce.

Mio padre decide che, tra tutti gli autisti dell’albergo, René sarà il suo. L’idea non mi piace, anche René è preoccupato. Ma comunque non possiamo protestare, dobbiamo solo essere prudenti. La sera vado a trovarlo a casa e chiacchiero con sua madre. Osservo la loro relazione. Poi mamma inizia a star male e la cosa mi distrugge. Non ho voglia di fare nulla, ma bisogna continuare a rubare. René mi sta vicino e io mi abituo alla sua malformazione fisica. Cominciano a sembrarmi sfigurate tutte le persone che non hanno la parte destra del corpo bruciata.

René mi lascia una buona percentuale dei guadagni sulla vendita della benzina. Mamma comincia a stimarlo, e anche mio padre, ma per ragioni opposte. René è generoso con me e con mamma mentre con mio padre è rispettoso e disciplinato. Con sua madre è, direi, intenso. So che non è stata una buona madre come lo è stata la mia. Non importa, eccoli lì, insieme e felici. Penso a questo un giorno che li vedo abbracciarsi, un giorno in cui scherzano e si mettono anche a litigare. Si fanno dispetti a vicenda poi chiariscono e nessuno ne rimane traumatizzato. Non ci sono cadute né drammi.

Può sembrare una stupidaggine, ma in quel momento per me non lo è. Mi accorgo che non ho più una madre sana con cui poter fare quelle cose. Tutti gli anni in cui mia madre è stata una madre esemplare non contano più, è tutto svanito. Perfino unex prostituta adesso è più madre di lei. Interrompo le visite a casa di René. I nostri affari continuano, ma René abbassa la guardia e comincia a rubare più di quanto dovrebbe. So che sta per succedere e non dico niente. Mio padre scopre che mancano quaranta litri della benzina assegnata alla sua Nissan. Scopre il nascondiglio di René e lo licenzia immediatamente.

René vuole spiegare le sue ragioni ma mio padre non glielo consente. Poi viene da me per chiedermi di intervenire. Per adesso non posso fare niente, gli dico. René pensa che io lo abbia tradito. Ma non ci crede nessuno, la sua espulsione mi danneggia economicamente. Lo so, dice René. Però mi hai tradito, continua a dire. Come lo sai?, dico. Lo so, dice, e a quel punto se ne va, con il suo occhio di lince e la pelle morta.

Da allora non l’ho più rivisto. Ma comunque non mi meraviglia, non mi meraviglia nulla. L’unica cosa che mi meraviglia è che, se non ci pensi, no. Se però ci pensi, se ci pensi anche solo un secondo, c’è sempre una parte del corpo che ti prude o ti fa male.