Il padre

Giorni come cani rabbiosi. Ma io resisto, sono un uomo tutto d’un pezzo, un uomo che sa che gli eroi della patria hanno resistito di più, un uomo che sa che gli uomini veri la propria croce se la portano addosso.

La macchina è rimasta di nuovo senza benzina. Una Nissan del ’95, abbastanza moderna. Avrei preferito una Lada, una Fiat, un modello da quattro soldi. Mi sarebbe bastato. A una Lada vanno bene pure i pezzi di ricambio di altre auto, può andare ovunque, e non mi avrebbe mollato come mi sta mollando ora la Nissan. Non mi lamento, mi arrangio. Si è fermata per l’ennesima volta e l’ho lasciata lì, a metà strada, sul lato della carreggiata. Mi sono sbracciato per mezz’ora finché poi non mi ha recuperato un autobus. Ormai è così da settimane, ma vado avanti con il quantitativo di benzina che mi hanno assegnato.

Il serbatoio deve avere qualche perdita. In officina mi hanno detto di no, è tutto perfetto. Forse mi imbrogliano, non lo escludo. Nessuno simpatizza con i capi. Nemmeno io, in effetti. Ma la differenza è che i miei capi sono corrotti mentre io sono un capo onesto e irreprensibile, come Che Guevara che una volta andò in visita a una fabbrica di biciclette e l’amministratore ruffiano gliene volle regalare una per la figlia e il Che lo prese a male parole, dicendogli che quelle biciclette non erano sue, dell’amministratore cioè, ma dello Stato e lui non poteva regalarle.

Adesso tutti si prendono quello che gli danno, e pure quello che non gli danno. A volte penso, anche se naturalmente non lo dico, che gli eroi della patria abbiano avuto una vita più facile della mia. Dicono che quelli erano tempi duri, ma i tempi duri davvero sono quelli in cui nessuno ha voglia di fare niente, tempi di crisi dei valori, semplicità spirituale, scarsa tenacia. I meccanici dell’officina non hanno voglia di lavorare. Passano le giornate seduti nelle macchine, a fumare, raccontarsi storie o parlare a vanvera, infagottati nelle tute da lavoro sporche di grasso, importunando le donne di passaggio sulla strada alle spalle dell’hotel. Gli autisti e i meccanici e i carrozzieri. Pugno duro con tutti.

Mi guardano con aria ubbidiente, ma scoppiano di risentimento. Lo vedo, quando uno di loro viene a rimorchiare la mia Nissan per portarla all’hotel. Non sono neanche le nove di mattina e sono già stufi. A volte questo paese è troppo buono con la sua gente. Dà molto in cambio di molto poco.

Salgo nel mio ufficio. Nel tragitto, un paio di lavoratori mi salutano. La segretaria mi dice che ho dei documenti da firmare sulla scrivania, mi chiede di Mariana, le dico che sta un po’ meglio, e poi lei va nel cucinino a prendermi un caffè. Il mio ufficio è più che austero. Un ventilatore da soffitto, una scrivania, un divano, tre sedie per le riunioni, il telefono, un computer fisso, le foto dei miei figli, una piramide di cristallo come fermacarte e una targa in legno a forma di pergamena con incisa una frase di Ho Chi Minh: «Il primo ad attraversare il fiume, l’ultimo ad arrivare al banchetto».

La segretaria mi porta il caffè. Lo bevo a piccoli sorsi, è troppo amaro per i miei gusti. Firmo tutto tranne un documento che mi ha inviato il funzionario del Partito. Dico alla segretaria di fissarmi un appuntamento con lui. Mi chiede a che ora. All’una, dico, dopo pranzo. La mia segretaria non è giovane, non è carina, non è discreta. È una vecchia di sessant’anni che è stata segretaria di direttori di hotel, o ha lavorato nel turismo, per due terzi della sua vita, molto prima che esistesse l’industria del turismo come la conosciamo oggi.

Faccio il giro quotidiano degli impianti: la lavanderia, la cucina, i vari ristoranti, i bungalow sulla spiaggia. Siamo in alta stagione. In piscina mi tocca intervenire perché due russi, dopo essersi scolati una bottiglia di vodka a testa, si sono già messi le mani addosso e non è ancora mezzogiorno.

Mangio alla mensa dei dipendenti. María si avvicina e mi chiede se ho un minuto. È la responsabile di sala del ristorante di cucina criolla. Non ci gira tanto intorno. Mi piace questo di lei. Viviamo in un’epoca, lo riconosco, in cui le cose si dicono con tre volte più ricorsi, parole e grovigli del necessario. Quasi non si capisce quello che si vuole dire. María vuole parlarmi di René. Non c’è niente di cui parlare, le dico. Mi dice di dargli un’opportunità. Le dico che apprezzo il suo lavoro, che è mia figlia e la stimo e la rispetto, ma che ora è meglio che se ne vada.

A mensa nessun altro mi rivolge la parola. Torno nel mio ufficio per la riunione con il funzionario del Partito. Mi aspetta seduto nell’anticamera, sfogliando il quotidiano principale. Gli dico di entrare, apro la porta e lo faccio passare per primo. Non mi sopporta. Un anno fa ha ordinato ai pasticceri dell’hotel una cake a tre piani per la festa dei quindici anni della figlia e io ho annullato l’ordine. Gli ho raccontato l’aneddoto di Che Guevara e la bicicletta. Non sono sicuro che l’abbia capito.

Gli dico che non posso firmare ciò che mi chiede. Vuole che autorizzi il congedo di un barman e di un impiegato dell’hotel per spedirli un mese di fila all’addestramento militare. Sono tra i miei collaboratori più efficienti. Mi chiede se siamo amici e gli dico di no. Mi dice allora di mandare i miei due dipendenti all’addestramento militare e di prendere al loro posto un barman e un impiegato che lui ha già individuato tra le risorse destinate al settore alberghiero. Gli dico perché all’addestramento non ci manda quel barman e quell’impiegato senza esperienza. Mi dice perfetto e se ne va.

Il pomeriggio si assopisce, un antistaminico delle dimensioni del sole. Ho sonno, ma non voglio dormire. Non voglio invocare i cattivi pensieri che da un po’ di tempo a questa parte mi colgono nei sogni. L’insonnia non è altro che un sintomo della volontà di tenere sotto controllo la vita. La segretaria mi chiede un permesso per andare alla riunione dei genitori della classe del nipote, che va alle elementari, e glielo concedo. Poi la giornata riprende il suo ritmo, tra telefonate e letture dei preventivi annuali.

Prima di tornare a casa, verso le sei di pomeriggio, me ne sto un po’ in piedi davanti alla piscina. Ho in mano la mia valigetta, la tengo stretta. Sento il flusso dell’acqua clorata, acqua che entra nell’acqua. Mi inginocchio, immergo le dita e le avvicino alla valvola regolatrice, che risucchia. Poi mi rialzo e vado al parcheggio, salgo sulla Nissan, poso la valigetta sul sedile del passeggero; metto in moto, senza salutare nessuno.

Mariana è caduta di nuovo. María era già lì. Esce prima di me dall’hotel, prende l’autobus dei lavoratori. Ha trovato sua madre in salotto, stesa a terra tra una poltrona e la libreria, con il telecomando della televisione in mano. Ha sbattuto di nuovo la clavicola e si è spaccata il mento. Dorme ancora, io preparo la cena. Non lo dico, ma non so cosa farò, cosa faremo. María se ne va in camera sua.

Mi do da fare. Spezzatino di carne, fagioli e riso in bianco, avocado maturo. Ne ho già discusso con Mariana, non voglio che cucini o che si avvicini al fuoco. Non voglio che traffichi con i coltelli, che il sudore della cucina la consumi. Lei insiste, durante il giorno mi sfugge, e poi succede quello che succede. Mi bruciano gli occhi.

Dopo un po’ percepisco un’ombra avvicinarsi. Si è praticamente trascinata in cucina. È solita svegliarsi a quest’ora. Mi dà un bacio a un angolo della bocca. Indossa una vestaglia tutta sfilacciata. È alta, la pelle bianchissima, gli occhi rotondi e, nonostante tutto, luminosi. Tutti quei segni sulla pelle. Mi sembra ancora bella. Lei dice di no, ma io dico di sì. Lei dice di no, ma io penso di sì, anche se non la contraddico, chi altro devi compiacere se non tua moglie.

Mi chiede com’è andata. Le dico che la Nissan è rimasta di nuovo senza benzina. Mi dice com’è possibile che non abbia ancora risolto quel problema. Le dico che non so cos’altro fare. L’ho già portata all’officina. L’ho controllata anche io, sebbene non ci capisca molto, e non ho trovato nessun difetto. Mi dice che se fosse in salute le darebbe un’occhiata lei e di sicuro qualcosa ci troverebbe. Le dico che è vero, e lo è. Mariana aveva una soluzione per tutto, e poi era molto socievole. È bello avere una donna che ti completa.

Preparo la tavola, chiamo María. Ci sediamo tutti. Non abbiamo sempre mangiato così bene, ma adesso sì, io lo dico sempre: è nella casa di un uomo onesto, che non mette a tavola più del necessario, che si vede se il paese è migliorato o no. E quando mi dicono che si sta peggio, io penso alla mia tavola, alla mia tavola adesso e alla mia tavola dieci anni fa, e so che le cose non sono affatto peggiorate, anzi è migliorato tutto, altroché.

Sentiamo i rumori della forchetta, dei piatti e dei cucchiai che si scontrano. Sentiamo il rumore delle bocche che masticano. Sentiamo il rumore del tavolo che traballa e il rumore del sospiro che qualcuno di noi emette ed è come se sospirasse per tutti e tre. Sentiamo il suono gutturale dell’acqua nella gola, come un gorgheggio. Mariana dice che hanno telefonato di nuovo.

Comincia a farmi male lo stomaco, ma resto molto calmo, occhio, sempre molto calmo. È una voce squillante e beffarda. Non voglio mettere il dito nella piaga. Dobbiamo andare alla polizia, dico. Alla polizia no, dice Mariana. María rimane in silenzio. Non so come cambiare discorso, allora racconto del funzionario del Partito. Mariana si alliscia i capelli, i pochi che le restano, e mi rimprovera.

Poi ci sediamo di fronte alla televisione e guardiamo il telegiornale. Ascoltiamo attentamente le previsioni del tempo, è una tradizione. Guardiamo la telenovela, in cui i cattivi stanno cominciando a perdere colpi. Poi andiamo a letto. Copro Mariana con due lenzuoli. Ci addormentiamo subito, ma a un certo punto, durante la notte, suona di nuovo il telefono e ci svegliamo. Uno squillo, due. Mariana mi guarda. Tre squilli, quattro. Se è Diego, mi dice. Se è successo qualcosa, mi dice. Niente. Non facciamo niente. Lei vorrebbe e io glielo impedisco. Non sappiamo cosa dice un telefono se nessuno risponde.