La casa di nonna era di legno e si trovava nell’angolo più remoto del paese, molto vicino al mare. Attraverso le fessure nel legno delle pareti il sole entrava a coltellate spaccando il salotto e le camere in due o in tre. Ricordo che dei passeri grigi avevano fatto il nido nelle travi del tetto. In cucina c’erano due finestre alte e strette con delle ringhiere. In un angolo c’erano il tavolo e due sedie di cuoio rotto. C’era un mobile dove si sistemavano i piatti e i bicchieri dopo averli sciacquati. I bicchieri a testa in giù. E c’era sempre una signora.
I miei genitori lavoravano quasi tutto il tempo. Anche la signora, però dentro casa. Grattava la fuliggine che il fornello a cherosene lasciava appiccicata sul fondo dei paioli. Preparava il caffè anche se non c’era nessuno, qualcuno sarebbe arrivato. A volte affettava le arance amare, e nella mia testa di bambina un po’ folle pensavo che la signora stesse tagliando lo stesso sole che poi entrava a fette per i buchi della casa lasciando nell’aria quelle strisce di luce piene di polvere. Volevo toccarle e non ci riuscivo.
Poi mi dissero che quella signora era mia nonna. Lavava nel cortile camicie di lino, sottane di poliestere, e poi le metteva ad asciugare su uno stendino retto da due forconi. Sopra i vestiti, verso sud, spuntavano i tetti cittadini, il campanile della chiesa e una colonna di fumo sempre più scura.
C’era un boschetto di aranci amari e un ciliegio vecchio. Che strano un ciliegio con quel caldo, no? Infatti dava dei frutti verdi piccolini, quasi sempre acidi, che io masticavo di fretta mentre la mia bocca di bambina sofferente si contraeva fino a non farcela più. La verità è che quell’albero secco sotto il sole così forte era uno spettacolo abbastanza triste, e credo che fin da piccola non mi sia mai piaciuto vedere cose del genere e penso sia per questo che poi ho deciso di non intraprendere battaglie perse in partenza.
Poi nacque mio fratello, e io non sapevo neanche che potessero aggiungersi membri alla famiglia, né che la famiglia avesse dei membri precedenti come il marito di mia nonna, un insegnante. Un fratello più piccolo sequestra i genitori e fa sì che ci si rifugi sempre di più dai nonni. I genitori di mia madre erano morti. Così mia nonna mi portava tutti i giorni a scuola e poi la ritrovavo lì ad aspettarmi all’uscita. Poi un giorno qualsiasi ci trasferimmo nell’appartamento. Fu come una macchina che i miei genitori misero in moto senza avvertire nessuno. La nonna continuò a venirmi a prendere a scuola e a badare a Diego finché mia madre tornava dal lavoro.
Morì quando io avevo dieci anni, Diego cinque. Lo seppi prima che me lo dicessero i miei genitori. A dieci anni una vede tutto e a tutto reagisce, per poi ammutolire. Ammutolire e farne tesoro. Siamo protetti dall’età, è il nostro mantello invisibile. Ti vedono ma comunque credono che tu non ci sia, che non stai guardando quando guardi, né ascoltando quando ascolti, né capendo quando capisci.
Così non soltanto vidi arrivare la morte di mia nonna, ma vidi anche mia madre cercare del cibo quando mio padre non cercava nulla, mia madre aprire le braccia e mio padre dire: Non ci riesco, non ci riesco. Vidi la mano degli anni duri soffocarci e vidi che nessuno vedeva che io vedevo, né che mio fratello cominciava a vedere pure lui, nessuno lo vedeva tranne me. E glielo dissi: Lo vedi, adesso, vero? Avrà avuto sette, forse otto anni. Mio fratello è di quelli che hanno iniziato a vedere molto presto. E mi disse: Sì, lo vedo. Dal nostro metro e qualcosa di statura vedevamo tutto ciò che succedeva lì sopra, nel mondo degli adulti.
Avevamo anche la capacità di vederci a vicenda. Ormai non eravamo più completamente invisibili. Mio fratello era un occhio che mi sorvegliava. Mamma spegneva la luce quando era ora di andare a letto e nell’oscurità della stanza i nostri corpi cominciavano poco a poco a definirsi. Io vedevo mio fratello apparire dal buco della notte, gli occhi aperti come due tizzoni che si rifiutano di essere ingoiati. Aveva cinque anni meno di me, ma iniziavo a rispettarlo.
Ed eccomi un giorno sulla tazza del gabinetto. I seni sempre più grandi, due bottoni appuntiti, e mio fratello, che non so perché è con me, mi guarda fisso e mi sorride. Ho le mutande arrotolate all’altezza delle caviglie. Libero un getto di pipì, un filo dorato che cade sull’acqua stagnante, e sento che il getto comincia a interrompersi. Voglio continuare a fare pipì ma non ci riesco. Mio fratello dice: Perché fai pipì così, María? Vorrei dirgli di andarsene, ma non lo faccio. Ho un dito invisibile, dico, un dito che viene e va e mi tappa la pipì. E stai giocando col dito?, chiede mio fratello. Sì, sto giocando con il dito, dico. Neanche lo so perché gli parlo in quel modo. Perché imito il linguaggio dei nostri genitori? Se lo so che mio fratello ci vede e so che non ci si deve parlare così.
Continua a guardare, basso com’è. Non lo vedo, è un dito magico?, chiede mio fratello alla fine. Sì, è magico. Ah, bene, dice. Mi tiro su le mutande senza asciugarmi. Poi continuiamo a crescere, un anno dopo l’altro, ma mio fratello diventa più grande di me. C’è sempre un giorno in cui tuo fratello minore può passarti accanto come una freccia. Se ne va di casa, si diploma, comincia il servizio militare, rinuncia alla famiglia. Allora gli faccio visita e gli dico: Senti, mamma sta male, ha manifestato una forma di epilessia. Allora lui decide di prendersi un giorno di licenza per tornare a casa e lo accogliamo con allegria. Io non parlo tanto, ma so fingere e mi lascio trasportare da quel sentimento generale. Non ci trattavamo in quel modo da anni, tutti abbastanza bene.
Mangiamo e poi fingiamo di discutere perché nessuno vuole lavare i piatti. Mamma dice: Io sono malata. Mio fratello dice: Io domani torno in caserma. Mio padre dice: Io ho molto da lavorare. Ah sì?, dice mamma. Tutti ridiamo. D’accordo, li lavo io, dico. Aspetta, dice mio fratello. Faccio come mi dice e continuiamo a chiacchierare a tavola. La serata procede molto bene. Dopo più o meno mezz’ora mio fratello dice che ha qualcosa da raccontarmi. E racconta. È in quel momento che rimpicciolisce di nuovo, perde gli anni, torna a essere più piccolo di me. Continua a credere di essere più grande, ma non lo è. Vedo mio fratello che non capisce nulla, che torna di nuovo della sua età, l’età di un ragazzino privo di buon senso.
Prima mi spavento e poi ne sono contenta. Non è la mia natura, non auguro il male a nessuno, nemmeno a mio fratello, ma non so cosa succede. Non dico una parola, io non dico mai niente. Mi chiudo in me stessa, al massimo rido. Mio fratello pensa che io rida grazie a lui. Fatalità. Tocchi il cielo così presto che subito dopo ne sei accecato e cadi in picchiata.
Sono gli anni duri, dice. L’ubriacone del paese, dice, chiama la radio dal telefono pubblico del bar. I piatti vuoti, i bicchieri mezzi pieni sul tavolo, il tavolo che traballa. Il programma alla radio è il tipico programma serale che si ascolta in provincia. È quel genere di emittenti, le uniche ad avere un senso, in cui si conoscono tutti: i radioascoltatori, i conduttori, i tecnici del suono. Tutti sanno vita morte e miracoli di tutti.
Ti ascolto, dice il conduttore del programma all’ubriacone. Voglio chiedere una canzone, dice l’ubriacone. Il conduttore sta al gioco e scherza. Credo che i miei, a giudicare dai loro gesti, la storia la conoscano già. D’accordo, dice il conduttore, chiedi pure una canzone. Però prima la voglio dedicare a qualcuno, dice l’ubriacone. Molto bene, dice il conduttore. Forse a un’innamorata?, azzarda il conduttore con voce gutturale. No, no, nessuna innamorata, dice brusco l’ubriacone. A chi allora?, dice il conduttore. Voglio dedicare la canzone ai compagni del Partito Comunista. Ancora meglio, dice il conduttore. E ai cari compagni del Governo, dice l’ubriacone. Perfetto, dice il conduttore. E alle autorità di polizia, dice l’ubriacone. Come no, dice il conduttore. E qual è la canzone?, chiede, sta per finire il tempo a nostra disposizione, amico. Gli voglio dedicare «Que le den candela», dei Los Van Van.
Il colpo secco di mio padre fa cadere mio fratello dalla sedia.