Come scrittore, spero che i lettori trovino in questo romanzo le stesse cose che io cerco quando leggo un’opera di narrativa: una storia appassionante, personaggi coinvolgenti e un senso di illuminazione, la sensazione di essere stato in qualche modo trasformato dalle esperienze dei protagonisti. Mi auguro che le emozioni di chi legge facciano eco a quelle che questa storia racchiude e che, superando le forti differenze culturali, i lettori si identifichino con Mariam e Laila, con i loro sogni, le loro modeste speranze e la loro lotta per sopravvivere giorno dopo giorno. Come afghano, mi piacerebbe che i lettori, alla fine del libro, provassero un senso di empatia verso il mio popolo, e soprattutto verso le donne afghane, sulle quali gli effetti della guerra e dell’estremismo sono stati devastanti. Spero che questo romanzo sappia aggiungere un sottotesto profondo, fatto di sfumature ed emozioni, all’immagine ormai familiare di donne avvolte nel burqa che camminano lungo una strada polverosa.
Dopo aver finito Il cacciatore di aquiloni, ho accarezzato per qualche tempo l’idea di scrivere una storia che parlasse di donne afghane. Quel primo romanzo era una storia tutta al maschile: tutti i personaggi principali, forse con l’eccezione della moglie di Amir, Soraya, erano uomini. C’era un intero volto della società afghana che non avevo nemmeno iniziato a tracciare ne Il cacciatore di aquiloni un intero paesaggio che ritenevo potesse essere fertile di idee per una storia. Dopo tutto, erano successe così tante cose alle donne afghane negli ultimi trent’anni, soprattutto dopo il ritiro dei Sovietici e l’irrompere della guerriglia. Con lo scoppio della guerra civile, le donne in Afghanistan furono soggette, in nome del loro sesso, a pesanti violazioni dei diritti umani. Dovettero subire stupri e matrimoni forzati. Vennero usate come bottino di guerra. Vennero rapite e vendute sul mercato della prostituzione. I talebani imposero alle donne restrizioni inumane, limitandone la libertà di movimento e di espressione, bandendole da lavoro e istruzione, vessandole, umiliandole, picchiandole.
Nella primavera del 2003 sono stato a Kabul, e ricordo di aver visto queste donne con i loro burqa sedute agli angoli delle strade, con quattro, cinque, sei bambini, che chiedevano l’elemosina. Ricordo di averle osservate mentre camminavano a due a due per strada, con i loro bambini cenciosi che le seguivano controvoglia, e di essermi chiesto come la vita avesse potuto ridurle a quel punto. Quali erano i loro sogni, le loro speranze, i loro desideri? Erano mai state innamorate? Chi erano i loro mariti? Cosa e chi avevano perso nei conflitti che avevano flagellato l’Afghanistan per due decenni?
Ho parlato con molte di quelle donne a Kabul. Le loro storie erano veramente strazianti. Quando ho iniziato a scrivere Mille splendidi soli, mi sono ritrovato a pensare continuamente a queste donne dalla forza straordinaria. Né Laila né Mariam si rifanno in particolare a una fra le molte che ho incontrato, ma le loro voci, i loro volti e le loro incredibili storie di sopravvivenza sono sempre state con me e ho tratto gran parte dell’ispirazione per questo romanzo proprio dall’insieme di tutte loro.
Come scrittore, la trama ha sempre avuto per me la precedenza su qualsiasi altra cosa. Non mi sono mai seduto alla scrivania con idee generali e assolute in mente, e di certo mai con un ordine programmatico. È un bell’onere per uno scrittore sentire la responsabilità di rappresentare la propria cultura e trasmetterla a chi legge. Per me l’intero processo creativo ha origine e si sviluppa sempre da un punto di partenza molto personale, intimo, che ha a che fare con i rapporti umani. Quel che più mi interessava, in questo nuovo romanzo, erano le speranze, i sogni e le disillusioni di queste due donne, la loro vita interiore, le circostanze specifiche che le avevano unite, la loro volontà di sopravvivenza e l’evolversi del loro legame in qualcosa di significativo e potente, a dispetto di un mondo, attorno a loro, che stava cadendo a pezzi e scivolando nel caos. Ma, mentre scrivevo, vedevo la storia espandersi, divenire pagina dopo pagina più ambiziosa. Mi resi conto che raccontare la vicenda di queste due donne senza parlare almeno in parte della storia dell’Afghanistan a partire dagli anni Settanta fino al post 11 settembre era semplicemente impossibile. Le vicende intime e personali erano intrecciate con quelle collettive e storiche. E così i tumulti in Afghanistan e il suo recente passato tormentato sono diventati a poco a poco più che un semplice sfondo. Gradualmente, l’Afghanistan stesso – e, più specificamente, Kabul – si è trasformato in un vero e proprio personaggio, con risultati ancora più significativi, a mio parere, rispetto a Il cacciatore di aquiloni. Ma questo semplicemente per il bene della narrazione, non per un senso di responsabilità sociale volto a far conoscere ai lettori il mio paese natale. Detto questo, mi sentirei gratificato se, al termine di Mille splendidi soli, i lettori provassero la sensazione di aver letto una storia che li ha convinti, ritrovandosi al tempo stesso con una conoscenza un po’ più approfondita e un’opinione più diretta e personale di cosa sia successo in Afghanistan negli ultimi trent’anni.
Khaled Hosseini