La madre

Fuori piove e mio figlio è tornato a casa, ma a che serve, tanto se ne andrà di nuovo. Me ne starò tranquilla per non farlo scappare. Fuori ha cominciato a tuonare. Stacco la spina del televisore, della lavatrice e degli altri elettrodomestici. È ora di confessare, appena arriva María. Non posso continuare questa folle corsa.

Bene, devo dirvi una cosa: Non c’è stata nessuna telefonata, nessuno mi ha mai chiamato per offendermi, mi rendo conto ora che non è mai successo ed è frutto del mio isolamento, fantasmi che capita di immaginare e conversazioni impossibili a cui capita di partecipare. È un discorso conciso e diretto, senza punti deboli né vaneggiamenti e nessuno si azzarderà a contraddirmi.

Quando consegni la Nissan?, chiede Diego ad Armando. La sua voce metallica adesso è molto più grave, poco a poco diventerà un adulto e il suo corpo, i pensieri e la forza fisica si adatteranno a quella voce, sproporzionata rispetto alla poca cosa che è ancora mio figlio. Dopo la visita medica di tua madre, tra due giorni, dice Armando. Andremo in ospedale con la Nissan?, chiede Diego. Non vuoi venire?, chiede Armando. Sì, certo che voglio, andiamo alla visita, dice Diego.

Non è strano che si meravigli, è salito solo una volta su una delle macchine assegnate al padre, per quella strana gita di famiglia al mare. Armando non permetteva che i beni dello Stato, come gli piaceva dire, si utilizzassero a fini personali. Tua madre ci vuole andare da sola all’ospedale, dice, oggi ne abbiamo perfino discusso. Mi scompongo appena, punto a sfinirli. Ha portato avanti la terapia praticamente da sola, dice, le abbiamo lasciato fare a modo suo, ma non ci sono stati progressi.

Chi non è mai stato malato crede che le malattie siano totalizzanti. Ma se i sani si ammalano, e hanno eventuali ricadute, perché mai i malati non possono avere sprazzi di salute, giorni in cui la malattia non si esprime affatto e il corpo e la mente recuperano la solita vitalità?

Siete liberi di non crederci. So cosa state pensando, ma è stata una conseguenza della malattia, un’allucinazione mentale che si è manifestata come effetto collaterale della massiccia dose di farmaci a cui sono stata sottoposta. Io stessa poco a poco ci ho creduto e mi è sembrato che tutti voi doveste crederci insieme a me. Non vi ho deliberatamente ingannato in tutti questi mesi, non è andata così.

Vado verso il balcone, osservo il temporale, le dita d’acqua che rotolano sul vetro. Quanti acquazzoni mi sono scrosciati addosso durante gli anni duri. Non sapevi mai quando poteva succedere. A volte era solo una minaccia, il cielo gonfio d’acqua. A volte scoppiavano all’improvviso, molesti, per poi spegnersi con la stessa rapidità. A volte non arrivavano nemmeno a toccare terra, ma altre, la maggior parte, colpivano con così tanta forza che l’acqua si accumulava a mulinelli intorno ai tombini.

Io correvo a casa con la mia borsa da insegnante sotto il braccio. Le scarpe umide, le calze zuppe, la camicia appiccicata alla schiena, la pelle d’oca, le ossa molli e il freddo nei muscoli. Le natiche tese, i capezzoli induriti. Eppure, quando arrivavo a casa, ormai in salvo, sentivo i lineamenti come accentuati, un tocco elegante tra la bocca, il naso e gli occhi, il centro esatto del viso, una certa proporzione che in effetti è ciò che afferma o annulla la bellezza.

María arriva dal lavoro, zuppa. Ci bacia tutti e dice a Diego che è contenta di averlo di nuovo a casa. Lascia delle buste sul tavolo della cucina e va in camera sua a cambiarsi. Poi dice agli altri di tenermi sotto controllo. Devo far pipì e vado verso il bagno. Dormi, Mariana, o sei sveglia? Che ti succede, donna? Perché una come me non vuole morire? Perché una persona, non una come me, una persona qualsiasi, non dovrebbe voler morire? Perché uno che non è morto ma nemmeno vivo e ha la morte a portata di mano non si decide, una volta per tutte?

Non voglio morire, ma non perché voglia vivere. Se di morte ce n’è in abbondanza, se è morte tutto ciò che ci aspetta, perché dovrei anticiparla, sommare morte alla morte? E come si potrebbe sommare morte alla morte, se la morte è una, ed è sempre, e non importa affatto che sia a partire da oggi, o da domani, o da qui a vent’anni, perché in ogni caso sarebbe la stessa quantità di tempo?

Urlano il mio nome, riconosco l’insieme di suoni che lo compongono prima della voce che lo pronuncia. So cosa dicono, ma non so chi lo dice. È una voce camuffata, simile a quella delle telefonate. Oscillo come fossi dentro un imbuto.

Ho la schiuma alla bocca e del sangue in gola. Non sono stata in grado di sviluppare un sistema preventivo che mi avverta delle crisi. Succedono e basta. Dovrei controllarmi, ma riesco a mantenere il controllo esattamente fino al momento in cui il blackout assoluto sta per verificarsi, come se cospirassi contro me stessa. Voglio alzarmi, ma continuo a rimandare, incatenata al secondo successivo e a quello successivo ancora, e dopo questo momento, che è ora, che è appena passato, resto nella stessa posizione in cui mi trovo adesso, in quest’altro momento, che è ora, che sarà, che è stato, buttata per terra.

Armando si mette dietro di me e mi infila le braccia sotto le spalle. Mi tira su. Vedo la mia sagoma ritagliata sulle mattonelle del bagno. La casa si è parzialmente inclinata e pende. Nel dolore generale mi pulsano la clavicola, la fronte, la spalla e il ginocchio destro. Sono piccoli posti di comando posizionati nelle zone più danneggiate dalla caduta. Con il ritorno della coscienza il corpo emette i suoi segnali. La prima scarica la dà il dolore. La sofferenza è la pace.