Diciannove

«Devo parlare con i tuoi genitori, dokhtar jan» disse lo sconosciuto quando Laila aprì la porta. Era un uomo tozzo, con il viso affilato, reso coriaceo dalla vita all’aperto. Indossava una giacca color patata e in testa aveva un pakol di lana marrone.

«Posso sapere chi devo annunciare?»

Un attimo dopo, Babi posò le mani sulle spalle di Laila e con dolcezza la allontanò dalla porta.

«Perché non vai di sopra, Laila? Su, da brava.»

Mentre si avvicinava alla scala Laila sentì che l’uomo diceva a Babi di avere notizie dal Panshir. A quel punto anche la mamma era scesa da basso. Teneva una mano premuta sulla bocca e i suoi occhi passavano freneticamente da Babi all’uomo con il pakol.

Laila sbirciava dall’alto della scala. Vide lo sconosciuto che si sedeva con i suoi genitori. Si chinava verso di loro. Disse qualche parola a bassa voce. Poi Laila vide il viso di Babi impallidire, diventare sempre più bianco. Si guardava le mani, mentre la mamma gridava, gridava e si strappava i capelli.

Il mattino seguente, il giorno della fatiha, un nugolo di vicine invase la casa facendosi carico di preparare la cena del khatm, che avrebbe avuto luogo dopo il funerale. La mamma, con il viso gonfio di pianto, rimase seduta sul divano tutta la mattina, tormentando il fazzoletto tra le mani. Era assistita da un paio di donne che, tirando su con il naso, a turno le davano dei colpetti delicati sulla mano, come se fosse stata la bambola più rara e più fragile del mondo. La mamma non sembrava neppure accorgersi della loro presenza.

Laila si inginocchiò davanti a lei e le prese le mani. «Mamma.»

La mamma abbassò gli occhi su di lei. Sbatté le palpebre.

«Ci prenderemo noi cura di lei, Laila jan» disse una delle donne con grande sussiego. Laila aveva già assistito ad altri funerali dove aveva visto donne come queste, donne che godevano del rituale mortuario. Consolatrici ufficiali che non permettevano a nessuno di occuparsi dei doveri cui si erano auto-candidate.

«È tutto sotto controllo. Ora occupati di qualcos’altro, bambina. Lascia in pace tua madre.»

Così estromessa, Laila si sentiva inutile. Peregrinò da una stanza all’altra. Ciondolò qualche minuto in cucina. Arrivò Hasina, insolitamente controllata, in compagnia di sua madre. Arrivò anche Giti con Nila. Quando scorse Laila, le si avvicinò gettandole al collo le sue braccia ossute e tenendola a lungo stretta in un abbraccio inaspettatamente energico. Quando si staccò dall’amica, aveva gli occhi inondati di lacrime. «Mi dispiace, Laila» disse. Laila la ringraziò. Le tre ragazzine si sedettero fuori in cortile, finché una donna assegnò loro il compito di lavare i bicchieri e impilare i piatti sul tavolo.

Anche Babi continuava a entrare e uscire di casa, senza uno scopo preciso, come alla ricerca di qualcosa da fare.

«Tenetelo lontano da me.» Furono le sole parole che la mamma pronunciò in tutta la mattina.

Babi finì per mettersi in corridoio, tutto solo su una sedia pieghevole. Poi una delle donne gli disse che lì era d’intralcio. Lui si scusò e sparì nel suo studio.

Il pomeriggio gli uomini si recarono alla sala che Babi aveva affittato per la fatiha a Karteh-Seh. Le donne, invece, si riunirono in casa. Laila prese posto accanto alla mamma, presso l’ingresso del soggiorno dove, secondo la tradizione, sedeva la famiglia del defunto. Sulla soglia le donne si toglievano le scarpe e si salutavano con un cenno del capo mentre si accomodavano sulle sedie pieghevoli disposte lungo le pareti. Laila vide Wajma, l’anziana levatrice che l’aveva aiutata a nascere. Vide anche la madre di Tariq con un foulard nero sopra la parrucca. Rivolse a Laila un sorriso triste, stanco, a labbra serrate.

Dal mangianastri, una voce maschile salmodiava versetti del Corano, mentre le donne sospiravano e piangevano inquiete sulle sedie. Ci furono colpi di tosse soffocati e mormorii. Di tanto in tanto, qualcuno emetteva un singhiozzo teatrale, stillante dolore.

Venne anche Mariam, la moglie di Rashid. Portava un hijab nero da cui sfuggivano ciocche di capelli che le cadevano sulla fronte. Si accomodò su una sedia lungo la parete di fronte a Laila.

La mamma continuava a dondolarsi avanti e indietro. Laila le prese la mano e la posò in grembo tenendola stretta tra le sue, ma la mamma non dava segno di notare la sua presenza.

«Vuoi un bicchiere d’acqua, mamma?» le chiese parlandole all’orecchio. «Hai sete?»

Ma la mamma non rispose. Non faceva altro che dondolarsi avanti e indietro, fissando il tappeto con uno sguardo vuoto, perduto.

Di tanto in tanto, vedendo gli occhi abbassati, carichi di dolore, delle donne presenti nel soggiorno, Laila percepiva vagamente l’enormità della disgrazia che aveva colpito la sua famiglia. Il futuro negato. Le speranze deluse.

Ma era una sensazione passeggera. Era difficile sentire, sentire veramente la perdita patita dalla mamma. Era difficile provare dolore, soffrire per la morte di persone che per Laila non erano mai state vive. Per lei, Ahmad e Nur avevano sempre fatto parte di un mito. Simili ai personaggi delle fiabe. Ai re di un libro di storia.

Era Tariq a essere reale, fatto di carne e di sangue. Tariq, che le insegnava le parolacce in pashtu, che amava le foglie di trifoglio acidule, che, aggrottando la fronte, emetteva mugolii di piacere quando mangiava, che aveva una voglia rosa chiaro a forma di mandolino rovesciato, a sinistra, proprio sotto la clavicola.

Così, Laila rimase seduta accanto alla mamma e doverosamente pianse la morte di Ahmad e di Nur ma, nel suo cuore, il suo vero fratello era vivo e vegeto.