Il padre

Secondo gli esperti le persone hanno due tipi di attenzione. Pensare velocemente è il primo, che equivale quasi a non pensare, a dire il vero, cioè agire d’impulso, seguire l’intuito, con scioltezza. E pensare lentamente è il secondo, che è più di pensare, è pensare due volte e, se c’è tempo, anche tre, tanto che alla fine è più ciò che si è pensato, quell’arzigogolo paranoico, che la cosa a cui si stava pensando. Ho scoperto qual è il mio problema: appartengo al secondo gruppo e ho sempre desiderato di appartenere al primo.

Ho guardato rapidamente la donna che ha fatto irruzione disperata nel policlinico e che per quanto ne sapeva sembrava quasi una dottoressa. Mi sono avvicinato all’infermiera e le ho chiesto con discrezione che problema avesse la signora e mi ha detto che aveva una figlia di tredici anni con la sindrome di West. Mi scusi, ho detto, cos’è la sindrome di West? Ho saputo che la figlia della signora non riusciva a muoversi, aveva più di venti attacchi epilettici al giorno e che, nel momento in cui la madre era entrata chiedendo aiuto, stava respirando con difficoltà. Può migliorare?, ho chiesto. La sindrome di West è degenerativa, ha detto l’infermiera, ogni giorno starà peggio.

Ho continuato a pensarci, ma non perché lo volessi. Anzi, era uno di quei pensieri dei quali ci si vuole liberare e non ci si riesce, quella specie di informazioni che, una volta messe insieme, per il modo in cui reagiscono tra di loro, sembrano fatte l’una per l’altra. Una bambina di tredici anni e una malattia degenerativa, più di venti attacchi epilettici al giorno. Ce ne siamo andati con un calesse e io ho continuato a pensare a quella storia per tutto il viaggio. Reggevo Mariana, mentre i miei figli parlavano tra di loro e il vetturino strillava insulti al cavallo per farlo andare più veloce.

Sulle nostre teste si accumulavano detriti, come se la luce leggera del pomeriggio filtrasse sopra di noi attraverso un colabrodo appeso. Poi quel distillato invischiava lentamente gli edifici e le case del paese, una bianchiccia crema municipale. Aveva smesso di piovere. Dopo gli acquazzoni tutto sembrava più sporco e sudicio. Gocce di fango sulle mie scarpe e sull’orlo dei miei pantaloni.

Il calesse sussultava a ogni buca. A ogni colpo di ruota le pozze di acqua sporca scoppiavano e noi saltavamo come molle. Il telaio di ferro ossidato, invece di avanzare con il trotto del cavallo, oscillava da una parte all’altra. I rivestimenti in plastica sembravano venire via a ogni urto. Il vapore che segue la pioggia saliva dall’asfalto e si mischiava con la polvere della merda secca di cavallo.

La serata non è stata particolarmente memorabile. Abbiamo mangiato dei panini, mi pare, una cena molto leggera. Mariana aveva annunciato di avere una cosa da dirci, ma nessuno glielo ha ricordato né le ha chiesto nulla. Le ammaccature la tutelavano, il malato acquisisce quella statura morale che gli permette di fare o non fare, dire o non dire, e tutti noi sani in qualche modo ci sottomettiamo al suo volere. Per un paio d’ore siamo rimasti davanti al televisore, ma eravamo distratti, ognuno pensava ai fatti suoi. Non so cosa distraesse gli altri, ma io non mi levavo dalla testa quella paziente di tredici anni. Mi sembrava impossibile immaginare una situazione simile, cosa significava esattamente tutto ciò, la malattia, l’età, le crisi a ogni minuto.

María ha chiamato il neurologo per confermare l’appuntamento ed è stato lì che il neurologo ci ha detto che conveniva anticipare la visita al giorno dopo perché aveva una cosa importante da dirci. Mariana ha fatto sì con la testa, per lei un giorno valeva l’altro. Per me va bene, ha detto Diego. Nessun problema, ho detto, andiamo domani. D’accordo dottore, saremo in ospedale domani mattina presto, ha detto María.

A questo punto, mi sa che me ne vado a letto presto per guidare riposato, ho detto. Benzina ce n’è?, ha chiesto María. Ho fatto il pieno stamattina, ho detto. Consumala tutta prima di riconsegnare la macchina, ha detto Diego, è roba tua. Non ho risposto, ero troppo confuso. Va bene così, ho pensato. Ho bevuto un bicchiere d’acqua, ho svuotato la vescica e mi sono steso sul lato sinistro del letto. Per la prima volta in tanti anni ho pensato all’eventualità di avere anche io qualche malattia. Sono tutti malati, cascano tutti a pezzi, e io ancora intero? A quel punto è cominciato il calvario.

Non saprei dire se quella notte mi sono addormentato all’istante o se non ho dormito mai. Non mi era mai successa una cosa simile. È risaputo che i bambini nell’utero possono piangere. Non importa che non ci sia aria, o che i loro polmoni e le vie respiratorie siano pieni di liquido amniotico, e che tutto questo impedisca che si generi qualunque tipo di rumore simile al pianto. Lì dentro si piange comunque, in silenzio, urla e lacrime, senza che nessuno lo venga a sapere.

Non riuscivo a muovermi, non riuscivo ad aprire gli occhi. Nessuno poteva sentire quello che dicevo né le mie richieste di aiuto. Ero rimasto impigliato in una zona intermedia, paraplegica, in cui la mente è sveglia e il corpo addormentato. Volevo gesticolare e le mani non si muovevano, e quell’immobilità continua mi affaticava più di una maratona. Cos’è che mi manca?, ho pensato. Forse la benzina? Sono una macchina che vuole partire ma non ci riesce, con il motore che gira a vuoto, che borbotta?

Mi sono detto: Mantieni la mente lucida, Armando. Mi sono detto: Concentrati e muoviti piano e scappa in punta di piedi da questo purgatorio. E mi sembrava che iniziasse a funzionare. A un certo punto mi sono visto alzarmi dal letto, intorno a me tutto buio, Mariana era stesa al mio fianco in preda a una crisi che le agitava il corpo come un sonaglio, il braccio del lobo temporale la scuoteva dalla testa ai piedi, io mi sono infilato le ciabatte, cercando di fare il minor rumore possibile, sono arrivato in cucina e ho aperto lo sportello del frigo, con gli occhi socchiusi, accarezzandomi la pancia, sentendo sulle spalle il peso di tutti quegli anni, una stanchezza cronica, ho preso una brocca d’acqua fredda e ho riempito il bicchiere, con la luce congelata del frigo che mi feriva le pupille, il suono della gola quando deglutisce, il suono del bicchiere di vetro poggiato sul tavolo.

Sono tornato a letto e mi sono infilato sotto le lenzuola, rendendomi subito conto di non essere mai uscito da lì, avevo continuato a dormire per tutto quel tempo, stavo solo sognando, ma con una consapevolezza molto chiara, con un occhio chiuso e l’altro aperto, diciamo così. Un sogno che non andava oltre i limiti della casa, che più che altro funzionava come un quadro realista, voglio dire, non era un sogno molto complicato, né intricato, né criptico, non era uno di quei sogni pieni di enigmi, né viaggiava in luoghi o momenti perduti dell’infanzia o della gioventù, era piuttosto una sequenza abbastanza ovvia, che nessuno sognerebbe.

Chi sogna il momento in cui si sveglia? Chi sogna sé stesso che si alza dal letto e va in cucina? Naturalmente ero avvilito per essermi ingannato in quel modo. Per il fatto che volevo svegliarmi e, in effetti, la mia testa mi faceva credere che mi stavo svegliando. Tutto questo l’ho scoperto appena tornato a letto perché allora ho iniziato a sognare di tornare a letto, a sognare di sognare, e così sono rimasto vigile per un paio d’ore, senza che nulla accadesse, sognando di dormire, sognando un uomo, io, sdraiato sullo stesso letto che stavo occupando da chissà quante notti prima.

Non è stato un sogno noioso, nonostante non succedesse granché, fatta eccezione per i movimenti irrilevanti delle persone addormentate, io e Mariana. Qualche cambiamento di posizione, una mano che si sposta, l’aria del ventilatore che scombina le lenzuola. Non mi sono annoiato perché erano tutte cose che non avevo mai visto, proprio perché sono sempre addormentato. Come dormo? Come dorme mia moglie? E com’è la mia stanza in piena notte, quando nessuno la guarda?

Ho pensato che la notte sarebbe continuata così, fino al momento in cui avrei finalmente cominciato a sognare la luce del giorno che filtrava dalle finestre, poi di svegliarmi, questa volta sul serio, e poi che si svegliavano tutti e ce ne andavamo all’ospedale con la Nissan, e poi tornavamo, con tanto di buone notizie per Mariana – il dottore diceva di aver notato dei progressivi miglioramenti nello stato della paziente, una riduzione molto positiva dei focolai epilettici –, e poi proseguivamo la nostra giornata, più o meno in famiglia, senza festeggiare ma almeno senza discutere, io e mio figlio chiacchieravamo come ogni tanto è successo in passato, poi io consegnavo la Nissan all’hotel, le chiavi dell’ufficio e tutti i benefici materiali che facevano di me un direttore, poi accettavo il posto di lavoro assegnatomi e passavo lì i miei anni a venire, osservando il mondo correre, comprendendo ogni cosa, senza intervenire, senza muovere un dito, come un semplice spettatore, proprio come succede nei sogni.

Invece no. A un certo punto della notte lo schermo del sogno si sdoppia, e in uno continuo a vedermi dormire, mentre nell’altro comincia la proiezione della sequenza di sempre. Un uomo di spalle apre con molta cautela la portiera di una macchina nel parcheggio. L’auto, una volta messa in moto, avanza come uno spavento per la carreggiata nera, prima lentamente, a quaranta e a ottanta e poi a centocinquanta, poi addirittura a duecento e passa. I padri e i patrigni ideologici a un lato della strada, come al solito. Solo che io non mi trovo in quella macchina, perché sono ancora nella mia stanza, che sogno di dormire.

La macchina arriva davanti a una casa nera, abbandonata in mezzo a un campo. Il conducente scende, bussa alla porta e dall’altra parte gli risponde un uomo. Non si vede niente, solo nero su nero, ma dal cappello capisco che si tratta di un contadino. Iniziano una specie di trattativa e poi il contadino chiude la porta e il conducente si carica dei sacchi e un paio di scatole e le mette nel portabagagli della macchina. Comincia allora il viaggio di ritorno e, ormai quasi al parcheggio, il sogno che mi aveva perseguitato per mesi cambia rapidamente genere e la sequenza si illumina. Iniziano a suonare le sirene della polizia e a girare le luci rosse e blu di una pattuglia, che si accoda alla macchina nera, ormai non più così nera perché sfumata dal rumore e dalle luci catarifrangenti, finché la macchina, che non si è mai fermata nemmeno una volta di fronte ai segnali dei padri e dei patrigni ideologici, si arresta docilmente sul bordo della strada.

Due poliziotti si avvicinano al finestrino del conducente e sembrano chiedere i documenti. L’autista sembra non averli e sembra che gli chiedano di scendere dalla macchina. Il conducente accetta. Si scambiano qualche parola, si dirigono verso il portabagagli, controllano le scatole e i sacchi. Cosa conterranno? Cosa starà trasportando quell’autista che allarma così tanto i poliziotti, a giudicare dalle loro espressioni contrariate?

Lo fanno appoggiare contro la portiera della macchina, con le gambe e le braccia aperte. Lo perquisiscono, gli mettono le manette e lo fanno salire sui sedili posteriori della loro auto. Dopodiché i poliziotti prendono alcune di quelle scatole e di quei sacchi e li mettono nel loro portabagagli. La macchina dei miei incubi rimane, per il momento, sul ciglio della strada, e il sogno continua con la pattuglia, i cui lampeggianti finalmente iniziano a schiarire tutto quel nero. Qualche minuto più tardi la pattuglia entra in paese, raggiunge il mio quartiere, cosa che fino all’ultimo momento non riesco a prevedere. Uno dei poliziotti sale le scale, bussa alla porta del mio appartamento e io, sapendo che è me che cercano, mi affretto ad aprire, non voglio che gli altri si sveglino.

I due schermi paralleli del sogno si fondono di nuovo e ne rimane solo uno. Ormai non so più dove sono, e non mi prendo il disturbo di capirlo. Il poliziotto si scusa per avermi svegliato a quell’ora. Sbrigate le formalità, mi dice che hanno arrestato il cittadino René González a bordo di una Nissan del ’95 di proprietà dello Stato, che il cittadino assicura che quella macchina è mia, che lui è il mio autista e che è ai miei ordini.

Perché lo avete arrestato?, dico. Non lo so, me lo dica lei, dice l’autista, in piedi sulla porta di casa mia, ma con un atteggiamento tale che sembra essere casa sua. In qualsiasi altro momento della mia vita avrei saputo cosa rispondere, ma lì per lì no. È o non è il suo autista?, insiste il poliziotto, indiavolato. È l’istante della trasformazione.