Mancano dieci giorni al congedo, finalmente la farò finita con questa merda e me ne andrò all’università, penso, via da questo pantano di paese. I soldati si sono congratulati, adesso vorrebbero essere tutti al posto mio, ma non hanno studiato, non hanno fatto niente, non puoi stare al mondo in quel modo e poi sperare che la vita ti premi. Hanno più o meno i miei anni e credono, perché così gli è stato detto, di avere ancora qualche opportunità, ma naturalmente non glien’è rimasta nessuna. Per l’uomo, il confine tra sprofondare o salvarsi è spesso molto labile, e si attraversa preferibilmente a un’età, quattordici, o quindici anni, in cui l’uomo non è consapevole della posta in gioco, per questo l’umanità non è altro che un affollatissimo corteo di frustrati e bastardi condotti al patibolo, che vivono un giorno dopo l’altro perché questo gli è toccato in sorte, e assistono increduli a ciò che succede a loro e al resto dell’umanità, immagino: la crescita e lo sviluppo fisico, i piccoli dolori, i traumi gravi, la perdita graduale delle facoltà fisiche, i capelli bianchi e le rughe, gli acciacchi, la sordità, la decomposizione finale e lo schifo.
A diciotto, diciannove, vent’anni, l’uomo ormai sarà irrimediabilmente ciò che è, il suo cammino è tracciato e non può fare nulla per cambiarlo. Sarebbe più salutare se tutti ottimizzassero la propria esistenza a partire dal ruolo che gli è stato assegnato e non perdessero altro tempo nel tentativo di diventare qualcosa che non potranno diventare. Non dico che sia giusto, ma è così che va. La cosa assurda della vita non è che la vita finisca. Il fatto che finisca è, in fondo, meno insensato del suo ridicolo inizio. L’assurdità della vita è la sua cattiva distribuzione, penso, quell’evidente squilibrio interno degli eventi, la cattiva ripartizione dei fatti importanti. Prima dei vent’anni, c’è una voragine trascendentale in continuo fermento, è un brodo che non smette di ribollire, e non riusciamo a digerire tutto ciò che la vita ci offre. Ci sono sempre segni nuovi da interpretare, segnali e illusioni che si succedono, terze e quarte dimensioni. A venti, esattamente a vent’anni, è tutto finito.
Poi verranno una serie di anni sterili, penso, i trenta, i quaranta, i cinquanta, i sessanta. In teoria con il passare del tempo l’uomo diventa più giudizioso. Non lo so, perché non ci sono ancora arrivato, però mi chiedo a cosa serva il giudizio se l’uomo non può farci nulla salvo osservare quel che non ha fatto quando non lo aveva e tormentarsi al pensiero di cosa avrebbe potuto fare se lo avesse avuto. Alla fine è solo uno spreco, se non di tempo, sicuro di fatti, che prima dei venti sono più di quelli che uno può vivere, penso. Onestamente, è come se mi fossero successe mille cose in mia assenza.
Sono seduto sul bordo della branda, ho appena finito di masturbarmi in bagno pensando a una mutanda bagnata, quella macchia umida di urina, sesso bagnato che sgocciola. Mi sto allacciando gli stivali, mi preparo per il turno delle otto di sera, ormai una formalità, uno dei miei ultimi turni in questa topaia, quando ecco che si avvicina un altro soldato, un tipo smilzo, appena arrivato, non so ancora come si chiama ma so che fa sempre domande stupide, probabilmente per fare colpo, ma a me non piace che mi facciano domande né che mi rendano omaggio, e non mi piace nemmeno addottrinare nessuno o guadagnarmi dei pupilli, come fanno e hanno fatto tantissimi soldati forti o vecchi con i soldati deboli o nuovi. In ogni caso lo smilzo mi chiede, senti, Diego, è vero quello che dice Solano? E io gli chiedo cos’è che dice Solano, e lui mi dice cosa ha detto Solano, e cioè che ho l’abitudine di telefonare a mia madre e insultarla con la voce camuffata. Mantengo la calma, naturalmente, continuo ad allacciarmi gli stivali, infilo il laccio in un’asola e poi in un’altra, a zigzag come un rettile, e senza alzare lo sguardo da terra chiedo allo smilzo quand’è che Solano ha detto quelle cose, e lo smilzo mi dice adesso, e io gli chiedo se Solano è alla postazione numero due e lo smilzo mi dice sì, e poi mi chiede se insomma è vero o no e io gli dico no, non è vero, voglio chiamarlo per nome ma non so quale sia, certo che non è vero, dico, e lo smilzo mi chiede se la malattia di mia madre è molto grave. In caserma lo sanno tutti che mia madre è malata, gli dico che non lo so, finisco di passare il laccio nelle asole, mi stringo gli stivali, mi alzo, mi sistemo i pantaloni, chiedo di nuovo allo smilzo se è sicuro che Solano ha detto proprio così e lo smilzo dice sì, Diego, sicuro, dice che chiami all’alba e a volte anche di giorno e camuffi la voce.
Lo smilzo non ha idea della gravità delle cose che sta dicendo perché è qui da poco. Quando c’ero io al suo posto, arrivato da poco in caserma, Solano si presentò un’ora più tardi al cambio del turno. Solano adesso ha vent’anni, ed è entrato nell’unità prima di me, ma se ne andrà dopo. Quella sera lo aspettai in camerata. Sapevo qual era la procedura. Voleva una prova di forza, avrebbe cercato di convincermi che si trattava di un rituale di iniziazione e, se avessi ceduto, me lo avrebbero riservato per sempre, lui e tutti i vecchi. Le mie ore di guardia si sarebbero moltiplicate. Non lo lasciai parlare. Presi la cinta e gli conficcai la fibbia sulla schiena. Lo lasciai senza fiato. Il suo corpo cigolò ed emise uno sbuffo secco, come un animale castrato. Si ripiegò su sé stesso, ma io non gli diedi tregua. Lo colpii con lo stivale in faccia e gli ruppi il naso. Poi lo picchiai di nuovo con la cinta sulla schiena. Due scudisciate rapide, la pelle sollevata. Pensavo all’ora intera in cui ero rimasto bloccato alla postazione per colpa di quell’imbecille, solo perché gli sembrava divertente, e la rabbia mi inondò di nuovo. Comunque non andai oltre, non ce ne era bisogno.
Per settimane aspettai una vendetta che non arrivò mai. Capii che Solano era un codardo e le mie mazzate fulminanti non mi facevano certo onore, ma l’onore non mi interessava, volevo che fossero funzionali, e lo erano state, nessuno si azzardava a darmi fastidio, i cambi di guardia arrivavano puntuali e Solano aveva deciso di evitarmi. Avrei potuto abusarne, pestarlo e distruggerlo, ma l’abuso non fa per me, e lo lasciai così, a marcire nella sua paura. Quel gesto benevolo rafforzò ancora di più il rispetto che mi ero guadagnato a forza di cintate, solo che il tempo e la routine distruggono e dissacrano ogni cosa, poi ci si rilassa, e dopo qualche tempo ero solo uno fra i tanti, soggetto agli stessi scherzi degli altri. Non mi dava fastidio, non volevo esercitare il potere su nessuno, l’unica cosa che volevo era che nessuno lo esercitasse su di me.
A poco a poco, come succede in questi casi, Solano ricominciò ad avvicinarsi, prima partecipando a conversazioni di gruppo, poi rivolgendomi qualche domanda puntuale, e poi parlandomi di nuovo come se nulla fosse, tutto era tornato come prima. A volte qualcuno gli ricordava la rissa, ma in quei casi affrontavo la provocazione e la neutralizzavo. La nostra relazione non ebbe altri scossoni, cercavamo di sopravvivere in pace dentro quel buco di caserma, sperando in fondo che la guerra vera non arrivasse mai, perché io non ci credevo alla guerra, come non ci credo adesso, però ne parlavano così tanto, la annunciavano così tanto, che avevo finito per avere dei dubbi. Tornai da casa, mi ricordo, e dopo il disastro con Armando ero davvero giù di morale, portai a termine la mia giornata di guardia, dodici ore, e il successivo giorno di riposo fu uno dei peggiori: ci spedirono su una camionetta a fare rifornimento di calce appena fuori dal paese, verso la spiaggia. Dovevamo estrarre la calce da un pozzo, riempire un paio di serbatoi in polietilene da duecento litri e, una volta tornati, dipingere le pareti della caserma.
Dopo due ore alla cava, mi sdraiai supino su dei cartoni, all’ombra della camionetta. Non riuscii a dormire, perché gli altri soldati si avvicinavano e il mormorio non mi permise di isolarmi come avrei voluto, ma rimasi, per così dire, a filo di coscienza, senza andare in profondità, diciamo a un piede dalla superficie. Sentii allora quello scroscio gelato che mi fermò il cuore, una sostanza fredda e gelatinosa e ustionante, e capii immediatamente che era calce, che altro poteva essere, mi alzai in piedi, i soldati ridevano, erano tutti in vena di scherzare, ma io non lo ero affatto, ero serio, decisamente furioso e serio, la calce mi scorreva sul petto e mi inzuppava la camicia, ed ecco lì Solano, che non sembrava avere agito con cattive intenzioni, e in quel momento pensai che non era un tipo aggressivo, però ancora una volta agiva contro i miei interessi e bisognava che imparasse la lezione. Il mio volto doveva aver lasciato trapelare qualcosa, perché l’atmosfera si fece subito tesa, le risate furono sostituite dal silenzio, e qualcuno mi disse lascia perdere, Diego, ma io camminai verso di lui, con la cinta in mano, e Solano era rigido come un palo, anche se nel suo sguardo c’era un che di provocatorio, un fulgore sottile che nessun altro soldato intravide, ma io sì, e onestamente non avevo voglia di litigare, e sapevo che se lo colpivo avrei dovuto litigare, Solano sembrava disposto a reagire. E se ti butto nel pozzo?, gli dissi, indicando la fenditura nella calce viva a qualche metro di distanza. E se ti ci butto? Lui non disse nulla. Io vedevo il fulgore nei suoi occhi, ma lui non disse nulla, e alla fine mi conveniva che non dicesse nulla, che i soldati credessero che nel pozzo ce lo avrei buttato davvero, che ne sarei stato capace ed ero disposto a farlo e che, se avessi voluto, di sicuro sarebbe successo, ma io non ero sicuro di riuscire ad arrivare a tanto e non volli rischiare, vidi in Solano qualcosa che non mi convinse, e non lo minacciai più. Non lo farò, dissi. Lo presi per il collo e gli diedi una testata leggera, piano, un gesto aggressivo e cordiale allo stesso tempo.
Da allora non ci siamo più parlati, non ci siamo più scambiati una parola, ma adesso lo smilzo mi riferisce ciò che Solano va dicendo in giro. Mi allaccio la cinta, esco dalla camerata, vado alla postazione numero due, lo vedo seduto su uno degli sgabelli in cortile, parla con gli altri soldati, a quest’ora non dorme nessuno. Mi avvicino, lo affronto, gli chiedo cosa ha detto, e Solano, che ha imparato la lezione, non dice niente, mi sgancia un cazzotto terribile sul naso e una scarica mi percorre la faccia, mi avvento su di lui e ci azzuffiamo, non vedo nulla, rotoliamo sull’erba, ci contorciamo e ci pestiamo, io con la mia cinta, i miei stivali e la mia uniforme, e lui con la sua cinta, i suoi stivali e la sua uniforme, non ci facciamo molto male e lo sappiamo, smettiamo di dare colpi gratuiti, siamo troppo vicini e intrecciati perché quei colpi possano compiere il percorso completo e causare qualche danno, anzi, siamo un miscuglio di gemiti e parolacce, io gli dico pezzo di merda e lui mi dice frocio, io cerco di morderlo e lui armeggia col gomito sulla mia schiena, a volte io sto sopra e a volte ci sta lui, nessuno interviene, l’ufficiale di picchetto non si fa vivo, un vero uomo non farebbe mai quello che fai tu, mi dice Solano, sei una checca malata, mi dice, rotticulo, mi dice, ti ho sentito, mi dice, ti ho sentito, checca, io non parlo più, ci stiamo spegnendo entrambi molto velocemente, sento la fatica nei muscoli e so che la sente anche Solano. Allora la rissa prende coscienza di sé, capisce che non può più ricorrere a risorse più adatte ad altri tipi di scontri, con maggior spazio tra i rivali, e non a quest’amalgama a cui i tanti mesi passati ad aspettare la guerra da soldati ci ha condannati, così cominciamo a combattere in modo più sistematico e a disputarci ogni pezzo dei nostri corpi, diventa una guerra piccola in cui le dita, la bocca e i movimenti corti assumono un ruolo fondamentale, io cerco i suoi occhi e lui i miei, ma lui trova la mia bocca e mi tira a sé, riesco a mordergli l’indice, ma non lo trattengo con abbastanza forza e la sua mano mi scappa. Ciononostante lui ulula. Poi arriva ai miei occhi, cerca di affondarmeli e sento che ci riuscirà, sono stanco morto e lui continua a dirmi checca ma le cose che mi dice ormai non mi danno fastidio né mi fanno arrabbiare, anzi mi fanno sprofondare ancor di più, comincio a sentire davvero paura, e la cosa mi indebolisce, Solano mi tiene in pugno, allento la presa, sciolgo i nodi, ma preferisco che mi prenda a legnate piuttosto che mi cavi un occhio, può succedere di tutto, e finalmente è l’ufficiale di picchetto che, dio mio quanto ci ha messo, ci separa e mi salva.
Ormai di nuovo in piedi, mentre mi sanguina il naso, penso questo. Altri dieci giorni, Diego, e te ne vai. Niente ha importanza. Sei riuscito a ingannarli e ad arrivare illeso alla fine. Dieci giorni e te ne vai. Ma non sono dieci giorni. L’ufficiale di picchetto riporterà l’incidente e il tenente colonnello a capo dell’unità mi posticiperà il congedo di altre tre settimane, durante le quali io praticamente non faccio che galleggiare. In quei giorni di proroga sono fatto di elio, sono un gas nobile e i soldati arrivano tardi al cambio della guardia, faccio fino a cinque ore di guardia per turno, ma non protesto e non dico una parola. La rabbia è stata così assurda e sfolgorante che non riesco a capirla. So di essere vittima di un complotto. Lo smilzo mi guarda con compassione e schifo, come si guardano i cinici o le potenze sul punto di capitolare.