Laila
Laila ricordava che una volta, molti anni prima, in uno dei suoi giorni buoni, la mamma aveva invitato a casa le sue amiche. Le donne erano sedute in giardino e mangiavano le more fresche che Wajma aveva raccolto dal gelso nel suo cortile. Erano grosse more bianche e rosa, alcune viola scuro come le venuzze sul naso di Wajma.
“Avete sentito come è morto suo figlio” aveva detto Wajma, infilando un’altra manciata di more nella bocca sdentata.
“È annegato, vero?” aveva detto Nila, la madre di Giti. “Nel lago Ghargha, vero?”
“Ma sapevate, sapevate che Rashid…” Wajma aveva alzato un dito, aveva annuito in modo teatrale continuando a masticare, costringendo l’uditorio ad aspettare che inghiottisse. “Sapevate che allora aveva l’abitudine di bere sharab e che quel giorno era ubriaco fradicio? È vero. Ubriaco fradicio, ho sentito dire. Ed era metà mattina. Dopo un paio d’ore, era crollato mezzo svenuto su una sdraio. Non avrebbe battuto ciglio neanche alle cannonate di mezzogiorno sparate a un passo dalle sue orecchie.”
Laila ricordava che Wajma si era messa una mano davanti alla bocca, aveva ruttato e aveva frugato con la lingua tra i pochi denti che le rimanevano.
“Potete immaginarvi il resto. Il ragazzo era entrato in acqua senza che nessuno lo notasse. L’hanno scoperto qualche ora dopo che galleggiava a faccia in giù. Tutti erano corsi in aiuto, metà delle persone cercava di far riprendere il ragazzo, l’altra metà il padre. Qualcuno si era chinato sul ragazzo facendogli… quella cosa bocca a bocca che si fa in questi casi. Fu inutile. Tutti se ne rendevano conto. Il ragazzo era morto.”
Laila si ricordava che, a quel punto, Wajma aveva puntato un dito verso il cielo e con voce fremente di devozione aveva detto: “Ecco perché il sacro Corano proibisce di bere sharab. Perché tocca sempre ai sobri pagare per i peccati degli ubriachi. È così”.
Era questa storia che ronzava nella testa di Laila quando aveva dato a Rashid la notizia del bambino. Lui era saltato sulla bicicletta, era corso alla moschea e aveva pregato che fosse un maschio.
Quella sera, durante la cena, Laila osservò Mariam che faceva girare un cubetto di carne nel piatto. Era presente quando, poco prima, Rashid aveva annunciato a Mariam la notizia con voce tonante, drammatica. Laila non aveva mai assistito a una tale esibizione di allegra crudeltà. Mariam aveva sbattuto le palpebre. Era arrossita. Poi si era messa a sedere, con un’espressione risentita e un’aria sperduta.
Dopo cena. Rashid andò di sopra ad ascoltare la sua radio e Laila aiutò Mariam a sgombrare la sofrah.
«Posso immaginare cosa sei adesso» disse Mariam raccogliendo grani di riso e briciole di pane «se prima eri una Mercedes.»
Laila cercò di buttarla sullo scherzo. «Un treno? Forse un grosso jet, un jumbo.»
Mariam si irrigidì. «Spero tu non creda che questo ti dispensi dalle faccende domestiche.»
Laila fu sul punto di dire qualcosa, ma si trattenne. Così come stavano le cose, Mariam era l’unica delle parti in causa a essere del tutto innocente. Mariam e il bambino.
Più tardi, a letto, Laila scoppiò in lacrime.
Perché mai, volle sapere Rashid. Alzandole il mento, le chiese se si sentisse male. C’entrava il bambino, qualcosa non andava? No? Mariam la trattava male?
«È questo, vero?»
«No.»
«Wallah o billah, vado giù e le do una lezione. Cosa crede di essere quella harami che ti tratta…»
«No!»
Stava già alzandosi, e Laila dovette afferrarlo per il braccio e tirarlo indietro. «No, non farlo! Lei è gentile con me. Dammi un attimo. Poi mi passa.»
Si sedette accanto a lei, accarezzandole il collo, mormorando qualcosa. La sua mano, lentamente, strisciò lungo la sua schiena, poi su di nuovo. Si chinò su di lei, i denti accavallati messi in mostra da un largo sorriso.
«Allora,» sussurrò con aria sorniona «vediamo se riesco a farti stare meglio.»
Dapprima gli alberi – quelli che non erano stati tagliati per fare legna da ardere – lasciarono cadere le foglie chiazzate, gialle e rosso rame. Poi la città fu spazzata da venti freddi e pungenti, che lasciarono gli alberi nudi e spettrali sullo sfondo bruno opaco delle colline. La prima nevicata della stagione fu leggera, i fiocchi si scioglievano non appena toccavano il terreno. Poi le strade ghiacciarono e la neve si ammucchiò sui tetti delle case, si accumulò contro le finestre coperte di ghiaccio. Con la neve arrivarono gli aquiloni, un tempo dominatori dei cieli invernali di Kabul, ora timidi intrusi in spazi occupati dai lanci dei razzi e dai voli dei caccia.
Ogni giorno, Rashid portava a casa notizie della guerra, ma Laila non riusciva a seguire le alleanze che lui cercava di spiegarle. Sayyaf combatteva gli hazara, disse. Gli hazara combattevano Massud.
«E lui combatte Hekmatyar, naturalmente, che ha l’appoggio dei pakistani. Nemici mortali quei due, Massud e Hekmatyar. Sayyaf al momento sta con Massud. E Hekmatyar appoggia gli hazara.»
Quanto all’imprevedibile comandante uzbeko Dostum, Rashid disse che nessuno sapeva con chi si fosse alleato. Negli anni Ottanta Dostum aveva combattuto i sovietici insieme ai mujahidin, ma quando i russi si erano ritirati aveva defezionato, avvicinandosi al regime fantoccio del comunista Najibullah. Si era persino guadagnato una medaglia, conferita da Najibullah stesso, prima di cambiare gabbana un’altra volta e tornare a sostenere i mujahidin. Al momento, disse Rashid, Dostum appoggiava Massud.
A Kabul, soprattutto nella zona occidentale della città, imperversavano gli incendi e luttuosi funghi di fumo nero incappucciavano gli edifici coperti di neve. Le ambasciate chiudevano. Le scuole erano al collasso. Nelle sale d’attesa degli ospedali, disse Rashid, i feriti morivano dissanguati. Nelle sale operatorie, braccia e gambe venivano amputate senza anestesia.
«Ma non preoccuparti,» disse «con me tu sei al sicuro, fiorellino mio, mio gul. Se qualcuno ci prova a farti del male, gli strappo il fegato con le mie stesse mani.»
Quell’inverno, dovunque andasse, Laila incontrava muri che le sbarravano la strada. Pensava con nostalgia ai grandi cieli liberi della sua infanzia, ai giorni in cui andava con Babi ai tornei di buzkashi o con la mamma a far compere a Mandaii, ai giorni di corse sfrenate per le strade, quando con Giti e Hasina spettegolava sui ragazzi. Ai giorni in cui lei e Tariq si sedevano in un prato di trifoglio sulle rive di un torrente, scambiandosi indovinelli e dolci e guardando il sole che tramontava.
Ma il pensiero di Tariq era pericoloso, perché prima che Laila potesse scacciarlo, lo vedeva immobile in un letto, lontano da casa, con tubi che gli trafiggevano il corpo ustionato, come aghi da calza in un gomitolo di lana. Un dolore profondo, paralizzante le saliva al petto, come la bile che in quei giorni le bruciava sempre la gola. Le gambe le si scioglievano. Doveva aggrapparsi a qualcosa.
Laila trascorse l’inverno del 1992 spazzando la casa, spolverando le pareti color zucca della stanza che condivideva con Rashid, facendo il bucato all’aperto in un grande lagaan di rame. A volte, come se si librasse sopra il suo stesso corpo, si vedeva accucciata sul bordo del lagaan, le maniche arrotolate ai gomiti, mentre strizzava l’acqua insaponata dalle canottiere di Rashid con le mani arrossate. In quei casi si sentiva perduta, disancorata, come sopravvissuta a un naufragio, senza una riva in vista, tutt’attorno soltanto chilometri e chilometri d’acqua.
Quando faceva troppo freddo per uscire, Laila vagava per casa. Camminava strisciando un dito contro le pareti, lungo il corridoio di sopra, poi indietro, giù dalla scala, poi su di nuovo, senza lavarsi il viso, senza pettinarsi. Camminava finché si imbatteva in Mariam, che le lanciava uno sguardo tetro, senza interrompere quello che stava facendo: tagliare il picciolo di un peperone o staccare i fili di grasso dalla carne. Nella stanza cadeva un silenzio doloroso e Laila quasi vedeva materializzarsi la muta ostilità che irradiava da Mariam, come ondate di calore che si alzano dall’asfalto. Si ritirava nella sua stanza, sedeva sul letto e guardava la neve che cadeva.
Un giorno Rashid la accompagnò alla sua bottega.
Quando uscivano insieme, lui le camminava a fianco e con una mano la guidava tenendola per il gomito. Per Laila, camminare per strada voleva ormai dire, soprattutto, cercare di non farsi male. I suoi occhi non erano ancora abituati al ristretto campo visivo consentito dalla rete del burqa, e i piedi inciampavano di continuo nell’orlo. Procedeva nel perpetuo timore di cadere, di finire in una buca rompendosi una caviglia. Però trovava un certo conforto nell’anonimato garantito dal burqa. Almeno non sarebbe stata riconosciuta, se per caso si fosse imbattuta in una vecchia conoscenza. Non avrebbe dovuto leggere la sorpresa, la commiserazione o la gioia maligna negli occhi di chi constatava quanto fosse caduta in basso, quanto le sue ambiziose aspirazioni fossero state frustrate.
La bottega di Rashid era più grande e più luminosa di come se l’era immaginata. La fece sedere dietro il banco di lavoro con il piano ingombro di vecchie suole di scarpe e di ritagli di pelle. Le mostrò i martelli, le spiegò come funzionava la levigatrice, con voce stentorea, gonfia di orgoglio.
Le toccava il ventre, non sopra la camicia, ma sotto, facendo scorrere le dita fredde e ruvide come corteccia sulla sua pelle tesa. Laila ricordava le mani di Tariq, morbide ma forti, il reticolo di vene sul dorso che le era sempre sembrato così virile, così affascinante.
«Ha fatto presto a gonfiarsi» disse Rashid. «Sarà un bambino grande e grosso. Mio figlio sarà un pahlawan! Tutto suo padre.»
Laila tirò giù la camicia. La riempiva di paura quel suo modo di parlare.
«Come vanno le cose con Mariam?»
Gli rispose che andavano benissimo.
«Bene. Bene.»
Non gli disse che avevano avuto il loro primo litigio serio.
Era successo qualche giorno prima. Laila era andata in cucina e aveva trovato Mariam che spalancava i cassetti e li richiudeva sbattendoli con violenza. Cercava, aveva detto, il lungo cucchiaio di legno che le serviva per rimestare il riso.
«Dove l’hai messo?» aveva chiesto, voltandosi di scatto verso di lei.
«Io?» aveva risposto Laila. «Non l’ho toccato. In cucina quasi non ci metto piede.»
«L’ho notato.»
«Mi stai rimproverando? L’hai voluto tu, ricordalo, sei stata tu a dire che volevi occuparti della cucina. Ma se vuoi che ci scambiamo…»
«Vuoi dire che gli sono spuntate delle gambette e se ne è andato a spasso. Tip tap, tip tap. È così che è andata, degeh?»
«Voglio dire» aveva ripreso Laila, cercando di mantenersi calma. Di solito si imponeva di non rispondere alle irridenti accuse che Mariam le rivolgeva puntandole contro il dito. Ma aveva le caviglie gonfie, il mal di testa e quel giorno il bruciore allo stomaco era particolarmente fastidioso. «Voglio dire che forse l’hai messo nel posto sbagliato.»
«Nel posto sbagliato?» Mariam aveva aperto un cassetto, facendo tintinnare spatole e coltelli. «Da quanto tempo sei in questa casa, qualche mese? Io vivo qui da diciannove anni, dokhtar jo. Tengo quel cucchiaio in questo cassetto da quando tu la facevi ancora nei pannolini.»
«Però,» disse Laila a denti stretti, vicina a perdere le staffe «è possibile che tu l’abbia messo da qualche altra parte e che te ne sia dimenticata.»
«È possibile che tu l’abbia nascosto per farmi dispetto.»
«Sei una povera donna infelice» aveva concluso Laila.
Mariam aveva avuto un sussulto, poi si era ripresa e stringendo le labbra aveva detto: «E tu sei una puttana. Una puttana e una dozd. Una puttana ladra, ecco cosa sei!».
Poi avevano incominciato a gridare. Avevano afferrato le pentole in modo minaccioso, ma senza tirarsele addosso. Si erano insultate dicendo cose, cose per cui ora Laila arrossiva. Da allora non si erano più rivolte la parola. Laila era ancora scioccata al pensiero di come fosse uscita dai gangheri per così poco, ma la verità era che una parte di lei aveva goduto di quel litigio, aveva assaporato il piacere di alzare la voce, di insultare Mariam, di avere un bersaglio su cui sfogare la propria rabbia, il proprio dolore.
Laila si chiedeva, con una certa perspicacia, se non fosse stata la stessa cosa per Mariam.
Poi, era corsa di sopra e si era buttata sul letto di Rashid. Da basso, Mariam continuava a gridare: «Brutta schifosa! Brutta schifosa!». Laila aveva singhiozzato con la testa affondata nel cuscino, sentendo improvvisamente la mancanza dei suoi genitori con l’insostenibile intensità che non aveva più sentito da quei terribili giorni dopo l’esplosione. Rimase sdraiata, stringendo tra le mani le lenzuola, con il respiro mozzo. Si mise seduta e le mani le corsero al ventre.
Il bambino aveva scalciato per la prima volta.