Laila, autunno 1999
La buca fu un’idea di Mariam. Una mattina, indicando un punto dietro il capanno, disse: «Possiamo scavare qui. Mi sembra che qui vada bene».
A turno scavarono il terreno con la vanga, ammucchiando su un lato la terra rimossa. Avevano deciso di scavare una fossa non troppo grande, non troppo profonda, per cui il lavoro di scavo non avrebbe dovuto essere faticoso come invece risultò. Era per via della siccità, che ormai da due anni provocava disastri dappertutto. L’inverno precedente le nevicate erano state scarse e in primavera non era piovuto affatto. In tutto il paese, i contadini lasciavano i campi riarsi, vendevano le loro cose e vagavano di villaggio in villaggio alla ricerca di acqua. Passavano in Iran o in Pakistan. Si fermavano a Kabul. Ma anche in città la falda acquifera si era abbassata, lasciando a secco la maggior parte dei pozzi. Le file ai pozzi profondi erano così lunghe che Laila e Mariam dovevano aspettare per ore il loro turno. Il fiume Kabul, senza le inondazioni di primavera, era completamente in secca. Si era trasformato in una latrina pubblica, dove non c’era altro che spazzatura ed escrementi umani.
Così proseguirono nel loro lavoro di scavo, ma il terreno disseccato dal sole era duro come roccia, compatto, impenetrabile, quasi pietrificato.
Mariam aveva compiuto i quarant’anni. Alcune ciocche grigie le striavano i capelli, pettinati in modo da lasciar libero il viso. Sotto gli occhi le si erano formate delle borse scure, a forma di mezzaluna. Aveva perso due incisivi. Uno era caduto di suo, l’altro gliel’aveva fatto saltare Rashid con un pugno, quando per sbaglio lei aveva lasciato cadere Zalmai. La sua pelle si era fatta ruvida e abbronzata, perché passava tanto tempo in cortile seduta sotto il sole rovente. Lei e Laila sedevano all’aperto e sorvegliavano Zalmai che rincorreva Aziza.
Finito di scavare, rimasero in piedi sul bordo della fossa, guardando giù.
«Dovrebbe bastare» disse Mariam.
Zalmai aveva due anni. Era un bambino paffuto con i capelli ricci. Aveva occhi piccoli, castani e guance colorite, indipendentemente dal clima, come Rashid. Aveva anche la stessa attaccatura dei capelli, arcuata, bassa, appena sopra le sopracciglia.
Quando era solo con Laila, Zalmai era dolce, allegro e giocoso. Gli piaceva mettersi a cavalluccio sulle spalle della madre, giocare a nascondino nel cortile con lei e con Aziza. A volte, nei momenti in cui era più tranquillo, gli piaceva sedersi in grembo a Laila e le chiedeva di cantare. La sua canzone preferita era Mullah Mohammad jan. Mentre lei cantava tenendo la bocca sulla testa ricciuta del bambino, lui sgambettava con i piedini grassocci e, quando arrivava il ritornello, attaccava anche lui, con la sua voce stridula, pronunciando solo le poche parole che riusciva ad articolare:
Vieni, andiamo a Mazar, Mullah Mohammad jan,
a vedere i campi di tulipani, mio diletto compagno.
Laila amava i baci umidi che Zalmai le piazzava sulle gote, amava le fossette dei suoi gomiti e i piccoli alluci tozzi. Amava fargli il solletico, costruire gallerie di cuscini e guanciali in cui lui potesse gattonare, vedere come si addormentava tra le sue braccia con una mano che le stringeva un orecchio. Al solo pensiero di quel pomeriggio in cui era rimasta sdraiata sul pavimento con il raggio di bicicletta tra le gambe, lo stomaco le si rivoltava. Era stata lì lì per farlo. Adesso le sembrava impensabile il solo aver preso in considerazione quell’idea. Suo figlio era una benedizione, e Laila era felice di scoprire che i suoi timori di allora si erano rivelati infondati, che in realtà amava il suo bambino in modo viscerale, proprio come Aziza.
Ma Zalmai adorava suo padre e per questo, quando Rashid era a casa, si trasformava, approfittando dell’amore incondizionato del padre. Allora si agitava, schiamazzava in modo provocatorio oppure rideva con sfacciataggine. Ed era pronto a offendersi per un nonnulla. Metteva il broncio e, sordo ai rimproveri di Laila, persisteva nelle sue birichinate, cosa che non faceva mai quando Rashid era via.
Rashid non lo sgridava mai. «È segno di intelligenza» commentava. Diceva la stessa cosa quando Zalmai combinava dei guai belli e buoni, come quando ingoiò le biglie, che poi vennero fuori con la cacca; quando accese i fiammiferi; quando si mise a masticare le sigarette del padre.
Fin da quando Zalmai era piccolissimo, Rashid aveva voluto che dormisse nel letto con lui e Laila. Poi gli aveva comprato una nuova culla, con leoni e leopardi accovacciati dipinti sui fianchi. Aveva acquistato nuovi vestiti, nuovi sonaglini, nuovi biberon, nuovi pannolini, anche se non se li potevano permettere e quelli di Aziza erano ancora utilizzabili. Un giorno era arrivato a casa con una giostrina a batteria che aveva appeso sopra la culla di Zalmai. Piccoli calabroni gialli e neri che pendevano da un girasole ronzavano e squittivano quando il bambino li prendeva in mano. Quando la si accendeva, partiva un motivetto.
«Non avevi detto che hai poco lavoro?» gli aveva chiesto Laila.
«Ho degli amici cui posso chiedere dei prestiti» aveva tagliato corto Rashid.
«Come farai a restituire i soldi?»
«Le cose si aggiusteranno. Come sempre. Guarda, gli piace. Vedi?»
Laila spesso veniva privata della presenza del figlio. Rashid lo portava con sé alla bottega, lo lasciava strisciare sotto il banco di lavoro carico di attrezzi e gli permetteva di giocare con le vecchie suole di gomma e con i ritagli di pelle. Con un occhio batteva chiodi e azionava la levigatrice, con l’altro sorvegliava il bambino. Se Zalmai rovesciava una pila di scarpe, Rashid non si innervosiva ma lo rimproverava con dolcezza, un mezzo sorriso stampato sulle labbra. Se lo faceva una seconda volta, allora lui posava il martello, metteva a sedere il figlio sul banco e gli parlava pacato.
La sua pazienza con Zalmai era un pozzo molto profondo, che non si prosciugava mai.
La sera tornavano a casa portando con sé l’odore di colla e di cuoio, Zalmai a cavalluccio del padre, la testa che spuntava a ogni passo dietro la sua spalla. Si scambiavano maliziosi sorrisi d’intesa, come due cospiratori, quasi fossero stati seduti tutto il giorno in quella bottega non a confezionare scarpe, ma a escogitare complotti segreti. A cena, a Zalmai piaceva prendere posto accanto al padre, e mentre Mariam, Laila e Aziza mettevano i piatti sulla sofrah, loro due si dedicavano a giochi che conoscevano solo loro. Si davano reciprocamente dei colpetti sul petto, ridacchiavano, si tiravano palline di mollica, si mormoravano cose sottovoce. Se Laila rivolgeva loro la parola, Rashid alzava lo sguardo infastidito da quell’intrusione indebita. Se voleva tenere in braccio Zalmai – oppure, peggio ancora, se Zalmai voleva essere preso in braccio da lei – Rashid la guardava in cagnesco.
Laila, offesa, lasciava la stanza.
Una sera, alcune settimane dopo che Zalmai aveva compiuto i due anni, Rashid tornò a casa con un televisore e un videoregistratore. Era stata una giornata tiepida, quasi primaverile, ma con la sera era calato il freddo e si preparava una notte gelida, senza stelle.
L’appoggiò sul tavolo del soggiorno, dicendo che l’aveva comperato al mercato nero.
«Un altro prestito?» chiese Laila.
«È un Magnavox.»
Quando Aziza entrò in soggiorno, si precipitò verso il televisore.
«Attenta, Aziza jo» la trattenne Mariam. «Non toccare.»
I capelli di Aziza erano diventati chiari come quelli di Laila. Sulle guance aveva le stesse fossette della madre. Era una bambina calma, riflessiva e, secondo Laila, si comportava con una maturità precoce per i suoi sei anni. Si meravigliava del linguaggio della figlia, con cadenze e ritmi, pause pensose e intonazioni da persona adulta, un linguaggio incongruo rispetto al corpo acerbo che custodiva quella voce. Era Aziza che, con gioioso senso di responsabilità, si era assunta il compito di svegliare Zalmai al mattino, di pettinarlo, vestirlo e preparargli la colazione. Era lei che lo metteva nella culla per il sonnellino, che assumeva il ruolo di saggio paciere quando il suo capriccioso fratello faceva le bizze. Davanti ai comportamenti volubili di Zalmai, Aziza scuoteva il capo esasperata, ma in modo stranamente adulto.
Aziza premette il pulsante per accendere la tv. Rashid la fulminò con lo sguardo e, afferrandola per il polso in modo sgarbato, le posò la mano sul tavolo.
«Questa è la tv di Zalmai» disse.
Aziza corse da Mariam, saltandole in grembo. Le due erano ormai inseparabili. Da qualche tempo, con la benedizione di Laila, Mariam aveva iniziato a insegnare ad Aziza i versetti del Corano. La bambina sapeva già recitare a memoria la sura dell’Ikhlas e la Fatiha e sapeva come compiere le quattro ruqat della preghiera dell’alba.
“Non ho nulla da offrirle,” aveva detto Mariam a Laila “se non questo mio sapere, queste preghiere. È l’unico bene che io abbia mai posseduto.”
Zalmai entrò nella stanza. Mentre Rashid lo osservava pregustandone le prodezze, così come la gente per strada assiste affascinata ai banali trucchi dei maghi girovaghi, Zalmai si mise a tirare il cavo della tv, a premere i vari pulsanti, a posare le mani sullo schermo spento. Quando le tolse, le impronte lasciate dai suoi piccoli palmi dopo un attimo svanirono dal vetro. Rashid sorrise orgoglioso e rimase estasiato a vedere Zalmai che, scoperto il nuovo gioco, continuava a posare e a togliere le mani dallo schermo.
I talebani avevano bandito la televisione. Avevano inscenato distruzioni pubbliche di videocassette, estraendo i nastri e annodandoli sui pali dei recinti. Avevano appeso le antenne satellitari ai lampioni della luce. Ma Rashid sosteneva che la proibizione di certe cose non significava affatto che non le si potesse comprare.
«Domani cercherò delle cassette di cartoni animati» annunciò. «Non sarà difficile trovarne. Si può comprare di tutto, nei bazar clandestini.»
«Magari riesci anche a comperarci un pozzo nuovo» replicò Laila, guadagnandosi un’occhiataccia di disprezzo da parte di Rashid.
Più tardi, dopo un’ennesima cena a base di solo riso scondito e senza tè, per via della mancanza d’acqua, dopo aver fumato la sua sigaretta, Rashid comunicò a Laila la decisione che aveva preso.
«No» disse Laila.
Lui le disse che non stava affatto chiedendo il suo parere.
«Non mi interessa se me lo chiedi o non me lo chiedi.»
«Invece ti interesserebbe se conoscessi tutta la storia.»
Raccontò di aver chiesto in prestito molto più denaro di quanto le avesse confessato, che quanto guadagnava con la bottega non era più sufficiente a mantenere tutti e cinque. «Non te l’ho detto prima per evitare che ti preoccupassi.»
«Inoltre,» aggiunse «non hai idea di quanto rendano.»
No, disse di nuovo Laila. Erano in soggiorno. Mariam e i bambini erano in cucina. Laila sentiva l’acciottolio dei piatti, le risate stridule di Zalmai, la voce calma e ragionevole di Aziza che parlava con Mariam.
«Ce ne saranno altre come lei, anche più piccole» aggiunse Rashid. «Tutti fanno così a Kabul.»
Laila gli disse che non le importava niente di ciò che facevano gli altri con i loro figli.
«La terrò d’occhio» disse Rashid, perdendo la pazienza. «È un angolo sicuro. C’è una moschea giusto dall’altra parte della strada.»
«Non ti permetterò di fare di mia figlia un’accattona!» gli disse in tono reciso.
Lo schiaffo risuonò secco, il palmo della sua grossa mano colpì in pieno la guancia di Laila, facendole voltare la testa dall’altra parte. I rumori della cucina cessarono. Per un attimo, la casa cadde nel silenzio più assoluto. Poi in corridoio ci fu un rapido scalpiccio di passi e Mariam e i bambini entrarono in soggiorno. I loro occhi passarono da Rashid a Laila, da Laila a Rashid.
A quel punto Laila gli sferrò un pugno.
Era la prima volta che alzava le mani su qualcuno, fatta eccezione per i pugni che aveva scambiato per scherzo con Tariq. Ma in realtà quelli erano stati più buffetti che veri e propri pugni, un gioco tra amici, una facile espressione di inquietudini indecifrabili e allo stesso tempo eccitanti. Avevano come bersaglio il muscolo che Tariq, con tono cattedratico, definiva deltoide.
Laila seguì la traiettoria del suo pugno, sentì la pelle ruvida e coriacea di Rashid cedere sotto le sue nocche. Fece il rumore sordo di un sacchetto di riso che cade a terra. L’aveva colpito con forza. Lui indietreggiò di due passi.
Dall’altra parte della stanza, un grido soffocato, uno strillo e un urlo. Laila non sapeva da chi, di preciso, fossero venuti. Al momento era troppo sgomenta per far caso o preoccuparsi di chi le stava attorno. La sua mente non aveva ancora pienamente registrato il gesto della mano. Forse le salì alle labbra un sorriso quando si rese conto finalmente di ciò che aveva fatto. Forse aveva sogghignato quando, con suo grande stupore, Rashid era uscito con calma dalla stanza.
Improvvisamente, le parve che le privazioni della loro vita, la sua, quella di Aziza e di Mariam, fossero semplicemente sparite, evaporate, come le impronte dei palmi di Zalmai dallo schermo della tv. Le sembrò, per assurdo, che fosse valsa la pena di aver sopportato tutto quello che avevano sopportato, per quest’unico stupendo momento, per questo atto di sfida che avrebbe posto fine a tutte le ingiurie sofferte.
Laila non si rese conto che Rashid era rientrato in soggiorno. Finché non sentì la sua mano che le stringeva la gola. Finché lui non la sollevò da terra e non la scaraventò contro la parete.
Così da presso, la faccia ghignante di Rashid le parve incredibilmente larga. Con l’età, si era come gonfiata, e il reticolo dei capillari rotti del naso si era dilatato. Rashid non disse niente. E in realtà cosa c’era da dire, che bisogno c’era di dire qualcosa, una volta che avevi infilato la canna della pistola nella bocca di tua moglie?
Avevano scavato la buca in cortile per via delle irruzioni dei talebani. A volte erano mensili, a volte settimanali. Da qualche tempo si verificavano quasi giornalmente. Per lo più i talebani confiscavano roba, davano un calcio nel didietro a uno, una botta in testa a un altro. Ma a volte c’erano pestaggi pubblici, frustate sulla pianta dei piedi o sui palmi delle mani.
«Piano piano» disse Mariam inginocchiata sul bordo della buca. Vi calarono dentro la tv, ciascuna tenendo per un’estremità il foglio di plastica in cui l’avevano avvolta.
«Così dovrebbe andar bene» disse Mariam.Una volta riempita la buca, spianarono e batterono la terra, gettandone qualche badilata attorno in modo da mimetizzare lo scavo.
«Ecco fatto» disse Mariam pulendosi le mani nel vestito.
Si erano messe d’accordo che avrebbero disseppellito la tv, quando le irruzioni dei talebani si fossero fatte meno assidue, tra un mese, due, sei, o forse più.
Nel sogno di Laila, lei e Mariam sono in cortile, dietro il capanno, e stanno scavando. Ma questa volta è Aziza che calano nella terra. Il respiro di Aziza appanna il foglio di plastica nel quale l’hanno avvolta. Laila vede i suoi occhi terrorizzati, i palmi bianchi delle mani che battono e spingono contro la plastica. Aziza le supplica. Laila non sente le sue grida. “Solo per qualche tempo,” le urla nella fossa “è solo per qualche tempo. È per via delle irruzioni, non lo sai, amore? Quando le irruzioni saranno finite, la mamma e khala Mariam ti tireranno fuori. Te lo prometto, amore. Poi giocheremo. Giocheremo al gioco che vorrai tu.” Riempie la vanga di terra. Ma quando le prime zolle colpiscono la plastica, Laila si sveglia senza fiato, con in bocca un sapore di terra.