Venti

In quel periodo fecero la loro comparsa i disturbi che avrebbero perseguitato la mamma per il resto dei suoi giorni. Dolori al petto e mal di testa, giunture dolenti e sudori notturni, fitte paralizzanti alle orecchie, gonfiori che nessun altro notava. Babi la portò dal medico, che prescrisse analisi del sangue e delle urine e sottopose il corpo della mamma a raggi X, ma non riscontrò nessuna malattia organica.

La mamma trascorreva a letto quasi tutti i giorni. Portava il lutto. Si strappava i capelli e si mordicchiava il neo sul labbro inferiore. Quando non dormiva, Laila la incontrava che camminava per casa come un’ubriaca. Finiva sempre nella camera di Laila, come se, entrando in quella stanza dove un tempo i ragazzi avevano dormito, scoreggiato e fatto la lotta con i cuscini, prima o poi li avrebbe incontrati. Ma l’unica cosa che incontrava era la loro assenza. E Laila. Che ormai pensava che, per la mamma, la sua presenza e l’assenza dei fratelli fossero diventate la stessa cosa.

L’unico compito che non trascurava mai erano le cinque preghiere quotidiane del namaz. Al termine di ogni namaz, chinava la testa e, tenendo le mani davanti al viso con i palmi rivolti verso l’alto, mormorava una preghiera perché Dio accordasse la vittoria ai mujahidin. Con il passare del tempo, Laila dovette farsi carico sempre più spesso delle faccende domestiche. Se non si occupava lei della casa, ben presto trovava vestiti, scarpe, sacchetti di riso aperti, scatolette di fagioli e piatti sporchi sparsi per ogni dove. Lavava gli abiti della mamma e le cambiava le lenzuola. Doveva convincerla con mille moine ad alzarsi perché facesse il bagno e mangiasse qualcosa. Era Laila a lavare le camicie di Babi e a piegargli i pantaloni. Sempre più spesso, toccava a lei cucinare.

A volte, finiti i lavori di casa, si infilava nel letto accanto alla mamma. La abbracciava, intrecciava le dita con quelle di lei, affondava il viso nei suoi capelli. La mamma si svegliava, mormorava qualcosa. Immancabilmente si metteva a raccontare qualche storia sui ragazzi.

Un giorno, mentre erano a letto abbracciate, la mamma disse: «Ahmad sarebbe diventato un leader. Aveva carisma. Uomini che avevano tre volte la sua età l’ascoltavano con rispetto, Laila. Dovevi vedere. E Nur. Oh, il mio Nur. Faceva sempre schizzi di edifici e di ponti. Sarebbe diventato un architetto, sai. Avrebbe trasformato Kabul con i suoi progetti. E ora sono tutti e due shahid, i miei ragazzi, tutti e due martiri».

Laila ascoltava, sperando che la mamma si accorgesse che lei, Laila, non era diventata una shahid, che era viva, lì, nel letto accanto a lei, e che come tutti nutriva speranze per il proprio futuro. Ma Laila sapeva che il suo futuro non poteva competere con il passato dei fratelli. Le avevano fatto ombra da vivi, l’avrebbero cancellata da morti. La mamma era diventata la curatrice del museo della loro vita e lei, Laila, era una semplice visitatrice. Un ricettacolo per il loro mito. La pergamena su cui la mamma intendeva calligrafare la loro leggenda.

«L’uomo che ci ha comunicato la notizia ha detto che quando hanno riportato i ragazzi al campo, Ahmad Shah Massud in persona si è occupato della loro sepoltura. Ha pregato sulla loro tomba. I tuoi fratelli erano dei giovani coraggiosi, Laila, tanto che il comandante Massud in persona, il Leone del Panshir, che Dio lo benedica, ha voluto occuparsi della loro sepoltura.»

La mamma si stese supina. Laila cambiò posizione e appoggiò la testa sul petto della mamma.

«Ci sono giorni,» disse la mamma con voce rauca «in cui ascolto il tic-tac dell’orologio in corridoio e penso a tutti i tic-tac, a tutti i minuti, a tutte le ore e i giorni e le settimane e i mesi e gli anni che mi aspettano. Senza di loro. Allora mi manca il respiro, come se qualcuno mi mettesse un piede sul cuore, Laila. Mi sento così debole. Così debole che vorrei solo lasciarmi cadere da qualche parte.»

«Vorrei poter fare qualcosa» disse Laila con convinzione. Ma le parole suonarono generiche, formali, la frase consolatoria di un estraneo.

«Sei una brava figlia,» disse la mamma dopo un profondo sospiro «e io non sono stata granché come madre per te.» «Non devi dire questo.»

«Oh. È vero. Lo so e me ne dispiace, tesoro mio.»

«Mamma?»

«Mm.»

Laila si mise a sedere, osservando sua madre con attenzione. Ora i suoi capelli avevano delle ciocche grigie. Fu impressionata da quanto fosse dimagrita, lei che era sempre stata grassoccia. Le guance erano giallastre e tirate. La camicetta le pendeva dalle spalle come da una gruccia e il colletto le andava largo. Più di una volta Laila aveva visto la fede scivolarle via dal dito.

«Volevo chiederti una cosa.»

«Cosa?»

«Non è che tu…» iniziò a dire Laila.

Ne aveva parlato con Hasina. Su suggerimento dell’amica, avevano gettato nella canaletta di scolo l’intero contenuto di un tubetto di aspirina, avevano nascosto i coltelli da cucina e gli spiedini acuminati del kebab sotto il tappeto su cui era posato il divano. Hasina aveva trovato una corda in giardino. Quando Babi non era riuscito a trovare il rasoio, Laila aveva dovuto metterlo a parte dei suoi timori. Lui si era lasciato cadere sul divano con le mani tra le ginocchia. Si era aspettata che il padre, in qualche modo, la rassicurasse. Ma non aveva incontrato altro che uno sguardo vacuo, allucinato.

«Non è che tu… Mamma, io sono preoccupata che tu…»

«Ci ho pensato la sera in cui abbiamo ricevuto la notizia» disse la mamma. «Non ti voglio mentire. Ci ho pensato anche dopo. Ma no. Non ti preoccupare, Laila. Voglio esserci quando si realizzerà il sogno dei miei figli. Voglio vedere il giorno in cui i russi se ne andranno coperti di ignominia, il giorno in cui i mujahidin entreranno a Kabul vittoriosi. Voglio esserci quando questo accadrà, quando l’Afghanistan sarà libero, in modo che anche i ragazzi lo vedano. Lo vedranno attraverso i miei occhi.»

Non passò molto che la mamma si addormentò, lasciando Laila in preda a due emozioni contrastanti: da un lato si sentiva sollevata al pensiero che la mamma avesse trovato una ragione per continuare a vivere, dall’altro la feriva sapere che quella ragione non fosse lei. Lei non avrebbe mai lasciato nel suo cuore un segno pari a quello lasciato dai fratelli, perché il cuore della mamma era come una spiaggia dilavata, sulla quale le orme di Laila sarebbero state per sempre spazzate via dalle onde del suo dolore, che si gonfiavano e si frangevano, si gonfiavano e si frangevano.